IV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 3 febbraio 2019

La carità, la via sublime dell’amore di Cristo

Mani

foto: @Di KonstantinChristian - Shutterstock.com

di fra Vincenzo Ippolito

Le nuove generazioni hanno bisogno di genitori da imitare, di modelli da seguire, di parole che, passate attraverso la sofferenza, hanno la forza del fuoco, per imprimersi nei cuori in modo indelebile. Abbiamo bisogno di presbiteri e consacrati, che con radicalità evangelica, vivano ciò che, con franchezza ed amore, annunciano

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (13,4-13)
Rimangono la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di tutte è la carità.

 

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

 

Continua la nostra navigazione nel grande mare del Tempo Ordinario. Il Signore soffia nelle nostre vele e dirige la barca, verso la gioia. La liturgia domenicale rappresenta un momento di sosta, per riprendere fiato e fare scorte sufficienti per tutta la settimana di mare aperto. Più interiorizziamo la grazia che ci viene offerta e maggiore sarà la forza, per tenere fisso lo sguardo alla stella polare, che guida il nostro cammino.
La Prima Lettura ci offre il brano classico della vocazione del profeta Geremia (cf. Ger 1,4-5.17-19). L’autore ispirato sembra mettersi da parte, perche sia Dio ad intervenire, donando al suo eletto la grazia di comprendere il progetto divino sopra di lui. “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”. Non si tratta certo di una missione semplice, ma il Signore non fa mancare la sua forza “oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese”, perché chi confida in Lui non venga deluso (cf. Sal 70). Continuando la lettura del racconto lucano della scorsa domenica – Gesù nella sinagoga di Nazaret, all’inizio della sua vita pubblica, si presenta come il consacrato di Dio, che realizza le antiche Scritture (cf. Lc 4,14-21) – il Vangelo (cf. Lc 4,21-30), presenta i Nazaretani che non accolgo la testimonianza del Signore, mostrando come la sua sia la tipica vocazione del profeta, respinto dagli uomini, ma scelto, guidato e voluto da Dio. Invece, nella Seconda Lettura, tratta sempre dalla Prima Lettera ai Corinzi (1 Cor 12,31-13,13), san Paolo addita la carità come il carisma più grande, a cui ogni discepolo deve tendere.

Solo l’amore che il Signore riversa in noi (Seconda Lettura) è forza per vivere la nostra vocazione ad essere profeti di Dio in mezzo al suo popolo (Prima Lettura), accogliendo di buon grado le contrarietà del ministero a cui siamo stati chiamati (Vangelo). La Parola di Dio è molto incisiva oggi che celebriamo la 41a Giornata della vita, dal titolo È vita, è futuro. Solo chi ama sa accogliere la vita nascente, nella gioia e nelle difficoltà, solo chi ama, riconosce nel frutto del grembo il mistero della vita, di cui nessuno può sentirsi padrone, ma unicamente custode e servo.

Tendere ai carismi più grandi

La liturgia ci offre oggi come Seconda Lettura il brano della Prima Lettera ai Corinzi, conosciuto come Inno alla carità (cf. 1Cor 13,4-13). Da più domeniche l’Apostolo sta guidando la nostra riflessione sui carismi, che lo Spirito suscita nella Chiesa, per l’utilità comune. Prima abbiamo visto come la diversità dei doni conduca la comunità cristiana al reciproco arricchimento (cf. 1Cor 12,4-11); in seguito Paolo ci ha portati a vedere la Chiesa come un corpo solo, pur con differenti membra (1Cor 12,12-30); oggi giungiamo alla cima, contemplando il dono dei doni, il cuore amante della Chiesa che sostiene tutto il Corpo del Risorto.

