III Domenica di Quaresima – Anno C – 24 marzo 2019

Cristo è la roccia che dona stabilità alla nostra esistenza

matrimonio

di fra Vincenzo Ippolito

Il cuore degli sposi è il segno della roccia di Gesù, da cui sgorga acqua d’amore a torrenti. La sposa deve trovare nel cuore del suo sposo quell’amore che la rigenera, come anche il marito sa di poter attingere dall’intimo della sua sposa quell’acqua cristallina, incontaminata, che il Signore fa zampillare, per la fede in Lui.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (10,1-6.10-12)
La vita del popolo con Mosè nel deserto è stata scritta per nostro ammonimento.
Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.
Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

 

Dopo le prime domeniche di Quaresima, dedicate rispettivamente ai racconti delle tentazioni di Gesù nel deserto (cf. Lc 4,1-13) e alla Trasfigurazione sul monte (cf. Lc 9,28-36), la terza tappa del nostro itinerario quaresimale ci offre di contemplare il volto paziente e misericordioso di Dio Padre, che Gesù ci rivela. Nella pagina evangelica odierna (cf. Lc 13,1-9), il Maestro chiede ai suoi ascoltatori di sapere leggere i segni di Dio nella storia, considerando la bontà del Signore che, come nel caso del fico sterile, dona sempre agli uomini continue opportunità per la conversione del cuore e la trasformazione della vita. La Prima Lettura, tratta dal libro del libro dell’Esodo (3,1-8a.13-15), presenta la vocazione di Mosè. Nel roveto ardente, che brucia senza mai consumarsi, il Signore, “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” fa udire la sua voce e chiama il giovane pastore, un tempo fuggito dall’Egitto, a ritornare in quel paese, per essere il segno della liberazione che Dio vuol operare a favore dei suoi eletti. Nella Seconda Lettura, invece, l’apostolo Paolo, scrivendo alla comunità cristiana di Corinto (cf. 1Cor 10,16.10-12), rilegge l’esperienza dell’esodo, chiedendo ai suoi di non cadere come i padri nella disobbedienza, per camminare dietro Cristo, nella via della vita.
La liturgia odierna ci offre una progressiva rivelazione della divina misericordia. Il Dio che ha parlato a Mosè sul Sinai (Prima Lettura), si fa conoscere nel roveto ardente della vita di Cristo, è Lui il rivelatore del volto misericordioso del Padre (Vangelo). Diversamente dall’antico Israele, leggendo la Scrittura, dobbiamo apprendere gli insegnamenti che il Signore ci vuol donare (Seconda Lettura), per non accogliere invano la grazia.

