VIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 3 marzo 2019

Il cristiano non può girarsi dall’altro lato

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di fra Vincenzo Ippolito

La nostra voce deve alzarsi in difesa della vita, sempre, dobbiamo gridare “Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?", quando sono calpestati i diritti delle donne, quando i bambini sono merce di consumo, quando si sfruttano i deboli, per arricchirsi, quando si infligge la morte sociale a coloro che sono scomodi, per l’egoismo ad oltranza dei potenti.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,54-58)
Dio ci ha dato la vittoria per mezzo di Gesù Cristo.
Fratelli, quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: “La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?”.
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!
Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.

 

Anche questa domenica la liturgia ci conduce in un luogo pianeggiante, dove il Signore parla ai discepoli e alla folla giunta “da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone” (Lc 6,17). Il Maestro, nella pagina tratta dal Vangelo secondo Luca (cf. Lc 6,39-45), introduce i suoi ascoltatori a comprendere quanto sia importante l’arte di purificare il cuore, perché le parole e i gesti nascono nell’interiorità di ognuno di noi e anche nel relazionarsi con gli altri bisogna guardare a se stessi, prima di pronunciare qualsiasi giudizio. La parola di Gesù porta a compimento la rivelazione di Dio, raccolta dalla tradizione d’Israele, nella sacra Scrittura. Un esempio di questo è dato dalla Prima Lettura, tratta dal libro del Siracide (27,4-7). Essa ci propone la riflessione di un saggio ebreo – Ben Sirach, è lui a dare il nome al libro – che trasmette la sua esperienza ed indica come guardare e giudicare il mondo. “Il modo di ragionare – egli scrive – è il banco di prova per un uomo. Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore” (vv. 6b-7). La profondità di una persona si evince dalle sue parole, perché sono i discorsi a mostrare i ragionamenti reconditi della sua mente e i proponimenti del suo cuore. La Seconda Lettura (cf. 1Cor 15,54-58), invece, continuando la lettura dell’ultimo capitolo della Prima Lettera ai Corinzi, mostra la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, indicando al credente l’orizzonte della sua nuova vita, iniziata con il Battesimo.
Progredire “sempre nell’opera del Signore” (v. 58): è questo che la liturgia ci chiede oggi. Opera del Signore è non guardare la pagliuzza dell’occhio del fratello; opera del Signore è trarre fuori il bene dal buon tesoro del proprio cuore; opera del Signore è gioire per la vittoria che il Risorto dona a quanti credono in Lui; opera del Signore è purificare i pensieri, perché le parole costruiscano ponti di fraternità e di pace tra noi.

Prodigiosa trasformazione

Nelle ultime domeniche abbiamo letto a sprazzi il capitolo quindicesimo della Prima Lettera ai Corinzi. La liturgia ci ha così offerto di vedere gli anelli argomentativi che l’Apostolo sviluppa sul finire della sua epistola, prima di congedarsi dalla comunità, con le ultime raccomandazioni (cf. 1Cor 16,1-4), i progetti per il futuro (cf. 1Cor 16,5-12), le esortazioni e i saluti finali (cf. 1Cor 16,13-24). Il tema che ha guidato la sua penna, sotto la spinta dei pensieri e problemi emergenti in quella comunità, è stato la resurrezione di Cristo e la vita nuova dei credenti, dopo la morte. La pericope odierna ci dona la conclusione di questo discorso (cf. 1Cor 15,54-58), che possiamo considerare un inno trionfale – così è intitolato il nostro brano nell’edizione della Bibbia di Gerusalemme – dove il pathos dell’Autore conduce i lettori alla contemplazione del Signore risorto e alla gioia profonda del cuore, perché anche noi siamo chiamati a partecipare alla sua vita nuova.

