V Domenica di Quaresima – Anno C – 7 aprile 2019

Come possiamo lasciarci afferrare e salvare da Gesù Cristo?

Mani

foto: @Di KonstantinChristian - Shutterstock.com

di fra Vincenzo Ippolito

La conversione, di cui la Quaresima ci ricorda la necessità, è un cambiamento del cuore, un mutamento dell’anima, un diverso orientamento di vita. Chi si converte si lascia amare da Cristo, permette alla sua misericordia di invadere i deserti del suo cuore, di effondere torrenti di tenerezza dalla testa ai piedi, perché ogni sua fibra sia plasmata dalla divina Bontà.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (3,8-14)
A motivo di Cristo, ritengo che tutto sia una perdita, facendomi conforme alla sua morte.
Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

 

Siamo arrivati all’ultima domenica di Quaresima e prima di seguire Gesù, nel suo ingresso in Gerusalemme, ascoltando il racconto della sua Passione, la liturgia ci propone il brano evangelico della peccatrice perdonata (cf. Gv 8,1-11). Dinanzi agli scribi e ai farisei – erano le due categorie di persone che, nella pericope della scorsa domenica, mormoravano contro il Nazareno dicendo “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2) – Gesù, senza eludere le prescrizioni della Legge, che essi impugnano per decretare la morte, restituisce a quella donna, “sorpresa in fragrante adulterio” (v. 4), la sua dignità, deturpata dalla bruttura del peccato. Il Discepolo amato, al pari di san Luca, ci mostra il volto mite e misericordioso del Salvatore, è Lui ad offrirci possibilità sempre nuove, perché il nostro errore non è l’ultima parola sulla nostra vita, perché l’onnipotenza del suo amore vince sempre. La misericordia, sembra insegnare l’Evangelista, restituisce ad ogni uomo la sua dignità di creatura e lo riabilita alla comunione perfetta con Dio Padre e con i fratelli. In tal modo, come in antico il Signore, senza imputare al suo popolo le disubbidienze commesse nel deserto, “aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti”, così ora rinnova la terra, nella forza del suo amore fedele. È l’annuncio del profeta Isaia, nella Prima Lettura (cf. Is 43,16-21): “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (vv. 18-19). Il perdono è la potenza divina che rinnova il cuore dell’uomo e lo guarisce da ogni male, in profondità. Chi incontra la misericordia del Signore diventa una creatura nuova (cf. 2Cor 5,17), al pari di Paolo che, nella Seconda Lettura, tratta dall’Epistola ai Filippesi (cf. Fil 3,8-14) presenta la testimonianza appassionata di amore incondizionato a Gesù Cristo.
Prossimi alla Pasqua è bene che teniamo fisso lo sguardo su Gesù, il suo amore misericordioso ci riscatta dal male e ci chiede di rompere ogni compromesso con il peccato, proprio come il Maestro fa con la donna perdonata (Vangelo). Questo comporta la nostra collaborazione alla grazia, il nostro “sforzo di correre”, come lo definisce Paolo, per conquistare la meta (Seconda Lettura). Solo così la promessa del Signore si realizza nella storia (Prima Lettura), perché “Fedele è il Signore in tutte le sue parole” (Sal 145,13), quando l’uomo con fede si affida completamente a Lui.

Guardare il mondo con occhi diversi

Secondo gli studiosi, la Lettera ai Filippesi sarebbe uno degli ultimi scritti, se non l’ultimo, che Paolo indirizza ai primi cristiani del continente europeo. La piccola comunità di Filippi ha ricevuto l’annuncio del Vangelo, durante il secondo viaggio missionario – intorno all’anno 49 – quando l’Apostolo vi giunge con Timoteo e Sila (cf. At 16,11-12). A quei cristiani, quasi esclusivamente gentili, dal suo carcere – per alcuni a Roma, per altri ad Efeso – indirizzerà un’epistola, per rincentrare il mistero pasquale di Cristo, sostenere la gioia della vita nuova nel Signore risorto e difendere il suo ministero dagli avversari, da cui raccomanda di stare attenti.

