V Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 10 febbraio 2019

Per grazia di Dio, annunciamo il Vangelo

di fra Vincenzo Ippolito

Non possiamo credere che possa bastare professare la propria fede con le labbra, perché è la vita, la mia vita, il grido della fede che il mondo ascolta, la mia esistenza, trasfigurata dal Paraclito, che i mie fratelli possono vedere, come prova inequivocabile della potenza di Dio, al pari della vita degli apostoli dopo al resurrezione di Cristo.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)
Così predichiamo e così avete creduto

 

Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano!
A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto.
Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me.
Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.

 

Il tema che la liturgia odierna sviluppa è la vocazione. Di chiamata parla la Prima Lettura, tratta dal libro di Isaia (6,1-2.3-8). In una solenne liturgia, ambientata nel cielo, il profeta è ammesso alla presenza del Signore. Dinanzi alla gloria di Dio, tre volte Santo, Isaia avverte la sua indegnità e confessa “un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito”. Toccato sulla labbra da un serafino, non riesce a trattenere la risposta al Signore che lo chiama – “Chi manderò e chi andrà per noi?” – e, senza tentennamenti, dice “Eccomi, manda me!”. Lo stesso tema sviluppa anche la pagina tratta dal Vangelo secondo Luca (cf. Lc 5,1-11), che propone la predicazione di Gesù, lungo il lago di Genesaret, cui segue la pesca miracolosa e la vocazione di Pietro. La Seconda Lettura (cf. 1Cor 15,1-11), proponendo un brano tratto dall’ultimo capitolo della Prima Lettera ai Corinzi, richiama la predicazione della Chiesa primitiva, incentrato sul mistero pasquale di Cristo e sulla chiamata dell’Apostolo ad essere, per la grazia di Dio, annunciatore della buona Novella.

Con lo sguardo rivolto al cielo

Sul finire della sua Epistola, prima di congedarsi dai Corinzi (cf. 1Cor 16), l’apostolo Paolo dedica la sua riflessione alla resurrezione (cf. 1Cor 15,1-34), indicando con quale corpo risorgeremo (cf. 1Cor 15,35-53), per concludere poi il suo argomentare con un inno trionfale, che canta la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte (cf. 1Cor 15,54-58). La pericope liturgica odierna è tratta dalla prima parte del capitolo, a cui attingerà anche la Seconda Lettura della prossima domenica (cf. 1 Cor 15,12.16-20). Si tratta di versetti nevralgici, non solo per il contenuto che propongono, ma per il riferimento al cuore della predicazione apostolica, il mistero pasquale di Cristo.

Scrive l’Apostolo “Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto” (v. 1). Paolo, oltre a predicare il Vangelo e a suscitare la fede, si preoccupa anche di consolidare il cammino dei credenti, accompagnando la loro crescita, secondo la grazia dello Spirito. Ma si cresce nella vita spirituale, solo se si interiorizza il mistero pasquale di Gesù, che rappresenta il cuore pulsante dell’intera vita cristiana ed ecclesiale. È importante, quindi, procedere nella vita sempre tenendo fisso lo sguardo alla Pasqua di Gesù, sorgente di tutta la nostra esistenza, su cui si fonda la fede della Chiesa. Non basta ascoltarlo una sola volta, è importante che, come “l’ascolta Israele” (Dt 6,1-5) era la preghiera dei pio israelita ogni giorno, così il riferimento alla morte e resurrezione di Cristo deve plasmare l’intera esistenza credente. Paolo non sta proclamando il Vangelo – la traduzione non è esatta, perché lascia credere che l’azione di Paolo sia fatta per la prima volta – ma richiamando, ribadendo, ricordando il Vangelo, precedentemente annunciato. C’è un momento, che rappresenta quello dell’annuncio, quando ogni apostolo dona per la prima volta la parola di salvezza, ma il periodo che segue non è meno importante, perché è necessario ritornare al primo annuncio – non a caso oggi si parla di nuova evangelizzazione – al fine di perseverare nella parola ricevuta e nella grazia della conversione che ne è scaturita. Se Paolo annuncia, i Corinzi hanno ricevuto – “che voi avete ricevuto” (v. 1) – la parola del Vangelo. C’è una sorta di circolarità, nei riguardi della parola della predicazione. Al centro è sempre l’annuncio della Pasqua di Gesù, alcuni la donano con coraggio ed umiltà, in obbedienza al mandato ricevuto da Dio, altri la accolgono, con gioia, sapendo che è parola di vita e di salvezza, perché ripresentazione della potenza salvifica della croce del Signore Gesù. In questa circolo virtuoso nasce e si consolida la vita di fede, la nostra comunità cresce, la tradizione apostolica si trasmette di generazione, Cristo è la sorgente della vita nuova e della speranza. È Lui, infatti, l’anello di congiunzione tra chi predica il Vangelo e chi lo riceve, perché entrambi trovano in Cristo la sorgente della propria identità di apostoli e testimoni del Vangelo di salvezza. Si tratta di un forte vincolo educativo che Cristo ha voluto tra Paolo e i Corinzi, non è l’apostolo che lo ha cercato o preteso, perché il ministero è un dono che gli è stato affidato, né la comunità lo ha scelto, come annunciatore e padre, nel cammino di fede. La relazione formativa è un dono per entrambi, per chi dona e chi riceve, perché nella circolarità della vita ecclesiale, anche chi dona riceve e chi riceve, pur senza saperlo tante volte, dona, in quella relazione che diventa effettiva ed affettiva e crea legami che consolidano le comunità e le famiglie.