La cosa che notiamo, alla lettura delle prime parole del brano, è il realismo che l’Apostolo esprime e, al tempo stesso, la sua fede, nella potenza della resurrezione di Cristo, che rivive in noi, per la grazia del suo Spirito. Egli, infatti, scrive: “quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità” (v. 54). È importante, sembra dire Paolo, non aver paura della morte, del disfacimento del nostro corpo, del passaggio da questo mondo a Dio. Il credente sa che, dinanzi al mistero della morte, la fede lo sostiene e gli mostra la trasformazione prodigiosa, insperata per la mente dell’uomo, ovvero il passaggio dalla corruzione all’incorruttibilità, la grazia divina che riveste il nostro corpo mortale di immortalità. È importante parlare della morte e saperne parlare con il linguaggio della fede, come la Chiesa ci insegna a fare e ci mostra nel Rito delle Esequie. Si tratta di un discorso non semplice, di un passaggio non facile, soprattutto quando ci tocca da vicino, attraverso delle persone che sono parte di noi, del nostro cuore, dalla quali, il solo pensiero di allontanarci, ci fa cadere nel baratro della tristezza e nessuna parola, anche trattandosi del solo pensiero, non riesce a risollevarci. Educare il cuore significa non solo purificarlo da quello che impedisce al tesoro che è in noi di risplendere, ma anche a saperci liberare dalle paure che ci portiamo dentro e che ci divorano. Solo Gesù è capace di operare in noi questa prodigiosa trasformazione, solo Lui è in grado di liberarci dal potere che la morte esercita su di noi, rischiarando il buio che sembra così pesto, da impedirci di scorgere i segni della luce del Risorto, che mai ci abbandonano in preda all’angoscia del cuore umano.

Dobbiamo essere certi che questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità, considerare senza paura che questo mio corpo mortale un giorno si vestirà di immortalità. Noi siamo un corpo, ci serviamo delle membra che il Signore ci ha donato e pensiamo, agiamo, amiamo, attraverso questo copro. Non è semplice pensarsi senza un corpo fatto di materia o anche immaginarsi in un luogo diverso, che non conosce il tempo e lo spazio. Viviamo come corpo e, attraverso il corpo, ci comprendiamo come persone, ne seguiamo le tappe della crescita che determinano anche la nostra maturità umana, psicologica e spirituale e, talvolta con difficoltà, ci appropriamo del suo declino, quando le forze, per l’età o per la malattia, vengono meno e ci portano a quel cambio di vita, che comporta il saper sorridere dinanzi al tempo che passa. Abbiamo un corpo, ma non è tutto. Esso è mortale, corruttibile, eppure questo corpo che mi costituisce e del quale mi servo, pone nella mia vita gesti e parole che sanno di eternità, che hanno il gusto di Dio, come quelle che Cristo ci ha insegnato, traducendo il linguaggio che da Adamo ed Eva in poi era stato piegato alla logica dell’egoismo e della ribellione. È con il corpo che abbracciamo, con gli occhi carezziamo, non solo con le mani, con la mente arriviamo lì dove i piedi non sempre riescono a giungere, e, nella vita sponsale, i corpi parlano il linguaggio dell’amore che si apre alla vita. Lavoriamo per assicurare a noi e alle nostre famiglie e comunità un futuro secondo il Vangelo, combattiamo per un mondo migliore, una società più giusta, ma non dobbiamo dimenticare mai che “passa la scena di questo mondo” (1Cor 7,21). Questo non deve spingerci ad essere tristi, neppure a credere che il realismo vada a braccetto con il cinismo ed il pessimismo, che livella ogni cosa e getta nel buio privo di senso ogni cosa bella che Dio ha creato. Non perderemo nulla di ciò che il nostro corpo ha posto come seme di bene, ma vedremo fiorire ogni tesoro nell’eternità di Dio. È questo che l’Apostolo vuole indirettamente insegnarci, parlando della trasformazione a cui ogni credente assisterà dopo la morte. I nostri gesti, gli amori espressi, le tenerezze vissute, la parole donate, gli sguardi ed i sorrisi ricevuti ed offerti, tutto di noi sarà assorbito in Dio, cifra del suo amore, trasformato dalla grazia del suo amore per noi.