Il brano liturgico odierno è costituito da sette versetti del capitolo terzo, interamente dedicato all’autodifesa del ministero apostolico paolino, vista la presenza, in quella comunità, di un fronte avverso all’Apostolo, a causa di predicatori che sostengono dottrine diverse da quelle annunciate da Paolo. Nel sostenere la rettitudine del suo annuncio, l’Apostolo descrive prima il suo essere proteso verso la conoscenza di Cristo (cf. Fil 3,1-16), per poi chiamare i Filippesi ad imitarlo, nella sequela del Signore crocifisso e risorto (cf. Fil 3,17-4,9, in parte letta come Seconda Lettura nella II Domenica di Quaresima, Fil 3,17-4,1). Ci troviamo, lo comprendiamo bene, in una sezione delle più delicate, perché non è semplice per Paolo difendersi dalle accuse, ricevute ingiustamente, visto che in gioco c’è non il prestigio personale, ma la verità del Vangelo. Ma poiché, nella vita cristiana, “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28), le avversità e le tribolazioni divengono per Paolo occasione propizia, per rivedere il cammino percorso, analizzandone le tappe, ritornando alle scelte fatte, per fissare ancor meglio la meta fissata. È quello che dovremmo imparare a fare anche noi, quando il cammino si fa difficile, le incomprensioni insuperabili, le critiche sprezzanti ed ingiuste. Proprio in quei momenti, che capitano nella vita degli sposi, come nel ministero pastorale di un presbitero e nella quotidiana consegna di un consacrato, è importante fare un esame di coscienza, girarsi indietro, per guardare al passato, per fare memoria grata di quanto è stato fatto, con l’ausilio imprescindibile della grazia divina e per rimotivare l’impegno nel presente, senza rancori verso coloro che non comprendono atteggiamenti e parole, che sono il segno della nostra fedeltà al Signore. Proprio questo desiderio aveva già spinto Paolo a dire: “Perciò, avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo. Al contrario, abbiamo rifiutato le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunciando apertamente la verità e presentandoci davanti a ogni coscienza umana, al cospetto di Dio” (2Cor 4,1-2). È importante trovare in Cristo la forza per non perdesi d’animo, nei momenti di difficoltà, perché il Nemico vuole proprio fiaccare il nostro entusiasmo, far crescere il senso di fallimento, vedendo che non ci sono frutti abbondanti, perché così gettiamo la spugna e, abbandonando al croce, torniamo a fare del nostro egoismo il dio, che ci impone una dura schiavitù. Dobbiamo sconfiggere lo scoraggiamento e, al pari di Paolo, per comprendere che “Tutto posso in colui che mi dà forza” (Fil 4,12), che dobbiamo combattere la buona battaglia, conservando la fede, così da conseguire la corona di vittoria (cf. 2Tm 4,7-8 ). È vero, non è semplice vincere la tristezza del fallimento, l’incomprensione per una vita donata, ma non accolta e apprezzata, superare la derisione e la superficialità, il sorriso falso e beffardo di chi, alla spalle, ti pugnala. Ma, tutto questo era messo in conto da Dio, quando ci ha chiamato e, nel nostro “Eccomi”, gli abbiamo consegnato, non solo il nostro presente, il passato da guarire, ma soprattutto il futuro da vivere. Per questo Paolo ritorna sulla scelta fatta, sulla risposta alla chiamata ricevuta da Dio, sulla via di Damasco, per riqualificarla e per mostrare a coloro che, con un senso di superiorità ora lo avversano, “i segni del vero apostolo, in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli” (2Cor 12,12).

Signore Gesù, anche tu, nell’ora del Getsemani, hai rivisto la tua vita e rinnovato la scelta, di obbedire al Padre, come avevi fatto nel deserto, bevendo il calice della sua volontà. Concedi anche a me, di non scoraggiarmi nella prova, di non intristirmi nelle difficoltà, di rispondere, con il silenzio della testimonianza, alle provocazioni dei benpensanti, di non assecondare in me la voce di Satana, che semina la diffidenza e la confusione. Donami di rincentrare in te la mia scelta, di riqualificare la mia vita, con il Vangelo, di consegnarmi con docilità al tuo Spirito e di comprendere che le tribolazioni sono il segno che sto camminando dietro di te, che mi sei davanti crocifisso e risorto, vivente per sempre, nella gloria dei cieli.

Cosa ho lasciato e cosa ho trovato?

Nell’argomentazione che Paolo presenta, ricordando cosa ha comportato per lui, “circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo” (Fil 3,5), divenire discepolo di Gesù Cristo, l’accento è posto proprio sul cambiamento che si è verificato nella sua vita. Siamo soliti definire tale mutamento conversione, anche se, nel caso di Paolo, si tratta di un naturale passaggio dal giudaismo al cristianesimo, visto che Gesù è il compimento della Legge data ai padri, attraverso Mosè. Poiché un testo è sempre parte di un contesto, leggendo i primi sette versetti che precedono la nostra pericope (cf. Fil 3,1-7), comprenderemo meglio le tappe del suo cammino di fede ed il mutamento che ha interessato la vita di questo zelante “persecutore della Chiesa” (cf. Fil 3,6). Indirettamente l’autore sta dicendo che il vanto nelle opere della legge e la fiducia riposta “nella carne”, attraverso la pratica della circoncisione, impediscono la regalità di Cristo Gesù nella vita del discepolo, perché è la fede in Lui che conduce a sperimentare la salvezza e ci partecipa la giustizia di Dio, la gratuità del suo perdono. Per dimostrare che è necessario passare il guado dei riti antichi e considerare Cristo il mediatore unico e definitivo della rivelazione divina, Paolo cita il suo esempio, mostrando la centralità di Gesù nella vita del discepolo e come la relazione con Lui determini un totale cambiamento nel modo di relazionarsi con il mondo.