L’ultimo versetto del capitolo XII è considerato l’introduzione al nostro brano. Scrive l’Apostolo “desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime” (v. 31). La comunità di Corinto sperimenta la vivacità dei doni dello Spirito, ma il credente, sembra dire tra le righe l’autore, desidera i carismi non per un prestigio personale, ma perché la Chiesa cresca sempre più nell’unità che lo Spirito genera, con la sua multiforme presenza. La prova provata che un dono viene da Dio ed opera, con la nostra collaborazione, nel giusto modo, è proprio la volontà di non appropriarsene egoisticamente e di metterlo a frutto, nella vita comunitaria, perché sia come il lievito nella pasta. I carismi sono differenti, pur se provengono da un stesso Spirito (cf. 1Cor 12,4-6). Differenti non significa che ci sia una scala, nella quale, chi sta sul gradino più basso è inferiore rispetto a chi è più in alto. Il carisma non è qualcosa, ma Qualcuno, è la presenza dello Spirito di Cristo risorto in noi. Il Paraclito è sempre uguale a se stesso ed abita il cuore di ogni battezzato. Ciò che cambia ed è differente è, invece, la “manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune” (1Cor 12,7). Dio, presente in noi, opera in maniera multiforme, sia perché, avendo caratteri e temperamenti diversi, offriamo a Lui differenti disponibilità alla sua volontà di manifestarsi in noi, ma anche perché ciascuno nella Chiesa ha il suo compito, per il quale riceve un dono particolare. “Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra” (1Cor 12,27).

Pensando ai carismi dello Spirito, non dobbiamo credere che il Signore sia ingiusto, elargendo i suoi doni, come vuole, perché il criterio che Cristo usa, nel donare misericordia, è proporzionato alla nostra capacità di far fruttificare il suo dono. Per questo, nel raccontare la parabola dei talenti, l’evangelista Matteo specifica che vengono consegnati “secondo le capacità di ciascuno” (Mt 25,13). La grandezza o meno dei doni di Dio è in vista della missione, da esercitare nella Chiesa e nella società. Staccando il discorso sui carismi, dal fine per cui sono stati elargiti – il bene del corpo di Cristo, che è la Chiesa – siamo portati ad assolutizzare il singolo dono, perdendo la visione di insieme, che non è di certo secondaria. L’azione dello Spirito è proporzionata alla vocazione e se non si comprende questo saremo sempre portati a credere erroneamente la presenza di Cristo in noi e, magari, a guardare con gelosia le persone che hanno avuto doni differenti, perché diversi sono i compiti chiamati ad esplicare nella comunità.

Ma se questo è vero, perché mai l’Apostolo chiede di tendere “intensamente i carismi più grandi”? Paolo, usando l’espressione più grande, in realtà suppone che ci sia anche una vocazione più grande, ovvero un bene da operare, all’interno della comunità, che presupponga una diversa azione di Dio, una manifestazione differente dello Spirito, “per il bene comune” (1Cor 12,7). Questo vuol dire che, leggendo la Scrittura, dobbiamo entrare nel pensiero di colui che scrive e, nel caso specifico dei doni dello Spirito, dobbiamo domandare la grazia di uscire dalla nostra mentalità meritocratica e gerarchica, per capire che la Chiesa non è una piramide, ma un corpo, dove tutti hanno un ruolo, tutti egualmente importanti, per la vita della persona.

Una vita in continua tensione

Leggendo il brano liturgico, colpisce il verbo che Paolo utilizza “desiderate intensamente” (v. 31), che ben traduce l’originale greco. La vita cristiana non è fatta per i mediocri, per coloro che si accontentano, che credono di poter sbarcare il lunario, a furia di espedienti. Il cammino di sequela dietro a Cristo è fatto per anime generose, per uomini forti e audaci, per donne coraggiose e decise, perché come si può camminare verso la croce, se il cuore non è interiormente consumato dal desiderio, se la mente non è polarizzata su Cristo, se il corpo non è consegnato in olocausto alla causa del Regno? Come procedere dietro Gesù, se il timore ci assale, le tenebre vincono, il demonio ci abbatte? Questo non vuol dire che non si possa cadere nella corsa, ma che mai bisogna allontanare lo sguardo dal premio. È necessario desiderare con impegno, ricercare con ansia, aspirare con ardore, non le cose della terra, quanto, invece, la presenza di Dio, la sua grazia, la potenza del suo amore in noi. La vita cristiana deve essere vissuta e spesa in continua tensione, dobbiamo sentire l’ansia del Regno, struggerci per la causa del Vangelo, avvertire in noi la sollecitudine per tutte le chiese, portare nel corpo i segni della croce del Redentore. Dobbiamo bruciare dal desiderio di compiere la volontà del Padre, donando al mondo la salvezza. È questa la tensione che caratterizza la vita di Paolo. Se non c’è questo trasporto interiore, come vivere la gioia? Se non avvertiamo in noi il desiderio di essere con Cristo, come sopportare la calura del giorno e il peso del lavoro, nella vigna del Signore? “Non è infatti idoneo, in certo modo, alle divine contemplazioni che conducono ai rapimenti dello spirito, se non colui che è, come Daniele, uomo di desideri (Dn 9, 23)” scrive san Bonaventura, nel suo Itinerario della mente in Dio (Prologo 3).

