II Domenica di Quaresima – Anno C – 17 marzo 2019

Non si può camminare da soli e per questo il Signore ha voluto la Chiesa

matrimonio

di fra Vincenzo Ippolito

Siamo tutti chiamati a compiere il ministero, che Dio ci ha affidato, nella diversità e complementarietà dei carismi ricevuti (cf. 1Cor 12,4-11) ed in questo abbiamo bisogno di essere aiutati. La comunità, da un lato, accompagna l’itinerario di crescita di ciascuno, sostenendo il quotidiano rinnovamento, nella docilità allo Spirito del Signore, dall’altro, la comunità, per la fede in Cristo, rappresenta la sua presenza nella storia, attraverso l’annuncio del Vangelo e la testimonianza della vita nuova.

Dalla lettera di san Paolo apostolo Filippesi (3,17-4,1)
Cristo ci trasfigurerà nel suo corpo glorioso.
Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.
La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.
Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!

 

Dopo l’esperienza del deserto (cf. Lc 4,1-13), che accompagnerà l’intero nostro cammino quaresimale, la liturgia della seconda Domenica di Quaresima ci conduce sul monte della Trasfigurazione, per contemplare il Maestro che, nel dialogo orante con il Padre, cambia di aspetto, mentre discorre del compimento della sua Pasqua, con Mosè ed Elia. La pagina evangelica (cf. Lc 9,28-36) ci invita a vestire i panni di Pietro, Giovanni e Giacomo, per imparare con loro che la sequela del Signore ci conduce alla croce, dove la morte verrà vinta dalla luce della Resurrezione. La Prima Lettura che fa da sfondo alla liturgia odierna, ci presenta la figura del patriarca Abramo (cf. Gen 15,12.17-18). La promessa della discendenza, numerosa come le stelle del cielo è il segno dell’alleanza che Dio stringe con il suo eletto. Anche per lui, come per i discepoli del Tabor, non è semplice tenersi desto ed attendere il Signore che viene, nel cuore della notte. Egli, infatti, giunge per stipulare il suo patto ed autenticare la sua parola, facendo passare “una fiaccola ardente […] in mezzo agli animali divisi”. L’alleanza, infatti, è il puro dono dell’amore di Dio per noi e l’uomo è chiamato ad accoglierlo con fede e a vivere nella lode e nella fedeltà. Diverso è invece l’argomentazione presentata dalla Seconda Lettura, tratta dall’Epistola ai Filippesi (3,17-4,1). In essa l’Apostolo chiede ai credenti di imitarlo nella sequela del Cristo crocifisso, aspettandolo come salvatore, quando Egli verrà, alla fine dei tempi, per trasfigurare il nostro corpo e conformarlo al suo corpo glorioso.
Anche con noi Dio Padre vuole stringere alleanza, attraverso Gesù, il suo Figlio, vero agnello immolato sulla croce per la nostra salvezza. La sua parola è promessa di gioia piena e di pace duratura. A noi è chiesto di vegliare, come Abramo e di attendere, nella preghiera, che il Signore realizzi la sua promessa e, partecipando al suo mistero pasquale, ci doni la gioia senza fine della sua amicizia. Il tempo santo di Quaresima ci chiedi quindi di intensificare la nostra vigilanza orante e di imparare da Cristo a camminare risoluti nella volontà del Padre.

Avere degli esempi di seguire

Le lettera ai Filippesi è una degli scritti, considerati autentici dagli studiosi. In essa, la voce dell’Apostolo risuona con forza, per l’amore che interiormente lo consuma nel cuore, conducendolo a considerare tutto secondario “a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore” (Fil 3,8). In quattro capitoli, assai densi per le argomentazioni proposte, Paolo offre le indicazioni concrete per vivere, a livello personale e comunitario, la grazia della salvezza, acquistataci da Cristo, correggendo le deviazioni, dovute da una mancata capacità di avere il mistero pasquale di Gesù come sorgente delle proprie scelte ed il Vangelo come lampada per camminare nella verità ed essere cittadini del Regno di Cristo.