La forza di ogni azione educativa della Chiesa, della comunità ecclesiale e di ogni famiglia risiede, non solo nell’annuncio del Vangelo, ma principalmente nell’accompagnare la sua interiorizzazione e traduzione in vita, assecondando la grazia dello Spirito che Cristo ha effuso. È necessario approfondire la fede, richiamare gli inizi, ricordare il tempo della semina della parola della fede, per verificare il cammino fatto e aprirsi, con gioia, a quello da compiere ancora. La Chiesa si sviluppa e cresce in questa traditio, nella trasmissione di una parola non nostra, partecipando la grazia di cui siamo servi e dispensatori, nella vita dei fratelli. Paolo è profondamente consapevole del suo ruolo educativo: lo siamo anche noi nelle nostre famiglie e comunità? L’Apostolo chiede di perseverare nella grazia ricevuta, con la proclamazione del Vangelo: in che modo noi camminiamo nella fede e nella speranza? Egli sente l’incisività della relazione educativa ed il suo ricordare non è pedante ripetere le cose da fare, ma proposta di ritornare alla bellezza degli inizi e di attingere sempre energie nuove dalla parola della croce che è fonte di vita nuova: e noi come diciamo le cose, come ripetiamo le note importanti, in che modo riproponiamo a noi stessi e agli altri ciò che deve e può caratterizzare la nostra vita e spingerci a vivere nella gioia?

Con il cuore nel cuore di Cristo crocifisso

L’intento di Paolo, nel ricordare la predicazione evangelica a Corinto, è quello di fare crescere nei credenti la consapevolezza che nel Vangelo “restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato” (v. 2). L’Apostolo richiama la fedeltà all’annuncio ricevuto, perché su di esso “ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore” (Ef 2,21). Esiste una fedeltà nel trasmettere la fede e una fedeltà nel viverla, fedeltà al mandato ricevuto fedeltà alla parola di salvezza accolta. Tutti siamo radicati nel mistero pasquale di Gesù Cristo, l’acqua del nostro battesimo è quella fuoriuscita dal costato del Crocifisso, la parola che la Chiesa annuncia è quella della croce (cf. 1Cor 1,18), l’unica capace di donare vita, la sola che effonde la salvezza, come un ruscello che mai si secca. Dobbiamo vivere questa duplice fedeltà, del ricevere e del dare, che comporta quella della vita, vita di Cristo in noi, vita dello Spirito in noi, amore del Padre riversato in noi. Non siamo più abituati ed educati alla fedeltà, in ogni stato di vita, tutto è soggetto alla precarietà del sentimentalismo, all’esasperazione dell’egoismo. Siamo tutti ammalati di protagonismo e di carrierismo. Invece, il Vangelo chiede l’umiltà di chi è consapevole di donare ciò che gli è stato affidato come un tesoro, da custodire come un dono, da offrire agli altri come una possibilità vitale. In colui che ascolta, il cuore si deve aprire alla Parola donata senza appropriarsi del seme sparso, in caso contrario non porterà frutto, soffocato dalle maglie delle spine che impediscono allo stelo di sollevarsi e di far nascere la spiga. Non possiamo chiedere la fedeltà della vita, se non c’è la fedeltà della trasmissione della fede. Ai nostri giovani non possiamo solo donare parole significative, sulle quali possono costruire la loro vita. Essi devono avvertire – come i Corinzi nel caso di Paolo – che la parola, l’annuncio donato con consapevolezza ed amore, è passato attraverso la propria carne, ha inciso nel proprio cuore, ha determinato pensieri diversi, atteggiamenti nuovi, purificando una vita che rischiava di divenire autoreferenziale. In questo recupero del patrimonio di fede, che l’autentica tradizione ci dona, siamo chiamati a ricomprendere che la fedeltà, nella vita cristiana, riguarda la relazione vitale con Cristo, che dona sostanza e forza ad ogni tipo di fedeltà.