In ascolto dello Spirito, per rileggere la storia

Prima di iniziare il tempo di Quaresima, la liturgia domenicale del Tempo Ordinario ci ha offerto di leggere, come seconda Lettura, alcuni brani tratti dalla Prima Epistola indirizzata dall’apostolo Paolo alla comunità di Corinzi. Vi ritorniamo in questa domenica, con un brano tratto dalla seconda grande sezione della Lettera (capitoli 7-14), nella quale l’Apostolo, volendo dirimere alcune delicate situazioni della comunità, di cui è venuto a conoscenza, offre concrete indicazioni prima sul matrimonio e la verginità (cf. 1Cor 7), poi sulle carni sacrificate agli idoli (cf. 1Cor 8,1-11,1), in seguito su come vivere nella comunità cristiana (cf. 1Cor 11-14).
La pericope liturgica (cf. 1Cor 10,16.10-12) assembla versetti di un medesimo capitolo, in cui Paolo rilegge la storia del popolo d’Israele e la tentazione dell’idolatria, per evitare il peccato e camminare sulla via del bene, imparando da coloro che ci hanno preceduto nella fede. Scrive l’Apostolo “Non voglio che ignoriate fratelli” (v. 1). L’espressione, in parte ripresa in seguito – “Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio lasciarvi nell’ignoranza” (1Cor 12,1) – mostra la pedagogia paolina, nella relazione vissuta con le sue comunità. Educare nella fede, sembra dire l’Apostolo, vuol dire aprire gradualmente le menti dei fratelli alla comprensione della volontà di Dio, che progressivamente si dipana nella storia. In tal modo non solo si rifugge l’ignoranza, il misconoscere realtà importanti, ma si cammina nella comprensione della verità che la storia misteriosamente contiene e rivela. La consapevolezza di dover partecipare agli altri la ricchezza del dono di Cristo, porta l’autore dell’epistola agli Efesini a scrivere “penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero, di cui vi ho già scritto brevemente” (Ef 3,3-4).
Svelare il mistero e condurre i credenti a conoscere sempre più profondamente il volto di Dio Padre, che rifulge in Cristo è il compito di ogni ministro di Dio. Nella fede non si può sopportare nessuna forma di ignoranza – insegnare agli ignoranti è un’opera di misericordia – perché, ambasciatore di Cristo, ogni evangelizzatore ha il compito di ripresentare la chiamata di Gesù alla conversione e al rinnovamento della vita, che comporta il passare dalla tenebre dell’ignoranza alla luce della conoscenza dell’unico e vero Dio. Significativo poi, nella pedagogia dell’Apostolo, è la concretezza del suo annuncio. Egli, infatti, non utilizza idee astratte e né argomenta con ragionamenti astrusi, ma, da vero padre dei Corinzi, vuole che la predicazione apostolica sia fondata su solide basi e acquisisce dalla storia sacra del popolo d’Israele gli esempi che i cristiani devono considerare, per camminare spediti nella fede in Cristo. Il Dio d’Israele si è rivelato nella storia ed è questo il serbatoio dal quale ogni credente può attingere, attraverso la mediazione del testo biblico divinamente ispirato, le indicazioni di cui ciascuno ha bisogno, per entrare in relazione con Dio e ricevere da lui la forza necessaria nella vita di ogni giorno. È la concretezza della storia che ci salva dallo spiritualismo esasperato e dalla tentazione di rifuggire le difficoltà – un po’ come Pietro (cf. Lc 9,28-36) che desidera rimanere a contemplare il Cristo trasfigurato e quasi fermare il mistero – credendo che amare Dio comporti il vivere da separati, escludendosi dal mondo. Che senso ha essere lievito evangelico, se poi rifuggiamo di lasciare che il Signore ci impasti nella farina della vita quotidiana? Cristo che è il sale della nostra vita, non va forse donata perché doni sapore al mondo, attraverso la nostra testimonianza?

Quando si guarda al passato e si vuole scrutare la storia, riconoscendola maestra di vita, ci si trova nella difficoltà di non avere gli strumenti adatti per rileggere quanto è accaduto, così da imparare dalla storia. Paolo, non solo dice che è importante e necessario scrutare le Scritture (Gv 5,39), ma bisogna anche saperlo fare, per non rischiare di credere di comprendere, quanto, in realtà Dio non ha voluto trasmettere, rivelandosi nella storia. L’Apostolo riconosce nel vissuto del popolo un’esperienza significativa per ogni credente, ma, al tempo stesso, fa comprendere che bisogna saper discernere gli insegnamenti contenuti nel Testo sacro, utilizzando l’unica chiave che svela il significato recondito di ogni evento. È Cristo che apre i cuori e le menti alla comprensione delle Scrittura, come con i due discepoli di Emmaus, di cui l’evangelista Luca appunta “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27). Alla luce del mistero pasquale di Cristo, l’Apostolo apre i sigilli che tengono ben chiusa la Scrittura e la storia del popolo d’Israele, perché è Lui la pienezza della Legge, di Lui parlano i profeti dell’antica alleanza, a Lui guardano i giusti d’Israele. Paolo ci insegna a immergere nella Pasqua di Gesù la nostra vita, perché nel costato del Crocifisso, il sangue suo fuga la dinamica del male, le letture parziali, spingendoci a guardare con misericordia quanto è accaduto, mentre la sua acqua ci spinge ad essere cristallini nel giudizio ed imparziali nel riferire e trasmettere pregi e difetti dei padri. È proprio quello che Paolo fa. Scrivendo “i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale” (vv. 1-4a), aggiunge la rilettura cristologica, la capacità, frutto della professione di fede in Gesù Cristo, che “solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo [… visto che] Soffrendo per noi non ci ha dato semplicemente l’esempio perché seguiamo le sue orme (34) ma ci ha anche aperta la strada: se la seguiamo, la vita e la morte vengono santificate e acquistano nuovo significato” (GS 22). Per questo Paolo può subito aggiungere “[essi] bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” (v. 4b).

