II Domenica di Pasqua – Anno C – 28 aprile 2019

Giovanni, il veggente di Patmos, nostro fratello e compagno

di fra Vincenzo Ippolito

Dicendosi fratello e compagno nel regno, Giovanni sta confessando di condividere un modo diverso, alternativo di considerare la vita, che parte dalla Pasqua di Gesù. Il sangue del Signore ci ha resi un popolo solo, stirpe eletta, regale sacerdozio, gente santa ed è questo il regno nel quale noi viviamo, la civiltà dell’amore che diventa dono, dell’odio e della vendetta che è sbaragliata dal perdono.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (1,9-11.12-13.17.19)
Ero morto, ma ora vivo per sempre.
Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.
Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese». Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».

 

La prima settimana che segue la Resurrezione di Cristo trabocca della grazia della sua vita nuova e la Chiesa, che fino alla Pentecoste gioisce della vittoria del Signore sul peccato e sulla morte, vive come se fosse un solo giorno la rinascita spirituale dei catecumeni, divenuti nel fonte battesimale figli di Dio e membra vive del suo popolo santo. Diversi sono i nomi che questa domenica può avere, definendola in albis si ricorda la veste bianca che i nuovi battezzati deponevano, dopo averla indossata per ben otto giorni, ad indicare la grazia della vita nuova ricevuta in dono la notte di Pasqua; Domenica di Tommaso è anche chiamata, visto che il brano evangelico ci presenta l’apostolo dubbioso, che, ravvedutosi, confessa la sua fede nel Risorto, riconoscendolo suo Dio e Signore; da alcuni anni è poi indicata come Domenica della Divina Misericordia per celebrare l’effusione copiosa dello Spirito sui discepoli e il mandato ad essere nel mondo testimoni del perdono e della riconciliazione del Signore risorto.
La liturgia odierna è un continuo riverbero del giorno di Pasqua. Difatti, il Vangelo (cf. Gv 20,19-21) continua il racconto delle apparizioni del Risorto che, nell’arco di una settimana, riempie di gioia il cuore dei discepoli, vincendo la ritrosia di chi, come Tommaso, fatica a portare il passo con gli altri. La Prima Lettura, tratta dal libro degli atti degli Apostoli (5,12-16), presenta la vita della comunità di Gerusalemme a cui, dopo la Pentecoste, si associano molti, spinti dalle testimonianze di Pietro e degli altri, comprovata dai miracoli che operano, nel nome del Risorto. Come Seconda Lettura, l’inizio del libro dell’Apocalisse (1,9-11.12-13.17.19) fissa il nostro sguardo sul Signore che, passato attraverso la morte, è il Vivente. L’apostolo Giovanni è il testimone della rivelazione ricevuta e conferma i fratelli nella certezza che Gesù accompagna la Chiesa, nel suo cammino verso il regno.
Dobbiamo lasciarci raggiungere dalla grazia della Pasqua di Gesù, come Pietro (Prima Lettura), come Giovanni (Seconda Lettura), perché, dopo aver sperimentato la potenza della divina Misericordia che, come nel caso di Tommaso, ci raggiunge e guarisce (Vangelo), diveniamo anche noi, come i primi testimoni della fede, lievito di riconciliazione e ambasciatori di pace tra gli uomini.