È bello pensare a quello che accadrà un giorno al nostro corpo. Saremo rivestiti dell’abito dell’immortalità. Lo stesso Apostolo lo dirà nuovamente ai Corinzi, nella sua Seconda Lettera (5,2-5): “in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati ma rivestiti, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. E chi ci ha fatti proprio per questo è Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito”. Essere assorbiti dalla vita: c’è una realtà che possa far trasalire maggiormente di gioia il nostro cuore. Nulla andrà perso di noi, ma tutto sarà assorbito dalla vita, perché incontreremo la Vita che è Dio ed in Lui vivremo per sempre. Solo Dio, infatti, può operare questa straordinaria realtà, convertire il mortale in immortale, rivestire la morte della vita e rendere celeste ciò che è terreno. È la trasfigurazione dell’amore, come Pietro, Giacomo e Giovanni videro il Signore Gesù, sul monte Tabor, circondato di luce, con un volto luminosissimo e con le vesti diventare candide, così anche noi, passati nel mistero della sua Pasqua, lavati nel sangue dell’Agnello immacolato, saremo partecipi della sua stessa vita, della luce che lo avvolge, del chiarore che lo rende bello. In questi termini dobbiamo pensare alla morte, non come la fine della nostra vita, ma il pieno sviluppo del bene operato e delle attese che l’animo nostro sente in sé. Non perderemo nulla e neppure lasceremo le cose che contano – i nostri affetti, le persone che amiamo e che ci amano – il nostro vero tesoro lo serberemo, per presentarlo a Dio e consegnarlo nella sue mani di Padre. Con Dio c’è la pienezza della vita, “camminiamo nella fede e non nella visione” (Cor 5,7) e questo nostro cammino deve trovarci pieni di fiducia, abbandonati a Lui, che opera meraviglie in vita e nel mistero della morte, che non è più buio, ma il luogo della luce che tutti avvolge del chiarore dell’amore.

Credo, mio Signore, che questo corpo corruttibile si rivestirà di incorruttibilità e che il mio corpo mortale di immortalità. Lo credo, guardando Te, che sei il Primogenito dei morti, contemplando in Te, la sorte futura che attende coloro che in Te sperano e non saranno confusi. È lo Spirito della tua resurrezione che compirà in me quest’opera ed io la attendo, per questo “gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 16,9-11).