Siamo troppo incentrati a pensare il cristianesimo come un insieme di norme, da osservare in maniera ineccepibile, come le regole della grammatica, chi le segue ed applica in modo esatto, parla in maniera corretta e si esprime nel modo conveniente. Anche il cristianesimo ha una grammatica, delle regole che assicurano la custodia della retta dottrina e orientano la vita di ciascun credente. Ma, prima di ogni cosa, la fedeltà è verso Cristo, che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (cf. Gal 2,20), fedeltà al suo sguardo, che è sempre rivolto verso di noi, fedeltà al suo cercarci, come buon Pastore, a parlarci, quale impareggiabile Maestro, a nutrirci, con la tenerezza di una madre. L’annuncio del Vangelo, la predicazione della Chiesa non è una parola, né si può ridurre ad una formula da applicare, ma un evento, la presenza di Dio nella nostra storia. Dio ha un volto umano, quello di Gesù di Nazaret, un corpo come il nostro, il corpo che il Verbo ha assunto nel grembo di Maria, come noi non conosce il peccato, ma il limite, la debolezza, la precarietà e la morte sì. Nel momento in cui Paolo ricorda il credo, la formula sintetica che plasma la nostra esistenza – “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” – sta trasmettendo una vita, quella di Gesù Cristo, del nostro Maestro e Signore, di colui che ha parola di vita eterna per ogni uomo. È Lui la norma da seguire, la Legge da osservare e tutto il patrimonio delle legislazioni che ci siamo dati e che la Chiesa ci propone a credere ed osservare, in nome di Dio, hanno valore per il mistero della Pasqua di Gesù, per il suo essere uno di noi, a Lui si riferiscono, il suo mistero esplicano, la nostra vita in Lui ci aiutano a vivere, con radicalità e gioia.

Non deve mancare, nella nostra giornata, il ricordo della fede battesimale, il ripetere, nel nostro pregare, il Credo, sia quello lungo – la formula Niceno-costantinipolitana, sia quello degli apostoli – comprendendo che il Signore ci chiede di essere fedeli ad una vita che Cristo ha assunto per noi e che ha donato sulla croce per noi. Dobbiamo sempre avare dinanzi agli occhi che in questa fede noi siamo innestati e traiamo la linfa che ci dona vita e salvezza. Fedeltà a Cristo significa fedeltà alla storia che Egli ci dona di vivere con Lui, una vita che, per quanto piena di contraddizioni e di difficoltà, è la vita che ciascuno condivide con Dio, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia. La nostra fede è la vita di Cristo che passa in noi, come dal capo alle membra, come il sangue che il cuore fa scorrere nel corpo. Non crediamo in qualcosa – in tal caso la fede sarebbe ideologia! – ma in Qualcuno, in Dio che si è fatto uomo e che rimane sempre con noi. Vivere la fedeltà al Vangelo vuol dire rimanere nell’amore di Cristo, rispondere al suo amore, costruire la Chiesa e rendere partecipe gli altri della potenza della resurrezione di Cristo.

Una fede che, attraverso la tradizione, diventa vita

Quello che maggiormente colpisce, leggendo il brano liturgico paolino è che la formula della fede della Chiesa non è chiusa, come capita per noi. Le nostre formule di professione di fede, battesimali o meno, sono la traduzione verbale dei misteri della nostra salvezza, culminanti nella Pasqua di Gesù e nel dono dello Spirito Santo, che ci rende Chiesa, corpo di Cristo presente nella storia. Nel caso di Paolo, invece, vediamo come la vita del Signore, attraverso la successione apostolica, giunga fino a lui, chiamato come gli altri e fra gli altri, ad essere annunciatore e testimone del Vangelo. Così egli scrive che Cristo “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto” (vv. 5-8). Il cristianesimo è la presenza di Cristo nella storia, professare Cristo come Signore, crocifisso e risorto, non vuol dire considerare la sua vita come fuori dalla mia storia personale e della società in cui vivo ed opero. Credere significa che Egli è presenza di salvezza anche per me, qui ed ora, il mistero della sua Pasqua è vivo e vivificante anche per me oggi, mi raggiunge nella mia vita, plasma i miei pensieri, spinge e dona senso al rapporto con gli altri, motiva la mia carità ed il mio impegno per un mondo migliore. Non contemplo dall’esterno il mistero in cui credo, ma sono parte del mistero di Dio, avverto che il Signore mi ha raggiunto nella vita terrena e gloriosa del suo Cristo e che la mia esistenza non può che essere trasformata dal suo Spirito. Credere in Dio vuol dire, infatti, entrare nel movimento, nel divenire di Dio che mi ha raggiunto facendosi uomo e condividendo la mia stessa vita, escluso il peccato. Credere vuol dire che la vita di Cristo, il suo amore, la fedeltà delle sue promesse, l’attualità della sua alleanza si è attualizzata per me, grazie al sangue di Cristo “dalla voce più eloquente di quella di Abele” (Eb 12,24).