La rilettura presentata dall’Apostolo potrebbe sembrare forzata, visto che il salto storico è rilevante, dall’esperienza dell’esodo al mistero pasquale di Cristo. A ben vedere, però, si tratta dello stesso criterio di cui si serve anche il diacono Filippo, nello strappare il velo dell’ignoranza dagli occhi dell’etiope, funzionario della regina Candace. L’uomo, venuto per il culto a Gerusalemme, leggeva il profeta Isaia. “Filippo, prendendo la parola e partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui Gesù” (At 8,35). È questo il criterio che anche noi siamo chiamati ad applicare continuamente, non solo al passato, ma anche al nostro presente, perché il futuro non ci spinga a ripiegarci su noi stessi, ma a procedere con speranza e fiducia in Cristo. Tutto quello che viviamo, di bello o meno, deve spingerci a guardare verso Cristo, per imparare da Lui, “mite ed umile di cuore” (Mt 11,29) a trovare ristoro e pace. Tenere fisso lo sguardo sul Crocifisso – in ogni casa deve essere posto in un luogo ben visibile, proprio come in chiesa, durante le celebrazioni liturgiche – significa imparare a trarre esempio e forza dal suo dono, lasciando che lo Spirito ci guidi ad avere i suoi stessi sentimenti, considerando che la morte, ogni morte, non è mai l’ultima parola sulle esperienze della nostra vita, ma che la potenza di Dio è capace di strapparci dal buio e farci abitare nella sua luce intramontabile. Dobbiamo, come cristiani, alimentare questa speranza e vivere nella fede in Cristo, consegnato alla morte e vivo per sempre, nell’amore che il Padre ha nutrito per Lui.

Aggrapparsi alla vera Roccia

Nella rilettura che Paolo presenta del cammino del popolo nel deserto, c’è un passo che egli rivisita, quasi di passaggio, il racconto del dono dell’acqua presso Massa e Merìba. Alla mormorazione di Israele, il Signore risponde, comandando a Mosè “Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà”. Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele” (Es 17,5-6). La roccia dalla quale sgorga l’acqua per il popolo è figura di Gesù Cristo, segno del dono dello Spirito, promesso dal Signore alla donna di Samaria “chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14), invito rivolto a tutti, nel gran giorno della festa delle Capanne: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,37). L’Evangelista, interpretando la parola del Signore, alla luce della pasqua, appunterà: “Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato” (Gv 7,38-39). Trovare in Cristo il compimento delle antiche figure significa considerare che come il popolo venne guidato dai molteplici segni della Provvidenza divina, nella traversata del deserto, così noi, popolo della nuova ed eterna alleanza, stipulata nel sangue di Cristo, siamo chiamati a credere in Lui, Figlio unigenito del Padre, a confidare nel suo amore, forte più della morte, ad abbandonarci nelle sue mani, dalle quali nulla e nessuno potrà mai strapparci, ad andare verso Gesù, perché il suo gioco è soave ed il suo carico leggero.