Ad accendere il nostro desiderio, a spingerci ad una intensità sempre maggiore, ad un rapporto più bello e profondo con Dio e i fratelli, nella forza dello Spirito, è l’incontro con Cristo. È Lui che accende in noi il fuoco del desiderio, come nei due di Emmaus che confidano, sulla strada del ritorno, verso Gerusalemme “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32). È Gesù che ci porta a vivere intensamente ogni momento della nostra esistenza, a gustare l’assolutezza del suo sguardo e a lasciare che la sua parola determini il nostro cammino? È Lui che rompe la corazza delle nostre false sicurezze, che ci spinge a guardare i sogni e i desideri che ci portiamo nel cuore, che diamo fiato alle voci belle del nostro mondo interiore. Solo Cristo ci insegna a non aver paura dell’amore e a puntare tutto noi stessi sulla forza dell’amore, sullo Spirito che, in noi, è capace di fare meraviglie.

Perché ci accontentiamo di poco, nella vita di fede, nella relazione con Dio, come anche nei nostri rapporti? Giochiamo sempre al risparmio, all’avere il massimo rendimento, con il minimo sforzo. Cerchiamo in ogni modo di non sporcarci le mani, di essere distaccati da ogni cosa, non mettendo il cuore in ciò che facciamo. La vita ci scivola addosso, impermeabili a tutto, anche le cose più belle e vere, dopo poco, vanno via, sono come il seme del buon Seminatore, sulla strada è rubato da Satana, tra le pietre, le radici sono seccate dalle tribolazioni e persecuzioni, tra i rovi le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza impedisce la crescita ed il frutto a suo tempo. Perché il nostro cuore non desidera più, se non la superficialità di oggetti che, riempiono le mani, ma lasciano vuoto il cuore? Perché, nei nostri rapporti, tante volte non rischiamo, non ci esponiamo, non vogliamo fare il primo passo, perché abbiamo paura di illuderci, credendo che il senso della realtà ci porti a dover essere concreti – è questa una delle tentazioni più sottili di Satana – così da abbandonare i sogni, i desideri belli, le ansie che lo Spirito ci mette nel cuore.

Non basta desiderare, è importante anche ben fissare lo sguardo sull’oggetto desiderato, perché non sempre vale la pena di giocare il tutto per tutto, se il bene voluto è passeggero. Dobbiamo sì, aspirare, ma ai “i carismi più grandi”, avere il coraggio di rischiare su Dio, di tendere, con tutte le forze verso Lui. È forse difficile guardare a Lui, per divenire raggianti? È forse impossibile, visto che è Lui a donarci per primo e a mandare il suo Figlio, come vittima di espiazione, per i nostri peccati? Non possiamo accontentarci nella vita cristiana, perché siamo chiamati a fare grandi cose, a lanciarci contro le schiere con Dio, a scavalcare le mura con Lui (cf. Sal ). La sequela è un cammino sempre in avanti, nel quale si cerca di diventare migliori, perché da Dio si riceve la forza del suo Spirito, per non abbattersi nelle difficoltà e scalare sempre la cima, sapendo che Cristo è il nostro capocordata. Ci sono delle cose più grandi, delle situazioni migliori, delle imprese più belle, dei desideri più audaci. La vita cristiana è scandita da questo meglio da ricercare, dal di più da attuare, perché chi si ferma sulla via del dono, sta arretrando sulla strada dell’amore.