Il brano liturgico odierno (cf. 3-17-4,1) è a cavallo tra il capitolo terzo ed il quarto, sezione solitamente considerata di autodifesa dell’Apostolo. Nella comunità di Filippi – prima cittadina greca ad essere evangelizzata, durante il secondo viaggio missionario, intorno agli anni 48-49 – c’è un fronte antipaolino, che mette in dubbio l’autorità dell’Apostolo ed il ruolo da lui esercitato nella comunità. Per questo motivo ammonisce severamente i suoi “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai,” (Fil 3,2). Dopo aver difeso strenuamente il suo ministero (cf. Fil 3,1-16), augurandosi di aver fugato i dubbi e le perplessità sul suo operato, con argomentazioni fondanti e ben giustificate, si rivolge in maniera accorata ai Filippesi, scrivendo “Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi” (v. 17). Quanto ha precedentemente detto riguardo al suo cammino e alla centralità di Gesù Cristo nella sua vita lo conduce ad offrirsi ai credenti come esempio da seguire.
Ma cosa significa l’espressione “fatevi insieme miei imitatori”? Non può apparire forse come una richiesta pretestuosa da parte dell’Apostolo, che ci offre come modello, quando, invece nella vita cristiana, l’unico vero modello da seguire è Gesù Cristo?