Io sono un anello nella trasmissione della fede, lo è la mia famiglia, la comunità di cui sono parte, la mia fraternità religiosa in cui confesso il primato di Cristo e vivo per la vita del Risorto che è lo Spirito Santo. Non possiamo credere che possa bastare professare la propria fede con le labbra, perché è la vita, la mia vita, il grido della fede che il mondo ascolta, la mia esistenza, trasfigurata dal Paraclito, che i mie fratelli possono vedere, come prova inequivocabile della potenza di Dio, al pari della vita degli apostoli dopo al resurrezione di Cristo. Ecco perché l’Apostolo scrive ai Romani: “Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9). Credere con il cuore vuol dire proprio permettere che la fede professata con le labbra diventi vita della tua stessa vita, alito del tuo alito, linfa che ti fa vivere di Dio. Devo sapere che la fede professata non è una formula fredda da ripetere la domenica, durante la celebrazione dell’Eucaristia, ma anch’io, al pari di Paolo devo avvertire la potenza dell’Altissimo che mi abita, che bussa alla porta del mio cuore per visitarmi, per porre in me la sua dimora. La vita di Cristo che professo con le labbra, che credo culmini nel mistero della sua Pasqua e continua nella Chiesa, per la potenza dello Spirito, dal giorno di Pentecoste, vuole invadermi. La fede è un mistero vivo, al pari delle pagine del messale e del catechismo che riportano le formule, ha bisogno dei fogli della nostra vita, della pagine dei nostri giorni, perché lo Spirito vuole continuare in noi la storia di Gesù, con noi vuole che l’annuncio della salvezza giunga fino ai confini della terra, attraverso al nostra testimonianza Cristo vuol guardare ogni uomo, parlargli, donandogli quell’amore che ogni cuore desidera. La crisi di fede che stiamo vivendo nella nostra società, la difficoltà nelle famiglie di trasmettere e vivere la fede, la mancanza nella società civile di valori autenticamente umani e per questo evangelici, non rappresenta solo un dato da spingerci allo scoraggiamento, ma dobbiamo vederlo come il banco di prova di una nuova sfida evangelizzatrice, di una nuova stagione di annuncio. Se il mondo pagano, agli albori del cristianesimo, si aprì alla fede, con la parola e la vita di uomini semplici, infiammati interiormente dalla potenza della resurrezione di Cristo, cosa diverrà il mondo, se lo Spirito troverà uomini e donne capaci di lasciarsi liberare al suo soffio, portare dalla sua azione, motivare dalla sua presenza, animare dal suo amore? Il Signore fa cose sempre nuove e, quando sembra che vinca la notte, una nuova alba si prepara, proprio come accadde con la morte di Gesù. Tutto sembrava finito, con la deposizione del Crocifisso ed invece quello era solo il momento in cui il seme, caduto in terra, marciva per poi fare molto frutto.

Mettere a frutto la grazia

Anche Paolo è una anello, nella catena della tradizione della Chiesa e se ora, scrivendo ai Corinzi, l’attenzione cade su di lui, non è per smania di protagonismo, per mettersi in mostra e affermare la sua superiorità sugli altri. Egli intende solo mostrare come il mistero della fede abbia cambiato la sua vita e la grazia lo abbia diversamente plasmato, per farlo diventare predicatore della parola di salvezza, in mezzo alle genti. “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (v. 10). Nel momento in cui si professa la propria fede in Cristo, morto e risorto, vivo e operante nella Chiesa, che è il suo corpo, si presta allo Spirito l’obbedienza incondizionata della volontà, lasciando che Egli operi, secondo il progetto del Padre. Non si può, infatti, credere nella potenza dell’amore del Padre che ha fatto passare dalla morte alla vita Gesù, che ha mutato l’esistenza degli apostoli, rendendoli da increduli e pusillanimi, coraggiosi annunciatori della Pasqua, non si può confessare il mistero della fede, senza donare al Signore la propria vita, perché vi operi liberamente. Che senso ha la fede se non determina un cambiamento nella nostra esistenza? Solo la grazia può fare meraviglie in noi. Basta solo essere docili e dargli spazio, cuore, mente e forze perché la sua potenza operi in noi ciò che ha operato nei primi testimoni della fede.




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