III Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 27 gennaio 2019

La sfida della comunione nella Chiesa

di fra Vincenzo Ippolito

Il nutrimento spirituale, la grazia che la vita sacramentale ci comunica è sempre per formare un solo corpo. Non ci sono finalità al di fuori dell’unità che sta non nell’armonia sterile tra noi, ma nel rendere presente Gesù, la sua vita, la grazia del suo perdono, la misericordia sua, lo Spirito che fa nuove tutte le cose.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (12,12-30)
Voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.

 

Fratelli, come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo.
Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato?
Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?

 

Stiamo prendendo il mare aperto del Tempo Ordinario e la liturgia della Parola ci offre significativi spunti di riflessione e preghiera perché il nostro cammino riceva energie sempre nuove. Ogni volta che la Chiesa imbandisce la mensa della Parola, nella liturgia, lo Spirito soffia nelle vele della barca della nostra vita e così procediamo, certi che è Dio a condurci nella storia.
La pagina evangelica che la liturgia ci dona oggi (cf. Lc 1,1-4; 4,14-21) unisce il prologo di Luca alla sua opera, legato al racconto di Gesù che, entrato nella sinagoga di Nazaret, legge il libro di Isaia e mostra come la sua vita realizzi la parola del profeta. Su di Lui è sceso lo Spirito, che lo ha consacrato con l’unzione; è Lui l’inviato “a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19). Per sottolineare quanto sia importante, nella vita di fede la lettura e la meditazione della Scrittura, la Prima Lettura ci offre di ascoltare il racconto di Neemia (cf. Ne 8,2-4.5-6.8-10), circa l’operato del sacerdote Esdra. Nel periodo del dopo esilio, per ricostruire l’identità del popolo, non solo si ritiene importante l’opera di ristrutturazione materiale del tempio e della nazione d’Israele, ma si comprende che il primo lavoro è quello di rincentrare il cuore del popolo nell’ascolto di Dio, attraverso un ritorno alla sua Parola. È quanto fa il sacerdote Esdra. La Seconda lettura (1Cor 12,12-30), invece, continuando il brano della Prima Lettera ai Corinzi, letto la scorsa domenica (cf. 1Cor 12,4-11), ritorna sul tema dell’unità, che deve sempre caratterizzare ogni comunità che ha in Cristo esistenza, energia e vita.

Quando è la Parola di Dio a risuonare nella Chiesa (Prima Lettura), il discepolo scopre nella scrittura la volontà del Padre, che risplende nella vita di Gesù. È Lui che realizza la Scrittura (Vangelo) e dona il suo Spirito, perché si diventi in Lui un cuor solo ed un’anima sola (Seconda Lettura).

L’uso delle immagini, nell’annuncio del Vangelo

Dopo aver chiarito come la diversità dei doni dello Spirito non debba generare la divisione, ma condurre la comunità al reciproco arricchimento, accogliendo le differenza come segno dell’opera di Dio tra i credenti, Paolo continua la sua argomentazione, insistendo sempre sulla necessità dell’unità. Questo richiede – sembra che venga detto tra le righe – la conversione personale, perché non si può costruire l’unica Chiesa di Cristo, se ciascuno cerca la realizzazione ed il tornaconto personale. L’Apostolo sa bene che è dura da sradicare la pretesa di prevaricare sull’altro, considerandosi superiore, come anche di considerare che è l’unità la prova che lo Spirito circola nella sua Chiesa ed orienta ogni attività al reciproco arricchimento.

Il brano liturgico è ben delimitato, segue la prima parte del capitolo dedicata ai carismi (cf. 1Cor 12,1-11) e precede l’inno alla carità (cf. 1Cor 12,31-12,13), che la liturgia ci donerà in parte la prossima domenica. Tutta la riflessione dell’Apostolo verte sull’immagine del corpo umano, utilizzata per far meglio comprendere come l’unità nella diversità sia, al tempo stesso, dono dello Spirito e sfida per il credente. Prima di fermarsi sul contenuto dell’argomentazione paolina, è importante riflettere sulla modalità con cui Paolo porta avanti il suo insegnamento. L’Apostolo si era già fermato, aprendo la Lettera, sulla necessità di annunciare la croce di Cristo, senza che le parole potessero svuotarne o depotenziarne la portata salvifica e l’impatto scandaloso, per coloro che si fanno forti della sapienza umana, contraria a quella divina ed ispirata (cf. 1Cor 1,17). Egli era ben consapevole di quanto la forma potesse prevalere sulla sostanza. Per questo, cerca di ben studiare le figure e le parole che utilizza. Nulla deve mettere in ombra l’annuncio della croce di Cristo e condurre i credenti a non comprendere nel giusto modo i misteri della fede. Se utilizza l’immagine del corpo è perché, essa, al tempo stesso, serve per sottolineare l’unità dello Spirito e la diversità dei suoi doni. Difatti, la realtà dell’immagine aiuta meglio l’interiorizzazione dei contenuti, così i Corinzi potranno confrontarsi con delle parole che trovano maggiore concretezza e incisività nella figura proposta e anche coloro che non hanno dimestichezza con i concetti saranno in grado di comprendere quanto il loro padre nella fede sta loro indicando.