Nella visione del Risorto

Iniziamo oggi la lettura semicontinua del libro dell’Apocalisse, che ci accompagnerà, come Seconda Lettura, in tutte le domeniche del Tempo di Pasqua, mentre, come Prima Lettura, la liturgia ci donerà l’esperienza della comunità primitiva, dopo la Pentecoste, nel racconto degli Atti degli Apostoli. Così lo sguardo della Chiesa è portato a contemplare ciò che lo Spirito ha compiuto agli albori della sua storia (Atti degli Apostoli), perché anche ora la potenza del Signore confermi il cammino dei credenti, spingendoli a testimoniare con forza la gioia del Risorto (Apocalisse).
Si è soliti attribuire all’apostolo Giovanni il Quarto Vangelo – così da identificarlo con il Discepolo amato – le tre Epistole che portano il suo nome e l’Apocalisse, che chiude l’elenco dei libri canonici della sacra Scrittura. Fermando la nostra attenzione all’ultimo di questi genieri letterari, notiamo che con esso la tradizione della Chiesa indica le rivelazioni dell’apostolo Giovanni, da lui messe per iscritto, durante il suo esilio, sull’isola di Patmos. La parola greca Apocalisse, passata in italiano, attraverso la trascrizione latina, significa proprio rivelazione e fa riferimento alle visioni che l’autore ispirato traduce in simboli – si tratta di immagini, colori, cifre, personaggi … – per la cui interpretazione è necessario entrare nel linguaggio simbolico. Circa la paternità dell’opera, lo stesso autore si presenta con il nome di Giovanni (cf. Ap 1,9) e questo ha portato i padri della Chiesa, da Giustino in avanti, ad identificarlo con uno dei figli di Zebedeo. Riguardo poi la datazione, si pensa che la stesura finale sia da far risalire all’impero di Domiziano, intorno al 95 dell’era cristiana, anche se alcune parti sarebbero state redatte in periodi precedenti.
Il libro consta di varie parti. Dopo il prologo (cf. Ap 1,1-3) e la descrizione delle prime visioni da parte di Giovanni (cf. Ap 1,4-20), i capitoli iniziali raccolgono sette lettere, indirizzate ad altrettante Chiesa dell’Asia Minore (cf. Ap 2-3). A questa parte segue la seconda (cf. Ap 4-22), con altre rivelazioni, che possono essere diversamente distinte e divise. Chiude l’opera un breve epilogo (cf. Ap 22,16-21), che assicura il ritorno glorioso di Cristo, al quale la Chiesa indirizza la sua accorata invocazione Maranà tha, Vieni, Signore Gesù!

Compagni e fratelli nella fede

La pericope odierna, che arricchisce la mensa della Parola di Dio, offerta dalla Chiesa, presenta parte della visione iniziale di Giovanni (cf. Ap 1,4-20). A bene vedere la citazione riportata (Ap 1,9-11.12-13.17.19), ci rendiamo conto che la liturgia, nella scelta del brano da proporre, salta la seconda parte del v. 11, con i nomi delle sette Chiese dell’Asia Minore, come anche i vv. 14-16, con la solenne descrizione simbolica del Messia. Il veggente, che si presenta con il nome di Giovanni, gradualmente descrive cosa gli accade, per poi descrivere la visione a cui assiste, trasmettendo anche le parole che ascolta dal Signore. Leggendo, dinanzi ai nostri occhi si disegna la scena e partecipiamo alla rivelazione che Dio, attraverso la Scrittura, indirizza anche a noi, per avere la vita e la forza della testimonianza.

A parte le questioni che si riferiscono all’identità dell’autore, in parte vi abbiamo già fatto accenno, è importante notare come egli si presenti, nelle prime battute del suo scritto. Dopo il prologo, il suo nome è accompagnato da alcune note che dimostrano come i rapporti, nella comunità credente, siano fondati in Cristo. Egli si definisce “fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù Cristo” e confessa di trovarsi in esilio “nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”. Prima di tutto, egli si sente fratello e compagno. Non presume di essere superiore agli altri, per le rivelazioni ricevute. In realtà, neppure lo potrebbe, visto che il Signore non ha ricusato la passione e la croce e che, durante la sua vita terrena, è stato in mezzo ai suoi “come colui che serve” (Lc 22,27). Seguirlo, significa prendere la via dell’umiltà e dell’abnegazione, del servizio obbediente e della carità fattiva, con quanti il Signore ci ha posto accanto, come compagni di viaggio e condiscepoli. Non solo è importante essere fratelli, ma anche sentirsi fratelli, compagni delle vicende della vita, partecipe delle gioie e dei dolori, delle ansie e dei traguardi della vita degli altri. Essere fratelli significa sapere che tutti siamo stati redenti nel sangue di Cristo, che l’acqua del fonte battesimale, ci ha resi figli del Padre e che l’unzione ricevuta dal Santo ci ha uniti misticamente nell’unico corpo di Cristo che è la Chiesa. Essere fratelli significa che la nostra condivisione è fondata nella carne di Gesù, che tra noi c’è una familiarità più forte di quella del sangue, voluta e stipulata in Cristo, con il sacrificio della sua croce. Questo perché la fraternità è il grande sogno di Cristo sull’umanità. Nella sera del tradimento, non ha forse pregato il Padre per l’unità tra i discepoli (cf. Gv 17,22), dopo aver donato loro il comandamento dell’amore, modellato sul suo (cf. Gv 13,34)? La fraternità è dono di Dio ed impegno dell’uomo, perché la grazia chiede la nostra collaborazione fattiva. Nulla può fare Dio, senza la nostra collaborazione, la nostra docile volontà, il nostro abbandonarci alla potenza della sua forza. Impegnarsi per la comunione è una sfida che deve trovarci sempre pronti. In un mondo lacerato, ad ogni livello, da lotte e discordie, che vede le potenze della disgregazione diabolica penetrare nell’istituto familiare, come nella casa di Dio che è la Chiesa, solo un rinnovato impegno di preghiera e di azione può spingerci a realizzare l’unità per la quale Gesù ha pregato, permettendo allo Spirito di rinnovare la faccia della terra. E che la fraternità di cui parla l’Apostolo sia fattiva lo mostra ciò che segue. Definendosi “compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù Cristo”, Giovanni mostra che la fraternità è vera, se c’è la compartecipazione, la solidarietà che non è solo nella gioia spensierata dei momenti felici o nell’allegria dei giorni sereni, quanto, invece, nelle difficili prove che il cristiano, sull’esempio di Gesù, deve attendersi sempre. Tale fraterna compartecipazione, spiega poi l’Apostolo, è su un triplice livello. In primo luogo nella tribolazione, poi nel regno e nella perseveranza di Cristo. Sono questi i momenti nei quali mostriamo il radicamento della nostra fede nel Risorto e testimoniamo ai fratelli che la casa della nostra vita è fondata sulla roccia della parola del Maestro.