La fede è la risposta dell’uomo a Dio che lo raggiunge. Sulla via di Damasco, Paolo era chiuso in una lettura legalista della legge, al punto tale da perseguitare i cristiani. Il Risorto gli si è fatto incontro e la sua luce ha così illuminato le tenebre del suo cuore. Con il battesimo, ha riconosciuto la potenza del Nazareno nella sua vita e si è lasciato totalmente trasformare dalla sua azione, interiormente penetrare dall’unzione spirituale del Consolatore. È Gesù che determina un cambiamento di rotta nella nostra vita, non solo le regole che ci cambiano, né le leggi a spingere la nostra volontà, sempre debole, a vivere secondo il Vangelo. Gesù, come nel caso del giovane ricco, incontrandoci, ci guarda ed infonde in noi la potenza del suo amore, che destabilizza le false sicurezze su cui crediamo di aver ben costruito la nostra vita. La conversione, di cui la Quaresima ci ricorda la necessità, è un cambiamento del cuore, un mutamento dell’anima, un diverso orientamento di vita. Chi si converte si lascia amare da Cristo, permette alla sua misericordia di invadere i deserti del suo cuore, di effondere torrenti di tenerezza dalla testa ai piedi, perché ogni sua fibra sia plasmata dalla divina Bontà. E così Saulo diventa Paolo, cade a terra il refrattario difensore della legge fatta di precetti e sorge Paolo, l’intrepido annunciatore del Vangelo, che è Gesù, l’ambasciatore della sua riconciliazione, che è puro dono di grazia, il banditore della giustizia, non frutto delle opere umane, ma della libera iniziativa di Dio, che sempre dona salvezza. Dalle ceneri dell’uomo vecchio sorge il nuovo. Riusciamo così a comprendere la descrizione che l’Apostolo fa di se stesso, un’appassionata testimonianza, non per menar vanto della sua fede – la sua gloria è la croce (cf. Gal 6,14) – ma solo perché i Filippesi guardino alla verità dei fatti e comprendano i veri segni del suo apostolato. Per questo scrive: “Ma queste cose, che per me erano guadagni – il suo essere ebreo e fariseo – io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore” (vv. 7-8). Dinanzi a Cristo tutto si dilegua, anche le cose un tempo considerate più giuste e sante, perché fondate sulle antiche promesse fatte ai padri, vengono considerate superate, non perdono la loro importanza, visto che la legge data a Mosè rimane tale, ma si tratta di una economia che ha trovato pieno compimento nella venuta del Signore. Un bambino utilizza l’alfabeto per imparare a riconoscere le lettere, costruisce le sillabe, per formare la parola da pronunciare, ma una volta che ha imparato a leggere, non ha più bisogno degli strumenti, funzionali al suo apprendimento. “Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo” (Gal 3,24-25)
Paolo mostra che, nella sequela di Cristo, è necessario attuare, partendo da Lui, una scala di priorità. Il perdere di cui parla, mettere da parte le pretese sicurezze di un tempo riguarda anche noi, chiamati a non anteporre nulla a Gesù, per non meritare l’amaro, pur se accorato, rimprovero rivolto dal Maestro alla sorella di Lazzaro: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10,41-42). Dire “ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore” significa confessare che Gesù è il mio Signore, che la mia vita guarda a Lui, che vivo per Lui ed in Lui, che nessuna cosa ha il primo posto nella mia giornata, che posso fare di tutto, ma senza la sua forza non sono nulla, senza il suo amore, io non vivo. È questa la scoperta sconvolgente che Saulo/Paolo ha fatto, per questo vive nello stupore continuo, nella lode, sente di avere la forza di annunciare Colui che gli ha preso il cuore, che gli ha strappato l’anima, perché questo significa amare veramente, sapere e volere che l’amato sia tutto, il motore di ogni pensiero, la ragione di ogni azione, il sorriso di ogni attimo di gioia, la parola che illumina il buio e dona la pace, alle tempeste interiori. In amore è necessario imparare a perdere, a lasciare, a considerare secondario ogni cosa che non sia Colui che tanto ci ha amati. È l’amore di Cristo che rende vivo Paolo, stare lontano da Lui per l’Apostolo significare morire di asfissia, perché Gesù è l’aria che lo fa respirare ed il suo amore è il sangue che scorre nelle sue vene. Cristo è l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, nelle sue mani raccoglie la mia vita, i cocci del mio esistere, le lacrime del mio dolore, in Lui trova senso il migrare dei miei giorni, l’ansia del mio quotidiano affannarmi. Nulla vale quanto o più “della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore”. Fare tutto per Gesù: è questo il segreto della santità cristiana, tale passaggio – dal fare le cose per sé stessi a farle per Cristo – mira il cammino di rinnegamento che la Chiesa ci propone, per sradicare da noi stessi il nostro io irridente, l’egoismo che ci divora, l’amor proprio che ci schiavizza. Solo facendo spazio, attraverso la morte del nostro io, in noi ci creerà quel vuoto che Dio potrà colmare con la sua presenza di pace. In realtà, però, siamo noi che abbiamo spodestato dal nostro cuore Dio, attraverso il cammino di conversione lo riconsegniamo a Lui, perché vi regni come unico Signore e Salatore.