Non si cammina nel deserto quaresimale, senza essere sostenuti dalla grazia del Signore. Non possiamo nulla, infatti, senza di Lui ed il suo amore ci nutre come un favo di miele, la sua misericordia guarisce le lividure per le cadute, causate dalle nostre ribellioni, il suo braccio ci apre un cammino sicuro, la sua parola, come lampada, illumina la notte. L’apostolo, insegnando che in Cristo trova compimento ogni segno dell’economia antica, sta dicendo che il cristiano non deve andare alla ricerca di altro, al di fuori di Cristo e della sua parola, perché ogni credente può dire, come le parole del salmista “Ecco si perderà chi da te si allontana […] Per me, il mio bene è stare vicino a Dio” (Sal 72,). Dobbiamo aggrapparci alla roccia del cuore di Gesù, per non soccombere nel cammino. Mai dobbiamo credere di essere soli – è questo che il tentatore vuol farci considerare, perché egli, prima ci allontana da Dio e dai fratelli e poi ci colpisce mortalmente. Nel tempo di quaresima dobbiamo battere con la verga della preghiera alla roccia del cuore di Cristo, da quella fonte possiamo attingere con gioia, perché solo Gesù è la sorgente della nostra salvezza. La sua acqua ha una molteplicità di effetti benefici per ciascuno di noi: ci disseta, nel desiderio insopprimibile di essere amati, smorza la guerra dei pensieri, calma l’ansia delle frenetiche nostre attività, ci dona l’essenzialità nel considerare le priorità delle vita, accende – può sembrare una contraddizione in termini, visto che l’acqua spegne – invece Cristo acqua accende nel cuore il desiderio di Dio, alimenta la carità verso i fratelli, spinge al dono di se stessi, argina il corso delle parole inutili, rafforza l’intelligenza nel cercare nuove vie per consegnarsi ai fratelli, purifica gli occhi per vedere solo il bene, lava le colpe commesse, per istigazione del nemico, ammorbidisce il cuore indurito nell’odio, come una goccia, lentamente consuma l’astio ed il rancore e, umidificando le labbra secche per il calore delle passioni, scioglie la lingua nella lode, nella supplica accorata al Padre, nell’annunciare ai fratelli la misericordia del Signore. Non deve mai vacillare in noi la professione della nostra speranza “Egli è la roccia: perfette le sue opere, giustizia tutte le sue vie; è un Dio fedele e senza malizia, egli è giusto e retto” (Dt 32,4). Abbiamo l’acqua che ci sostiene, il cibo che ci nutre e, al pari del profeta Elia, possiamo camminare verso il monte di Dio, l’Oreb, con la forza ricevuta dal sostentamento celeste. Per noi, però, a differenza del popolo d’Israele, dovunque andiamo veniamo accompagnati da Cristo roccia, Egli è sempre con noi, ci guida nel cammino e non ci lascia mai soli. C’è solo da magnificare il Signore per la sua bontà, per la provvidenza che continuamente ci dona!

Oltre a donarci l’acqua di cui ciascuno ha bisogno, Cristo è roccia che dona stabilità alla nostra esistenza. Su di Lui, è costruita la casa della nostra famiglia, è Gesù che sorregge la fede che della nostra comunità. Il cuore degli sposi è il segno della roccia di Gesù, da cui sgorga acqua d’amore a torrenti. La sposa deve trovare nel cuore del suo sposo quell’amore che la rigenera, come anche il marito sa di poter attingere dall’intimo della sua sposa quell’acqua cristallina, incontaminata, che il Signore fa zampillare, per la fede in Lui. In tal modo, se gli sposi cristiani sanno di trovare in Cristo la sorgente comune che li sostiene, ciascuno di essi deve mai allontanarsi dal cuore dell’amato, che è il porto da sui salpare e a cui dirigersi sempre. La fedeltà, infatti, nella vita matrimoniale, è stare ben ancorati al cuore dell’altro, perché lì Dio ha posto il suo sigillo sacramentale e ha assicurato la sua presenza. Dinamica simile si verifica per i presbiteri. Dal loro cuore, infatti, deve sgorgare la potenza dell’amore misericordioso del cuore di Gesù, chi li avvicina deve sentire il fascino della parola del Nazareno, nei loro gesti deve riverberarsi la sua misericordia che guarisce e risana. È la grazia del ministero ordinato che li rende sorgenti, ma sempre devono confessare che di questa grazia essi sono amministratori, mai padroni. Solo l’umiltà del cuore permette a Dio di servirsi di noi di compiere, nella nostra vita, meraviglie di grazia. La quaresima, in questa chiave, serve proprio a far sì che la roccia del cuore, toccata dalla mano di Dio, dal Dito del suo Santo Spirito, lascia fluire l’amore misericordioso che opera il bene.