Argomentare per immagini è una nota che caratterizza l’educazione classica. L’esempio, che accompagna l’insegnamento morale, serve a chiarire meglio ciò di cui si sta parlando e ad indicare la finalità a cui il comportamento richiesto vuole che si giunga. Così alle parole si fa seguire sempre delle esemplificazioni – si pensi al comandamento dell’amore del prossimo, seguito dalla parabola del buon samaritano (cf. Lc 10,25-37) – perché l’immagine è carpita meglio dalla mente e la sua plasticità facilmente ricordata. La figura rappresenta una proposta concreta di confronto, perché l’esemplificazione offre un modello a cui tendere, traduce il fine da raggiungere, l’ideale da realizzare. Se, nel Medioevo, le pareti delle nostre chiese, si arricchivano di affreschi con scene della Scrittura era proprio perché si era ben compreso l’uso pedagogico dell’immagine che divenivano la Bibbia dei poveri. Come ogni educatore, così anche Paolo vuole che il modello sia sotto lo sguardo del discepolo, perché ne ecciti la volontà e ne muova l’impegno, senza fermarsi ad esso. L’esempio è importante, ma bisogna che abbia una ricaduta nel presente e che diventi proposta concreta, nel rispondere al meglio a ciò che viene chiesto. Non deve mancare la prudenza, anche in questo campo e Paolo lo sa bene. L’immagine non deve prevalere sul contenuto, ma chiarirlo, né far passare in secondo piano l’insegnamento – si pensi alla pubblicità. La parola che si ascoltano divengono secondarie, perché la vista ha la meglio – perché bisogna sapere andare oltre e fermarsi a ciò che veramente conta.

Trovare sempre forme che mettano in luce la bellezza del Vangelo e mai prevalgano sul contenuto dell’annuncio è una preoccupazione che bisogna sempre avere, soprattutto oggi, in cui è divenuto sempre più urgente la nuova evangelizzazione. Contenuti chiari richiedono forme e modalità altrettanto inequivocabili, perché la potenza della croce e la bellezza della fede rifulga in ogni nostra parola e gesto, senza offuscarne la portata. Paolo ci insegna che l’educazione alla fede deve servirsi delle molteplici possibilità a nostra disposizione, senza fermarsi alla forma però. I disegni servono durante il catechismo a meglio aiutare i fanciulli a comprendere i contenuti basilari delle parabole di Gesù, ma la catechesi non è un corso di pittura e in genere le arti sono importanti nella socializzazione dei fanciulli, ma un oratorio non è una ludoteca. Sono i contenuti evangelici, le realtà della fede che devono passare, senza che le modalità vengano assolutizzate e prendano il sopravvento sull’essenziale.

Un solo corpo, un solo Spirito

Se in precedenza (cf. 1Cor 12,1-11) l’attenzione di Paolo era rivolta a far comprendere come lo Spirito susciti i molteplici doni che arricchisco la Chiesa e la rendono un’unica realtà presente nella storia, ora, invece, l’Apostolo vuole mostrare che l’unità dei carismi, la collaborazione tra i credenti non conduce solo all’armonia comunitaria e alla concordia tra i fedeli, ma crea una realtà totalmente nuova, che è il frutto della presenza e dell’azione dello Spirito del Risorto. L’unità della Chiesa non è la somma di singole persone, che hanno le stesse idee e condividono il medesimo ideale. Se così fosse, sarebbe una realtà unicamente orizzontale, una comunità umana come altre. La Chiesa è il corpo di Cristo e i doni che lo Spirito concede ai singoli sono finalizzati a mostrare nella storia la presenza del Risorto. Si tratta quindi di una dimensione verticale della fede, che arricchisce quella orizzontale costituita dai suoi membri. Noi da soli, non riusciamo a fare nulla di buono, ma noi con Dio diveniamo potenti, per la grazia dello Spirito che abita in noi. Per questo l’apostolo scrive “come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo” (v. 12). Non dice così anche noi, ma così anche Cristo, perché è Lui il soggetto, suo è il corpo e sue le membra che lo compongono. Il centro dell’insegnamento di Paolo è la presenza di Cristo nella storia, attraverso il suo corpo che è la Chiesa. I Corinzi devono capire che il cuore nevralgico della questione dei carismi è il nostro essere presenza di Gesù Cristo. L’unità che lo Spirito suscita nella Chiesa è il corpo del Signore risorto, questo significa che se non c’è comunione tra noi, nella storia non risplende la presenza del Risorto e nostra è la responsabilità di tale mancanza. Con la testimonianza della vita, la coerenza tra gesti e parole, la mutua carità ed il soccorso dei bisognosi dimostriamo che Cristo cammina nella storia con i nostri piedi, agisce con le nostre mani, parla con le nostre labbra, guarda con i nostri occhi, pensa con la nostra mente ed ama con il cuore nostro, abitato dalla grazia dello Spirito.