Signore, tu sei Santo, tu sei l’Altissimo, tu l’Onnipotente, re del cielo e della terra. Donami la grazia di vederti regnare nella mia vita, nelle relazioni che scandiscono la mia famiglia, il tuo nome sia sovrano nel mio lavoro, la tua misericordia scandisca la cerchia delle mie amicizie. Aiuta la mia casa ad avere in te il suo faro, il mio matrimonio a divenire saldo per te, a fare tutto, sapendo che tu ci sei accanto e che mai ci abbandoni. Riordina la scala dei mie valori, perché tu possa occuparvi sempre il primo posto. Sii tu l’ispiratore dei miei pensieri, l’attuatore dei propositi tuoi in me, la sorgente dell’amore, la forza del mio donarmi senza riserve. Che io tutto perda per amor tuo, la tua conoscenza amorosa mi rallegri, il penetrare nel tuo mistero mi doni la pace. Solo tu hai parole di vita eterna!

Perdere, risvolto del verbo amare

È avvincente la prosa dell’Apostolo. Da quello che scrive, si percepisce l’afflato del suo cuore, la determinazione della sua volontà, il desiderio del suo animo, nel lasciarsi portare solo da Gesù Cristo e dall’amore insopprimibile per il suo Signore. In Paolo contempliamo la radicalità della risposta, perché in lui c’è la consapevolezza del dono ricevuto. Solo chi si scopre raggiunto dall’amore del Padre, in Cristo, sente in sé la forza dello Spirito che motiva la volontà di consegnarsi nelle mani di Dio, facendo della propria vita un annuncio gioioso ai fratelli. Per questo l’Apostolo può scrivere: “Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (vv. 8b-9). La scelta di lasciare ogni cosa deriva dalla scoperta del valore superiore dell’amicizia di Cristo, rispetto ad ogni realtà creata. Solo chi, come Paolo, si rende conto che Gesù è tutto, può lasciarsi alla spalle il passato ed il presente, consegnandosi totalmente all’opera dell’amore misericordioso di Dio. La sublimità della conoscenza di Gesù Cristo conduce l’Apostolo a ritenere tutto una perdita al suo confronto e a lasciare perdere le cose considerate in precedenza un guadagno. Il chiarore del Risorto, che avvolge il credente, permette di guardare le cose della terra, sotto una luce totalmente diversa. Sulla labbra dell’Apostolo ben si addicono le parole del libro della Sapienza “La [l’amicizia di Cristo] preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta” (Sap 7,8-10). È Gesù la sapienza incarnata e per Lui ogni discepolo è chiamato a considerare tutto “rifiuto/spazzatura”, perché il fine del nostro agire è “guadagnare Cristo ed essere trovato in lui”, per la fede che si ripone in Lui, per il docile abbandono alla sua parola, per l’obbedienza alla sua voce. Il motore della vita cristiana, il senso del nostro affannarci, il motivo che spinge l’azione pastorale è la relazione con Cristo. Paolo lo esprime con chiarezza, senza mezze misure: “perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (vv. 10-11). È la conformazione a Gesù Cristo la meta a cui l’Apostolo desidera giungere, la partecipazione al mistero della sua Pasqua a motivare il suo impegno personale nell’annuncio del Vangelo, spingendolo a lasciarsi interiormente plasmare dallo Spirito Santo. È quanto aveva scritto ai Romani: “quelli che egli [Dio] da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29). Il Padre ci vuole non secondo la legge data a Mosè – questo è quello che credeva Saulo e che Israele perseguiva nell’economia antica – ma, con l’incarnazione del Verbo, abbiamo avuto la rivelazione piena del mistero di Dio e possiamo affermare – è questo che Paolo ha compreso, sulla via di Damasco – che Dio ci vuole come il suo Figlio Gesù, è lo Spirito che il Risorto ha effuso sugli apostoli è la forza di Dio che li conforma a Lui, che li rende partecipi dei suoi sentimenti, per essere nel mondo la presenza di Gesù, attraverso la vita divina che portano in sé. Dio Padre ci vuole come Gesù: per questo il discepolo è chiamato a seguire il Maestro divino nel mistero della sua Pasqua, per imparare da Lui, mite ed umile di cuore, che ogni occasione della vita è luogo di morte e di resurrezione, se ci lasciamo portare interiormente da Dio.