La nostra vita, un canto alla vittoria di Cristo

La trasformazione che l’Apostolo attende, così come ogni credente, è il segno che nel discepolo si realizza la parola della Scrittura. Difatti, “quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura” (v. 54). Come nel mistero pasquale di Cristo si sono realizzate le parole dell’Antico Testamento – “bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24, 44) aveva detto il Risorto ai suoi riuniti, nella sera di Pasqua – così nel cristiano che lo segue e lo imita, nella incondizionata docilità allo Spirito Santo, deve realizzarsi lo stesso mistero. Nella nostra vita, sembra dire l’Apostolo, deve realizzarsi la Parola di Dio, la nostra storia è chiamata ad essere una pagina di Vangelo vivente. Per questo Paolo dirà, sempre scrivendo ai Corinzi, “La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani” (2Cor 3,2-3). Siamo chiamati a realizzare la Scrittura, a lasciarci modellare dalla Parola di Dio, che è Cristo Gesù. Creati a sua immagine (cf Col), è a Lui che dobbiamo guardare, è Lui che dobbiamo imitare, lasciando allo Spirito di conformarci al mistero della sua Pasqua. La volontà del Padre per ogni uomo, infatti, è scritta nella vita di Gesù Cristo. Se lasciamo che Egli ci attiri a sé e che la sua vita divina converta la nostra, allora saremo veramente creature nuove. Realizzare in noi la Parola di Dio, lasciare che lo Spirito ci renda partecipi del pensiero di Cristo (cf. 1Cor 2,16), dei suoi sentimenti (cf. Fil 2,5): è questo il senso della vita cristiana. Per questo, nella sua Biografia su san Francesco, san Bonaventura scrisse “Quando si furono compiuti in lui tutti i misteri [della vita di Cristo], quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore” (San Bonaventura, Leggenda Maggiore XIV, 6: FF 1243). La nostra vocazione sta nel realizzare il disegno del Padre su di noi, nel seguire le orme di Cristo, alla cui immagine e somiglianza siamo stati creati, nel lasciarci guidare dalla sua parola, dal suo esempio, perché tutto in noi diventi rivelazione della sua onnipotenza d’amore, come Lui lo fu del Padre.
Compiere la Scrittura significa realizzare la volontà del Padre, lasciare che sia la sua mano a plasmare in noi la somiglianza con Cristo, a smussare gli spigoli del nostro carattere, le durezze del nostro cuore, a piegare le alzate di scudi della nostra superbia. È la Parola di Dio che è Gesù a determinare la nostra storia e a questo dobbiamo sempre di più tendere. Essere famiglia costruita sulla roccia della sua Parola, essere comunità religiosa e parrocchiale vuol dire ricevere da Dio la forza per fare la sua volontà e perseverare in essa fino alla fine. Difatti, in vita e in morte siamo suoi, in terra e in cielo apparteniamo a Lui e, con Paolo ogni discepolo può dire: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39). Siamo chiamati a realizzare in noi la dinamica della Pasqua del Signore, nella quale si sono compiute le parole dell’Antico Testamento “La morte è stata ingoiata per la vittoria” (v. 54b, cf. Is 25,8; Os 13,14) ed il cristiano può sfidare anche gli inferi, forte della potenza della vita nuova che rivive in lui, per il dono del Risorto, “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (v. 55). Abbiamo in noi – se ce ne rendessimo conto fino in fondo, con una consapevole responsabilità, che renderebbe la nostra vita una esplosione di bellezza e la nostra storia scandita da una carità indefessa! – abbiamo in noi la potenza della vita del Risorto, capace di vincere in noi, tra noi e nel mondo, attraverso la testimonianza della nostra fede, ogni struttura di morte. Siamo chiamati a vincere la morte, a sbaragliare i suoi eserciti, a neutralizzare le sue macchinazioni, a scassinare i forzieri del male che infligge, “a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore” (Is 61,1-2).

Dobbiamo sfidare la morte, ogni morte, la cultura della pseudo libertà che la media, spacciandosi per vita vera – è la cultura abortista e quella dell’eutanasia – come anche la violenza, ogni violenza, soprattutto sui piccoli e i poveri, che sono il segno della presenza concreta del Signore. La nostra voce deve alzarsi in difesa della vita, sempre, dobbiamo gridare “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?“, quando sono calpestati i diritti delle donne, quando i bambini sono merce di consumo, quando si sfruttano i deboli, per arricchirsi, quando si infligge la morte sociale a coloro che sono scomodi, per l’egoismo ad oltranza dei potenti. Il cristiano non può girarsi dall’altro lato, quando vede il sopruso, quando la violenza signoreggia, incontrastata, quando la dignità dell’uomo è vilipesa, quando la bellezza del suo volto sfigurato, come quello di Cristo, sulla via del Golgota. La resurrezione di Gesù, la potenza del suo Spirito ci chiede e conduce ad essere testimoni della vita e a fare della non violenza l’arma perché il mondo conosca un’era di fraternità e di pace. Per fare questo, abbiamo bisogno della forza di Dio, perché potremmo anche credere di combattere per Dio, quando, invece, stiamo portando avanti le nostre guerre. Abbiamo bisogno della preghiera, perché sono le nostre mani, come quelle di Mosè (cf. Es 17,8-13), sono elevate in alto, anche con l’aiuto dei fratelli che ci sono accanto, è Dio a vincere in noi e a rendere perfetta la sua opera, a portare a compimento la sua volontà. Sfidare la morte è prerogativa solo di Gesù Cristo. Egli la vince nella casa di Giàiro (cf. Lc 8,40-42. 49-56), quando prese per mano la sua figlia dodicenne e le “disse ad alta voce: Fanciulla, alzati!” (v. 53), facendola passare dalla morte alla vita; la sbaraglia lungo la strada, quando incontra il corteo che accompagna un morto, figlio unico di una madre vedova e, mosso a compassione per lei, “Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermavano. Poi disse: Ragazzo, dico a te, alzati! Il morto si mise seduto e cominciò a parlare” (Lc 7,14); Gesù è il Signore della vita che dispensa la vittoria sulla morte, come quando chiama Lazzaro dal sepolcro (Gv 11,43). C’è un luogo dove il Signore non abbia seminato la vita, scacciando il potere di Satana? Nessun pungiglione può iniettare in Cristo la morte. Il demonio, nella Passione, ha cercato di pungere Gesù e di far morire Vita, ma è stato ucciso dalla potenza divina che, invano, cercava di combattere. Di questa Vita la nostra vita è il canto, di questa straordinaria vittoria la nostra storia è manifestazione e lode.