Se leggiamo l’intera Epistola ai Filippesi ci rendiamo conto di una cosa fondamentale, nella teologia paolina: la centralità che Gesù Cristo ricopre e deve avere nella vita dei credenti. Non a caso, dovendo chiarire le dispute presenti in quella comunità, l’Apostolo invita i suoi a guardare verso il Signore, umiliato fino alla morte di croce e glorificato dal Padre, per la sua obbedienza filiale (cf. Fil 2,1-11). È vero che Gesù è il modello unico ed insostituibile per ogni discepolo, visto che Lui motiva ogni scelta e, nella forza dello Spirito, sostiene il lavorio interiore sempre difficile di sradicare il proprio egoismo, per far posto a Dio e al suo progetto di amore. Bisogna però notare che, nel guardare verso Gesù, noi veniamo aiutati da coloro che, per una particolare chiamata, ci sono posti accanto come segno della sua misericordia e guide sicure nel cammino. Scrive l’autore della lettera agli Efesini, Dio “ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo” (4,11-12). Siamo tutti chiamati a compiere il ministero, che Dio ci ha affidato, nella diversità e complementarietà dei carismi ricevuti (cf. 1Cor 12,4-11) ed in questo abbiamo bisogno di essere aiutati. Non si può camminare da soli e per questo il Signore ha voluto la Chiesa. Difatti, la comunità, da un lato, accompagna l’itinerario di crescita di ciascuno, sostenendo il quotidiano rinnovamento, nella docilità allo Spirito del Signore, dall’altro, la comunità, per la fede in Cristo, rappresenta la sua presenza nella storia, attraverso l’annuncio del Vangelo e la testimonianza della vita nuova. In questo modo, comprendiamo come, nella comunità Chiesa, alcuni hanno il compito di confermare i fratelli nella fede e di annunciare la salvezza, che deve raggiungere gli estremi confini della terra. Non si tratta di un carisma superiore a quello ricevuto dagli altri, ma di un ministero per il bene e la crescita dei fratelli. È questa la chiamata che Paolo ha ricevuto da Dio. Egli avverte la responsabilità della sua vocazione e avverte di essere servo di un progetto che lo trascende e che porta avanti, per il dono di grazia che sempre lo sostiene.
Gli apostoli di ieri, come anche gli educatori nella fede di oggi, sono i segni dell’amore divino, che il Signore pone sul nostro cammino, per camminare spediti nell’itinerario di sequela, tenendo fisso lo sguardo su Gesù. Non si tratta di persone perfette, ma di fratelli che ci vengono donati come compagni di viaggio e ai quali dobbiamo guardare come specchio dell’amore e della volontà di Dio per noi. Con questa consapevolezza, Paolo può chiedere, scrivendo ai Corinzi “Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Cor 10,1). L’Apostolo è un ambasciatore di Cristo e, attraverso di lui, per volontà del Padre, si è in comunione con Cristo e con i fratelli. In tal modo, nella comunità di Filippi ci sono delle figure che mediano la dinamica pasquale di Cristo, perché è questo il senso dell’imitazione richiesta. Imitare non vuol dire copiare quello che altri hanno fatto, visto che questo è impossibile, sia in riferimento a Cristo, che a Paolo e agli altri suoi collaboratori. Imitare significa fare come ha fatto Cristo ed in questo Paolo e i suoi, dietro di Lui, sono un esempio concreto ed eloquente. È questo il segreto del comandamento nuovo, che il Maestro dona ai discepoli, dopo aver lavato loro i piedi “Vi ho dato, infatti, un esempio, perché voi facciate come io ho fatto a voi” (Gv 13,15) e ancora “Questo è il mio comandamento: che vi amate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,9). Paolo fa tutto, guardando a Gesù, imparando da Lui – “Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11,29) – e, dietro di lui, le comunità che riconoscono la sua paternità devono tenere fisso lo sguardo su Cristo. Imitare Paolo significa seguire Lui, nel fare di Cristo il centro della vita, cuore propulsore delle scelte e di ogni pensiero ed azione. In tal modo, “fatevi insieme miei imitatori” significa fate come ho fatto io, seguite me, per seguite Cristo, arricchitevi della mia testimonianza, imparate dalle prove che ho attraversato, servitevi dell’esperienza che ho fatto dietro Gesù. Ai Filippesi è chiesto quindi di imitare l’amore di Paolo verso Gesù Cristo, la radicalità della sua risposta a Dio, la sua audacia nell’annuncio del Vangelo, la tenacia nelle prove sopportate, la determinazione nel combattere il male e nel guidare i fratelli, in nome di Dio, sulla strada del bene. Chiedendo di imitarlo, l’Apostolo non lega le persone a sé, ma le aiuta ad andare a Cristo, a fidarsi di lui, a lasciarsi sostenere dalla maturità del suo ministero. Quello che poi colpisce è notare che egli non chiude il cerchio, ma allarga, a scanso di equivoci, l’orizzonte delle persone che potrebbero aiutare a crescere in cristo. Per questo scrive “guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi” (v. 17), ovvero, sappiate discernere i cristiani che vi sono accanto, alla luce di Cristo e lasciatevi aiutare da coloro in cui notare il riverbero della dinamica di Cristo, la sua umiliazione ed abnegazione, la sua offerta volontaria, la sua obbedienza filiale. Per questo, nel capitolo precedenza, ha presentato Timoteo ed Epafrodito (cf. Fil 2,19-30) come i suoi fidati collaboratori, la cui condotta è modellata sulla vita di Cristo, di cui ha indicato i tratti salienti (cf. Fil 2,6-11). Prima di fidarsi di una persona, sembra dire l’Apostolo, bisogna vedere lo stile della sua vita e il radicamento del suo cuore in Cristo crocifisso e risorto.
Nelle nostre comunità e famiglie, abbiamo bisogno di persone, ministri ordinati, consacrati e laici, esemplari per la loro condotta di vita, capaci di mostrare in se stessi la bellezza della vocazione cristiana, la gioia e la fatica, nel rispondere a Dio, che tutti chiama alla perfezione della carità. È importante avere accanto delle persone a cui guardare, non solo con ammirazione, ma anche per ricordare, attraverso di loro, la meta a cui tendere e la radicalità da ricercare e vivere nel cammino di sequela. Senza modelli che ci mostrano come il Vangelo sia una proposta possibile da attuare, nella propria vita, con la forza dello Spirito, chi potrà indicarci “la misura alta della santità cristiana”? Nella fede non solo non si procede da soli, ma è necessario avere dei punti di riferimento. Per questo la Chiesa, da madre e maestra, pone dinanzi ai nostro occhi i Santi, persone che hanno come noi vissuto la difficoltà di una vita, mai perfetta, ma che, sorretti dalla forza di Dio, hanno camminato dietro Gesù, creduto come unica forza, amato con cuore indiviso. Per essere modelli non è chiesto di essere perfetti e ineccepibili, ma di mostrare agli altri che, pur tra le alterne vicende della propria storia, nulla e nessuno può togliere dal cuore il desiderio struggente di amare Cristo e di testimoniare ai fratelli il suo amore.