Il problema vero delle nostre comunità non sono le numerose attività pastorali, ma l’essere il corpo di Cristo, il diventare una sola cosa in Lui, lasciando che naturalmente ogni membro senta di appartenere all’altro, come la mano al corpo. Ora tale realtà è dono di Dio, frutto della grazia del battesimo. È con quell’acqua che noi abbiamo la necessità di appartenere l’uno all’altro, perché la caparra dello Spirito ha impresso in noi l’appartenenza a Dio Padre, che sarebbe poi la grazia della figliolanza e l’appartenenza all’altro, che è la grazia della fraternità tra noi. Per questo l’apostolo può dire “noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.” (v. 13). Battezzati e dissetati è questa la nostra duplice identità, che ci viene dallo Spirito Santo, dono del Risorto alla sua Chiesa, ma queste due realtà, così vive e profonde in noi per divenire “in un solo corpo”, per essere un solo corpo. Per questo la Chiesa ci fa cantare, nella Liturgia delle Ore: Frumento di Cristo noi siamo/cresciuto nel sole di Dio,/nell’acqua del fonte impastati,/segnati dal crisma divino./In pane trasformaci, o Padre,/per il sacramento di pace:/un Pane, uno Spirito, un Corpo,/la Chiesa una-santa, o Signore. Paolo poi dice che “tutti” siamo stati battezzati, “tutti” ci siamo dissetati “Giudei o Greci, schiavi o liberi”. Dio, infatti, non fa differenza di persone, per questo Pietro potrà dire, nella casa di Cornelio “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga.”(At 10,34-35). L’Apostolo riprenderà questo concetto dell’universalità della salvezza e della grazia divina che raggiunge tutti, scrivendo ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco, né schiavo né libero né maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28)

Nel battesimo abbiamo ricevuto l’acqua dello Spirito che ci amalgama per essere insieme presenza di Cristo, nel mondo di oggi. Ci siamo avvicinati al costato del Signore, per abbeverarci a quella mistica sorgente e succhiare il miele ed il latte della dolcezza. Scrivendo al suo discepolo Tito, vescovo della Chiesa di Creta, Paolo userà immagini molto simili “egli [Dio] ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna.” (Tt 3,5-6). È il lavacro del battesimo la fonte della santità della Chiesa e non c’è santità, se non partecipando alla vita del Salvatore, inebriandoci del suo mistero pasquale, alimentandoci con l’acqua del suo Spirito che è per noi vita senza fine. Come battezzati, noi viviamo immersi nella vita dello Spirito, grondiamo della sua grazia, siamo interiormente unti della sua unzione divina. Il nutrimento spirituale, la grazia che la vita sacramentale ci comunica è sempre per formare un solo corpo. Non ci sono finalità al di fuori dell’unità che sta non nell’armonia sterile tra noi, ma nel rendere presente Gesù, la sua vita, la grazia del suo perdono, la misericordia sua, lo Spirito che fa nuove tutte le cose.
Se riuscissimo ad operare nelle nostre famiglie e comunità, avendo come unico scopo l’unità di Cristo tra noi! Se lasciassimo alla grazia del battesimo di renderci un cuore solo ed un’anima sola, nell’amore e nel dono, nell’affetto e nello scambio, nel dialogo e nell’accoglienza! Il Signore vuole che portiamo frutti, che facciamo trafficare i talenti, che nelle sue mani la nostra povertà di mezzi diventi ricchezza da condividere.