Un maestro che indica la via

In questo itinerario di progressiva scoperta dei carismi, Paolo si propone come impareggiabile maestro. Interviene, infatti, con il suo io – “vi mostro la via più sublime” (v. 31) – indirettamente dicendo che lui conosce la strada di questo meglio, perché ha diretta esperienza del di più che indica ai cristiani di Corinto. Non è la prima volta che l’Apostolo si pone come modello. Difatti, “fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi” (Fil 3,17), scrive ai Filippesi, mentre sempre ai Corinzi, volendo rivendicare la sua paternità, dice “Vi prego, diventate miei imitatori!” (1Cor 4,16-17). L’Apostolo sa di essere un semplice mediatore, perché attraversi di lui è Cristo stesso, che annuncia il Vangelo e dona la salvezza. Per questo può dire “Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1). Paolo ha percorso in prima persona la via dell’amore e, proprio perché ha lasciato tutto, per Cristo (cf. Fil 3,8), che è al sua vita (cf. Fil 1,21), può indicare la strada sublime che conduce alla gioia. Non ha paura di mostrare la misura alta della santità cristiana e si additare Cristo, esempio impareggiabile di cosa significa vivere l’amore. Paolo, al pari del Battista, ha lo sguardo puntato su Cristo, perché sa bene che è Lui che toglie il peccato del mondo, l’incapacità dell’uomo di vivere nell’amore e di consegnarsi nel dono.

La “via più sublime” è Gesù, è Lui che conduce a questo di più, che l’Apostolo conosce ed indica ai Corinzi. È Cristo “la via nuova e vivente” (Eb 10,20), perché nessuno giunge al Padre, se non per mezzo di Lui (cf. Gv 14,6). Dobbiamo seguire le orme dell’Agnello, se vogliamo scoprire i doni più grandi e giungere all’amore vero, che unifica le diverse membra del corpo di Cristo, vivificandole. Dobbiamo guardare a Gesù, sempre, tenendo fisso lo sguardo su di Lui. Non ci sono altre strade, altri criteri, differenti modalità e svariati cammini. Il mondo semina la fatua speranza di una felicità a buon mercato, di ricette semplici, di corse che giungono presto alla meta. La via più sublime che Paolo conosce è Cristo crocifisso (cf. 1Cor 2,2), fuori di questa strada non c’è la gioia. Si tratta di una via esigente, in salita, ma un amore che non conosca il sacrificio e l’offerta, il silenzio e il dono, non è amore, ma egoismo. Imboccare questa strada significa camminare nella carità. La sequela di Gesù è il cammino dell’amore che conduce al dono. I discepoli sono condotti a rinnegare il proprio io egoistico e autoreferenziale, per diventare persone che sono mature nell’amore. Diventare maturi nell’amore, questa è la meta a cui lo Spirito ci vuole far giungere, la sua opera in noi serve proprio a condurci a comprendere che senza amore tutto è vano e l’amore è comunione, perche nessuno può credere di essere veramente felice da solo.