Delle croce nemici o amici?

Il Signore pone dinanzi a noi dei modelli, nel cammino di fede, ma, accanto ad essi, non mancano gli antimodelli, coloro che solo apparentemente seguono il Signore. È questa una triste realtà, segno del peccato che ci attanaglia e della voce del nemico che è sempre in agguato. La grazia, non bisogna dimenticarlo, mai ci abbandona e ci spinge a quel sano discernimento nei riguardi della storia nella quale viviamo. Per questo Paolo scrive “molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo” (v. 18). L’Apostolo chiede ai Filippesi di avere Cristo come criterio di giudizio e di considerare che, dove sono i segni della sua Pasqua di morte e resurrezione, lì è possibile imparare la dinamica della croce che conduce alla gloria. Può sembrare strano, ma anche nella comunità credente ci possono essere dei nemici della croce di Cristo, persone che, pur con le migliori intenzioni, svuotano la croce della potenza scandalosa della potenza divina che offre. Le parole di Paolo sono molto forti. Nemici della croce sono coloro che considerano il loro ventre dio, che si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e che pensano alle cose della terra. Si tratta delle note dominanti di gente pervertiti, che di cristiani hanno solo il nome, che, pur frequentando la comunità, non trovano nella Pasqua di Gesù la lampada che guida la propria vita e sostiene il quotidiano cammino verso la novità che dona il risorto.
A parte chi siano queste persone a cui Paolo si riferisce – si tratta di quel fronte a lui contrario che, insieme con lui, rifiutano ed osteggiano la verità del Vangelo – è importante, nella riflessione personale di questo tempo quaresimale, rivedere se stessi, per comprendere se tra questi tali siamo da annoverare anche noi, per i pensieri e le azioni che contrastano con il progetto di Dio. Può capitare, infatti, che diventiamo anche noi nemici della croce di Gesù. Quando crediamo che la salvezza non passi attraverso le situazioni di dolore che viviamo, affermiamo che la Pasqua di Gesù sia una dinamica che valga solo per Lui, ma che non abbia nessuna concreta ricaduta su di noi; quando pensiamo che siamo noi che dobbiamo continuamente agire e darci da fare per assicurarci la redenzione, che è premio per i nostri sforzi, allora siamo nemici della croce, perché crediamo che tutto dipenda solo dalla nostra buona volontà; quando non vogliamo vivere lo scandalo e la follia della morte, abbandonandoci a Dio, come ha fatto Gesù, sapendo che il Padre celeste misteriosamente sostiene il nostro sacrificio e dona un senso al nostro soffrire, proprio allora, pur dicendo di essere discepoli di Gesù, siamo i suoi nemici, viviamo la ribellione di non credere, come Pietro, che questo possa e debba accadere come condizione di vita in abbondanza. È necessario passare attraverso la porta stretta della croce, è fondamentale legarsi a quel legno, entrare nelle piaghe del Crocifisso, essere amici e frequentatori del suo sacrificio cruento. Il Venerdì Santo la liturgia ci fa guardare ed adorare la croce, quasi dicendoci: accogli la modalità della salvezza che Cristo ha vissuto e ti dona; piega il tuo collo al dolce giogo del Signore, anche se ti appare incomprensibile che la vita sgorga maestosa e vivificante dalla morte; abbraccia, nel silenzio di un cuore che si fida solo di Dio, la dinamica di una amore che la menta umana, così limitata e limitante, non riesce a sposare, comprendere ed abbracciare, con le sue forze; guarda verso il Cielo e vive l’ora dell’offerta, sacrificando la tua volontà, consegnandolo al Dio e ritraendola dalla tentazione di voler fare, solo ciò che si comprende. Come Maria e Giovanni, le pie donne e il buon ladrone, dobbiamo farci compagni del Crocifisso, suoi amici intimi, entrare nel mistero del suo amore che travalica la morte e la accoglie, sapendo che proprio l’amore gli toglie la spada e neutralizza il suo pungolo.