Credo, mio Signore, che Tu vinci la mia morte e che mi invii nel mondo testimone e seminatore della potenza della tua Pasqua. Non permettere che la paura mi fiacchi, che il timore mi prostri, che la vergogna mi faccia retrocedere, nell’annunciare con la parola e la vita la potenza della tua Resurrezione. Donami la forza di gridare la tua vittoria, di vivere della tua vittoria, di annunciare la sconfitta della morte, di battermi perché la vita, ogni vita sia rispettata, amata, custodita, da tutti, ad ogni costo. Neutralizza il pungiglione del peccato, rendi innocuo il veleno della sua morte e non permettere che ciascuno dei tuoi figli scelga di allontanarsi da te e dai fratelli. Realizza in noi la tua opera e portala in noi a compimento.

Mai smettere di ringraziare il Signore per tutti i suoi benefici

La vita del cristiano, da un lato, è scandita dalla lode – “Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (v. 57) – dall’altro, va spesa nell’impegno fattivo – “rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell’opera del Signore” (v. 58) – perché la grazia divina produca i suoi frutti. Quando la vita è vissuta nell’amore di Cristo, quando nelle nostre famiglie regna il desiderio di venirsi incontro, perché nulla destabilizzi la gioia della comunione, quando la vittoria della croce è la strada maestra verso Pasqua del Signore che riviva in noi, attraverso la morte a se stessi, solo allora “la vostra fatica non è vana nel Signore”. Dobbiamo vivere sapendo che Cristo ha vinto e che anche noi vinciamo, per mezzo della sua croce. Scrive sant’Agostino: “Cantiamo Alleluia anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove che ci provengono e dagli altri e da noi stessi. […] Anche adesso, dunque, cantiamo Alleluia. […] Adesso il nostro corpo è animale, lassù sarà spirituale. In effetti il primo uomo fu creato per essere anima vivente, l’ultimo uomo sarà spirito vivificante . Per questo darà vita anche ai vostri corpi mortali ad opera dello Spirito che abita in voi . Oh felice Alleluia, quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena tranquillità, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici. Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente angustiata, lassù da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nel reale possesso; qui in via, lassù in patria. Cantiamolo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere il gaudio del riposo ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, poiché, al dire dell’Apostolo ci sono certuni che progrediscono in peggio. Se tu progredisci, cammini; ma devi progredire nel bene, nella retta fede, nella buona condotta. Canta e cammina! Non uscire di strada, non volgerti indietro, non fermarti! Rivolti al Signore”.

Camminiamo dietro a Cristo, è Lui il Maestro; seguiamo il buon Pastore, è Lui che ha dato la vita per le sue pecore; mettiamo i nostri piedi sulle orme dell’Agnello, è Lui che ha vinto la morte e regna per sempre, Primogenito dei morti, sorgente di vita per quanti credono in Lui.




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