La tribolazione è il primo scoglio che il discepolo del Nazareno incontra. Memore delle parole del Maestro: “Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!” (Gv 13,33), egli sa bene che la vita di ogni uomo non procede sempre tranquilla, ma che i venti delle avversità, le piogge delle contrarietà, le tempeste dei malintesi cadono in maniera talvolta irreparabile. La parola dell’evangelista Giovanni è ricca ed incisiva per i credenti, perché egli è nella tribolazione, vive la contrarietà, si trova in esilio, lontano dai suoi fratelli, avversato dai nemici, ma non per questo perde la speranza. La sua parola è accompagnata dalla vita, per questo è credibile. È la vita che deve parlare di Dio, la nostra esistenza testimoniare che abbiamo fede nel Risorto e con Lui non temiamo nulla. In tal modo, per i Discepolo amato, l’esilio diviene un’occasione per rendere testimonianza e confermare i fratelli nella fede, per camminare con forza e fiducia, sulla via di Dio. Tante volte, invece, “tribolazioni e persecuzioni a causa della Parola” (Mc 4,17) ci bloccano, impedendo al buon seme di germinare in noi. Paolo, invece, al pari di Giovanni, può confidare ai Corinzi “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni tribolazione” (2Cor 7,4) e ancora “il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2Cor 4,17).

Il secondo scoglio che incontriamo sulla via della sequela è il regno di Cristo. Giovanni si dice, infatti, compagno e fratello nel regno. Non dobbiamo però comprendere questa come una realtà umana. È Gesù stesso a dircelo “I re delle nazioni le governano e coloro che hanno potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Voi però non fate così” (Lc 22,25). Il regno di Dio è la sua presenza nella vita dell’uomo. Gesù è il regno e chi entra in Lui, chi ascolta la sua Parola e la mette in pratica, chi cammina nella sua volontà entra nelle braccia del Crocifisso e partecipa della sua regalità, che sta nel servire, amare, perdonare e attrarre ogni creatura al Padre, nella forza dell’amore che non si arresta dinanzi a nulla. Dicendosi fratello e compagno nel regno Giovanni sta confessando di condividere un modo diverso, alternativo di considerare la vita, che parte dalla Pasqua di Gesù. Il sangue del Signore ci ha resi un popolo solo, stirpe eletta, regale sacerdozio, gente santa ed è questo il regno nel quale noi viviamo, la civiltà dell’amore che diventa dono, dell’odio e della vendetta che è sbaragliata dal perdono. Chiamati a partecipare al regno di Cristo, viviamo in Lui, nel mistero della sua Pasqua, se la nostra vita testimonia l’appartenenza ad un dinamica pasquale, se la morte del nostro egoismo diventa vita divina. Siamo fratelli e compagni nel regno di Cristo, se lo seguiamo nel dono della vita, sapendo che servire vuol dire veramente regnare e che il vero nostro trono è la croce da quell’altezza, si vede tutto in verità e tutto si può raggiungere, con uno sguardo di tenero amore, come quello di Gesù che al ladrone pentito, assicura un posto nel suo regno.