Non è semplice vivere da amici della croce, sposando la dinamica del Signore, consegnato alla morte, ma tante famiglie ci mostrano che non è impossibile farlo con la forza di Dio. Tanti genitori sono il riflesso dell’amore che accoglie il sacrificio, della fedeltà che abbraccia il dolore e lo trascende, del quotidiano rinnegamento che fa spazio all’altro, proprio perché la morte del proprio egoismo ha creato quel luogo sicuro dove lo sposo o la sposa, il figlio o il fratello può sentirsi al sicuro. Se Paolo dice di non comportarsi da nemici della croce, sta, indirettamente chiedendo di essere amici della croce, fratelli del Signore moribondo, compagni del suo soffrire, partecipando a quel fuoco d’amore che invade l’animo di chi vede in Cristo il modello del proprio agire, mentre nell’intimo lo Spirito si comunica come principio del suo stesso soffrire per il bene dell’altro. Ecco perché la liturgia, come la parole dello Stabat Mater, ci fa chiedere durante questo tempo di penitenza e di conversione: Santa Madre, imprimi nel mio cuore le ferite del Crocifisso. Che io pianga con te, con te soffra, le ferite del crocifisso.

Dobbiamo chiedere il dono delle lacrime e piangere come Paolo, quando vediamo che la croce non è amata, l’amore crocifisso non accolto, la sofferenza rifuggita, in nome dell’egoismo, la volontà non piegata a Dio e al suo progetto, il nostro cuore non consegnato al Padre. Dobbiamo piangere quando le nostre passioni ci trascinano nel vortice del peccato, quando al posto di Dio mettiamo il nostro ventre, lasciandoci gestire da quello che vogliamo, senza discernere ciò che è buono, sapendo che tutto è buono, ma non tutto può giovarci. Dobbiamo chiedere il dono delle lacrime, ogni volta ci vantiamo delle cose che dovrebbero portarci ad arrossire per la vergogna, a nasconderci per il timore, a batterci il petto, chiedendo perdono. Le cose della terra, se non sono orientate al cielo, ci appesantiscono, impedendoci di camminare spediti sulla strada del bene. Non dobbiamo farci rubare la speranza della gioia, che il Padre riserva per noi nel Cuore del Crocifisso e di lì dispensa. Dobbiamo accostarci a Lui e bere a quella mistica Fonte, per dissetarci dell’Acqua dello Spirito amore che è l’unica nostra forza nel cammino del deserto.

Con gli occhi fissi al Cielo

Le ultime battute del brano odierno, sono una boccata di speranza per ogni cuore in pena: “La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (v. 20-21). L’Apostolo chiede che il credente miri il cielo e si pensi parte di quella comunità che un giorno godrà del volto di Dio. La croce non è l’ultima parola sulla nostra vita, le nostre lacrime verranno asciugate, le difficoltà spariranno, le preoccupazioni avranno termine, quando tutto verrà ricapitolato in Cristo, il Salvatore che verrà a trasformare la nostra vita, con la forza del suo amore. Aspettiamo, come Abramo, che il Padre passi nella nostra vita con la Fiaccola di fuoco, che è la vita del suo Gesù, per stringere con noi quell’alleanza che durerà in eterno. La Quaresima ci allena a tenere il cuore desto per questo passaggio ultimo e definitivo. Per rimanere “saldi nel Signore” bisogna chiedere al Signore la grazia della fedeltà, che solo l’amore fa nascere nel nostro cuore.




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