La nostra è la società che ha perso la gioia della paternità e della figliolanza, prima di tutto naturale – non c’è aberrazione più grande, che quella di parlare di padre e madre biologici, come se l’essere genitori fosse un dato che prescinde la carne e il sangue e non piuttosto il naturale sviluppo della relazione inscritta nel proprio codice cromosomico – non abbiamo più padri e madri che sanno essere maestri, che indicano la meta ardua da raggiungere per essere felici, che sanno stare accanto ai figli, quando c’è bisogno non di chi li rialzi, ma di chi gli dice, con tenerezza, Alzati, ce la puoi fare. Abbiamo genitori che sono balie, che accudiscono come badanti, perché non aiutano a crescere, ma ad evitare sforzi, perché incapaci di affrontarli. Dobbiamo riscoprire la bellezza della vita e di ciò che essa ci dona, della grazia del trasmettere il desiderio della gioia e di cercarla insieme, di sapere che esiste e che possiamo raggiungerla, con Cristo, senza mai scoraggiarci. Le nuove generazioni hanno bisogno di genitori da imitare, di modelli da seguire, di parole che, passate attraverso la sofferenza, hanno la forza del fuoco, per imprimersi nei cuori in modo indelebile. Abbiamo bisogno di presbiteri e consacrati, che con radicalità evangelica, vivano ciò che, con franchezza ed amore, annunciano. Chi deve indicare alle nuove generazioni la via sublime dell’amore di Cristo? Chi può spingere i giovani a credere che nulla è impossibile a chi ama, crede, spera, guardando Gesù? Un nuovo mondo è possibile, una società che accolga il diverso come fratello e sappia aprire le porte del cuore al lontano e allo straniero non è un’utopia, ma il sogno che Cristo dona ai suoi come comandamento per essere vissuto e presenta al Padre nella preghiera, per effondere la sua forza su quanti vorranno vivere come Lui, sulla via ardua e sublime dell’amore che non si ferma dinanzi all’odio, ma che è capace di trasformare anche la morte e la violenza, assumendola.

Guardando il volto luminoso del Signore

L’inno alla carità che segue (vv. 1-13) è l’esegesi della vita di Gesù. È come se Paolo prendesse in mano il cuore divino del Signore, per analizzarne i sentimenti, i moti del suo animo, il senso dei suoi giorni, le tensioni e i desideri che hanno tenuto insieme il suo donarsi. Ciò che l’Apostolo insegna non è pura speculazione, ma concretezza, perché l’amore non accoglie la contraddizione del reale, che non assume la difficoltà, come crogiolo per purificarsi e banco di prova per verificarsi, non si può dire vero, autentico, profondo, duraturo e fedele. Si tratta di una esortazione che, con parole diverse, Paolo sempre donerà alle sue comunità, come quando, scrivendo ai Filippesi dirà “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5).
Solo il libro della croce ci rivela che tutto è vano senza amore, che le lingue, la profezie, la scienza non sono nulla, se l’amore non le vivifica e plasma, visto che “la scienza gonfia, la carità edifica” (1Cor 8,1). A queste parole fa eco san Bonaventura, che scrive nel suo Itinerario: “[nessuno] creda che gli possa bastare una lettura senza l’unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza lo stupore, l’osservazione senza l’esultanza, l’impegno senza la pietà, la scienza senza la carità, l’intelligenza senza l’umiltà, la diligenza senza la grazia divina, lo specchio senza la sapienza ispirata da Dio” (Prologo 4). È nella croce che vediamo come l’amore/carità sia magnanima e benigna, mai invidiosa e vanitosa, che non si gonfi di orgoglio, “non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (vv. 5-7).

Preghiera alla Vergine della Vita

A te, Maria, Madre del bell’Amore, affidiamo oggi tutte le donne, perché riconoscano il dono della via e siano pronte a difenderla, con il tuo stesso intrepido cuore. A te consegniamo le donne che non sanno difendere la vita che portano nel seno, per paura o condizionamento sociale e familiare, per violenza o per conformismo ad una società che non sa vedere l’evidenza di ciò che rappresenta non un intralcio alla proprio dignità, né il modo per affermare la personale libertà – se si ha bisogno di sopprimere un essere indifeso per dirsi liberi, significa che ogni guerra è giusta e si è malati di insicurezza – perché una gravidanza è semplicemente, naturalmente, l’esplosione del miracolo della vita. Asciuga le lacrime di quelle donne che hanno riconosciuto il proprio errore e non si danno pace, tocca il cuore di chi crede di far bene assecondando una cultura abortista, volgi a pensieri di pace le menti di chi semina la morte, servendosi della scienza. A tutti dona il tuo piccolo Gesù, perché la sua vita in noi sia sorgente di speranza e di gioia per il mondo Amen.




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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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