Molti chicchi un solo pane

L’immagine del corpo permette all’Apostolo di considerare quanto sia necessaria la diversità nella Chiesa e come tutti siamo chiamati a collaborare, senza considerarci superiori agli altri, ma parte integrante di un solo corpo. In tal modo, Paolo può riprendere indirettamente il tema delle divisioni e degli scismi (cf. 1Cor 1,10-17), per considerare che nessuno può fare a meno del fratello, sia dei doni che ha, ma soprattutto del suo essere dono di Dio, per la comunità, con la sua stessa vita. Il versetto 14 introduce l’anello successivo dell’argomentazione, la pluralità delle membra nel corpo – “il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra” – per poi far parlare, utilizzando una finzione letteraria ora il piede – “Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo” (v. 15) – ora l’orecchio – “E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo” (v. 16) – così da mostrare che non è il parere personale o il sentire di un membro a determinare la sua indipendenza vitale dal corpo. Nessuno, sembra dire l’Apostolo, può avere la pretesa di esistere, senza essere in relazione vitale con l’altro. Può anche dire di non aver bisogno della persona che gli vive accanto, “non per questo non farebbe parte del corpo” ripete per ben due volte l’apostolo. L’appartenenza al corpo ecclesiale che è presenza di Cristo non dipende da quello che io credo e sento, ma è una realtà che affonda le sue radici e la sua forza nel battesimo. Nessuno può estraniarsi dalla Chiesa, pena la non appartenenza al Signore ed il vivere nella pura illusione di poter fare da solo. Non c’è falsità più grande che insinua il demonio, che quella di poter bastare a se stessi e vivere senza l’aiuto di Dio e lontani dalla società degli uomini.

Dobbiamo smascherare in noi e negli altri la pretesa di vivere da soli e di poter fare tutto senza che gli altri ci aiutino. Altrettanto errato è credere di aver bisogno solo di Dio, perché il Signore si dona attraverso i fratelli e ci usa la sua grazia, attraverso le mediazioni storiche, che sceglie per raggiungerci. Molte “sono le membra, ma uno solo è il corpo” (v. 20) perché “Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto” (v. 18). Dio ci ha voluti distinti e, quindi, complementari tra noi. A dire è lo stesso apostolo che, sempre attraverso la finzione letteraria, fa parlare ora l’occhio alla mano ora la testa al piede «Non ho bisogno di te» (v. 21).
Non c’è arroganza più grande, superbia più grave di credere di bastare a se stessi. C’è un peccato più grave, tra sposi, di dire Non ho bisogno di te? Questo è il rifiuto della grazia nuziale, l’antipromessa che capovolge il gesto del reciproco dono, dell’ “Io accolgo te”. Mai parola come queste devono uscire dalle nostre labbra, mai una persona deve sentirsi tanto indipendente ed egoista da poter credere di non dover mendicare l’amore e l’attenzione, la cura e il dialogo dell’altro. Due sono quindi per Paolo le espressioni che denotano una chiara immaturità di fede e una dinamica palesemente illusoria, che è frutto dell’istigazione diabolica, il dire Non appartengo al corpo e l’affermare Non ho bisogno di te. Con la prima ci si autoesclude, uscendo dalla comunione, con la seconda ci si considera superiori e ci si allontana dagli altri. Parole come queste sono il segno che camminiamo nelle tenebre, nel regno della morte. Il discepolo di Cristo, invece, sa che Dio ha così disposto la Chiesa “perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre” (v. 25). Avere cura e soffrire insieme (cf. v. 26) sono gli antidoti che l’Apostolo dona per sentirsi parte della vita dei fratelli e sradicare ogni forza di divisone e discordia nella Chiesa.

Guardando al nostro essere Chiesa

Il brano liturgico può essere facilmente diviso in tre parti. Dopo l’introduzione, che funge da sommario (vv. 12-13) e lo sviluppo dell’immagine del corpo (vv. 14-26), l’ultima parte (vv. 27-30) serve proprio per applicare alla Chiesa il rapporto membra-corpo, precedentemente dimostrato. L’incipit dell’ultima parte è data dalla frase: “Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra.” (v. 27) che introduce le molteplici funzioni che si esercitano nella Chiesa – gli apostoli, i profeti, i maestri, i miracoli, il dono guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue (v. 28) – per l’utilità comune. Fare la propria parte farla bene, potrebbe essere questa la sintesi dell’insegnamento dell’Apostolo, a patto che questo comporti vivere la sfida della comunione e la bellezza del riconoscere che Dio elargisce a tutti i doni della sua grazia, per far comparire “la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,27).




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1 risposta su “La sfida della comunione nella Chiesa”

É veramente un sfida, vivere la COMUNIONE NELLA CHIESA, ma lo Spirito Santo viene in nostro aiuto. E con Lui camminiamo con fiducia!…

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