Leggere la Parola di Dio per imparare ad essere discepoli di Gesù

Da quanto l’Apostolo scrive, si deduce facilmente la sua idea di fondo, il credente è chiamato ad identificarsi con l’antico popolo eletto, cercando di imparare dai suoi sbagli, per camminare secondo la nuova legge dell’amore che Cristo ha insegnato ai suoi. Per questo egli dice “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono” (v. 6). La storia sacra è maestra di vita, ma è necessario leggere la Scrittura, avendo la capacità di trarre da essa quegli insegnamenti che ci conducono a vivere nell’oggi la relazione con Dio Padre, in Cristo, assecondando la forza del suo Spirito. Il credente, infatti, sa bene che la sua fede è nel Signore Gesù e non si può rimanere ancorato all’antica alleanza, perché ogni sua parola ha trovato in Cristo il suo naturale sbocco. Coloro che nelle comunità paoline pretendono di restare legati ad una lettura formale della Legge, affermando la necessità della circoncisione, annullano la salvezza operata da Cristo e leggono la Scrittura, non alla luce del suo compimento che è Gesù. In Lui, invece, abbiamo la pienezza dell’Antico Testamento in termini di superamento, perché il Risorto completa la rivelazione del Sinai e, con il mistero della sua Pasqua, apre ai credenti possibilità nuove, effondendo il suo Spirito, già promesso in antico.

Leggere la Scrittura con questi nuovi criteri – Cristo è la pienezza della Legge, la luce della sua Pasqua dona un nuovo senso alla nostra vita e ci rivela il volto di Dio come Padre – ci deve portare a saper riconoscere che gli errori di coloro che ci hanno preceduti, pur se nella nuova economia iniziata da Cristo, si possono verificare anche per noi. Apprendere dalla Scrittura a non ripetere gli errori che Israele fece, nella prima alleanza: è questo il senso dell’approfondimento dei testi sacri per Paolo. Ecco perché la frequentazione dei Libri ispirati, che ci trasmettono il cammino del popolo, ci spinge alla vigilanza e alla custodia del cuore. È vero che siamo nella nuova economia annunciata e realizzata da Cristo, ma le dinamiche della ribellione e della mormorazione a Dio, della superbia e dell’orgoglio, della presunzione di sapere cosa fare, si ripresentano sempre, segno in noi di un egoismo ancora imperante. Le pagine dell’Antico Testamento “sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi” (v. 11). Dalla lettura attenta, sotto la guida dello Spirito, possiamo quindi considerare gli esempi da seguire e i comportamenti da evitare, perché nel popolo d’Israele vediamo esemplificate le possibili risposte, positivi e negative, a Dio, che chiama ogni uomo a collaborare al suo disegno universale di salvezza. Per questo Paolo, guardando al passato, può dire “Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore” (v. 10). Si impara dal passato, solo se si ha l’umiltà di accogliere le esperienza dei padri e di quanti ci sono accanto, nel cammino di fede.
Rispetto all’antico Israele, noi siamo certi di aver affidato la nostra vita in buone mani. Non siamo, infatti, guidati da Mosè, ma da Colui che ne realizza la figura. È Gesù il nostro condottiero e noi sappiamo che solo Lui può guidarci alla gioia vera, che nessuno potrà toglierci.




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