Dobbiamo imparare a perdere, se vogliamo veramente vivere l’amore e questo vale nel rapporto con Dio e tra noi. Imparare a considerare secondario tutto, rispetto ai rapporti personali, in famiglia e all’esterno è fondamentale, se vogliamo veramente seguire Gesù, nell’offerta della vita per amore. Le cose che riempiono la nostra giornata, le attività e gli impegni, pur se importanti, non sono il fondamento della nostra esistenza e vengono dopo Cristo, dopo la sua Parola, dopo il tempo dedicato ai fratelli che Lui mette sulla nostra strada, dopo i tempi della preghiera in famiglia ed in comunità. Cosa è veramente importante per me? Considero tutto una perdita, per Cristo? Le mie scelte, in famiglia e nel rapporto con gli altri, sono contro corrente, perché hanno in Gesù la ragione di essere e la forza? Sento di essere chiamato ad essere conforme a Gesù, a rivivere nella mia carne il mistero della sua Pasqua, di portare i segni della sua morte, che l’amore del Padre trasforma in vita? Conosco Gesù? Mi lascio plasmare, nella mente e nel cuore, dalla sua Parola, guidare dal suo esempio, condurre dalle ispirazioni dello Spirito Santo? Mi capita di anteporre altre cose a Cristo, alla preghiera e alla comunione con gli altri? Il criterio delle mie scelte è l’egoismo oppure ho compreso che perdere vuol dire rinnegare se stessi, per far posto nella mia vita a Cristo e, in suo nome, ad ogni fratello?

Insegnami, Signore Gesù, la radicalità del tuo Vangelo, spogliami di tutte le assurde pretese che mi portano a chiedere all’altro/a di assecondare il mio amor proprio e di essere accontentato, come se fossi un bambino capriccioso. Donami la forza di accogliere la correzione, di non ribellarmi nelle tribolazioni, di vivere con gioia le avversità, di volgere l’altra guancia a chi mi percuote, credendo di fare cosa accetta a te. Donami di vedere con i tuoi occhi ogni cosa, per considerare spazzatura e rifiuto quello che alla tua volontà è contrario. Ti chiedo di mettere ordine nel mio cuore e di concedermi la consapevolezza del tuo amore, perché la tua grazia vale più della vita, le mie labbra diranno la tua lode.

In corsa per conquistare la meta

La cosa più bella che Paolo esprime, scrivendo ai Filippesi, insieme ai suoi desideri, è la consapevolezza del suo cammino. Non si sente, infatti, arrivato nella sequela di Cristo, ma avverte di dover guardare fisso in avanti, senza lasciarsi distrarre dall’ideale fissato. Per questo scrive: “Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù” (v. 12). Essere conquistato da Cristo è questo il segreto della vita cristiana, essere afferrato dall’amore, sempre. Non è forse questo il senso della vita insieme? Lasciare che l’amore dell’altro/a mi seduca, mi attragga, mi basti, mi riempia il cuore. L’amore è una conquista, non nel senso di legare la persona amata con violenza, ma nella capacità di abbandonarsi all’amato, di lasciarsi prendere, afferrare, salvare. Paolo esprime questa consapevolezza – sono stato afferrato da Gesù Cristo – e la vive con la gioia di chi sa di poter vivere nella dolce presa della mano dell’Amato che mai usa, né disprezza, tantomeno strumentalizza. Non sarebbe male, in questa ultima settimana di Quaresima, prendere le parole di Paolo come monito ed impegno: “dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (13-14). È quanto il Maestro ci insegna. L’importante è non perderlo d’occhio!




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