Il terzo ambito della fraternità e della compagnia cristiana è la perseveranza. L’Apostolo, infatti, definendosi “vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù”, mette in luce, come ultimo aspetto, quanto già il Maestro aveva sottolineato durante la sua predicazione. Perseveranza è l’altro nome della fedeltà. L’amore che si sedimenta nel tempo e non teme lo scorrere dei giorni, diventa come un roccia, stabile, in grado di non vacillare, dinanzi a nulla, di non lasciarsi scalfire dalle difficoltà, resistendo in nome dell’amore promesso, opponendosi risolutamente con la forza travolgente ed invincibile che dentro lo muove. L’amore vero è fedele e perseverante, rimane, non fugge, come il mercenario dinanzi al lupo, è fermo, come Maria sotto la croce, accoglie e tutto medita, fino ad abbracciare anche il dolore e la morte. Il dire di Giovanni diventa ancora più ricco di significato, visto che la perseveranza riceve da Cristo la sua forza, dal Risorto l’energia vitale, dal Crocifisso, il coraggio di non soccombere nella prova. Per questo leggiamo “nella perseveranza in Cristo”, quasi a dire che tale capacità viene da Lui, è Gesù che rende saldi i nostri cuori nella fedeltà, è Lui che corrobora le forze e ci rende capaci di sperare, contro ogni speranza, di credere contro ogni umana certezza. È una virtù da chiedere la pazienza, sia perché il Signore ci ha ammonito – “Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita” Lc 21,19 – sia anche perché essa è in grado di completare l’opera di Dio in noi e di farci giungere fino alla perfezione (cf. Gc 1,4). Quanto è importante attingere da Cristo la pazienza nelle avversità e la perseveranza nella ricerca del bene! Quanto risulta importante non perdere la pazienza nel dialogo e ricercare sempre spiragli di luce, per non inclinare le relazione e far in modo che tutto concorra al bene! Per questo san Francesco di Sales (1567-1622) poteva scrivere “Nella cura dell’anima ci vuole una tazza di scienza, un barile di prudenza e un oceano di pazienza”.

Radicati in Cristo, è Lui che ci rende fratelli e compagni di viaggio, infondendo nei nostri cuori la forza del suo Spirito, così da essere “lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità” (Rm 12,12-13). Se riflettiamo bene, le parole dell’Apostolo sembrano richiamare la promessa nuziale. Il dire: Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e di amarti ed onorarti tutti i giorni della mia vita, non significa forse essere compagni l’uno dell’altro, fratelli – secondo il linguaggio del Cantico dei Cantici, dove la sposa viene definita sorella, a dire l’intimità profonda, la consanguineità che crea l’amore – pronti a condividere le tribolazioni, la regalità che Cristo ha partecipato nel sacramento nuziale sulle realtà create, gareggiando nell’amore che diventa perseveranza, nella sequela del Signore Gesù? Non sono i momenti felici a dire che apparteniamo l’uomo all’altro, come anche nella vita consacrata non è il bagno di folla dei giorni di festa a dare il senso alla vita di un presbitero o di una religiosa, ma la tribolazione, la persecuzione e l’angoscia, la difficoltà. Sono queste situazioni, che a noi appaiono spiacevoli, a dirci che stiamo seguendo Cristo e che, attraverso la via della croce, parteciperemo alla luce nuova della sua Resurrezione.

Testimone del primato della Parola di Dio

Verba volant, exempla manet dicevano gli antichi Romani, le parole passano, gli esempi restano e trascinano. Per quanto le esortazioni dell’Apostolo risultino significative per i discepoli, che stanno attraversando un periodo di persecuzione, la situazione dell’Apostolo rappresenta una cornice importante, che rende ancor più incisiva la sua parola. Scrive, infatti, Giovanni, riferendo del periodo a cui risalgono le rivelazioni ricevute “mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”. La vita dell’Apostolo è radicata su Cristo, bruciata dal desiderio di testimoniare la sua Pasqua e di dare visibilità e concretezza alla parola sua che rischiara sempre i passi incerti di ogni uomo. Essere determinati da Cristo e dalla sua Parola di vita: è questo che Giovanni compie e più entra nella circolarità dell’amore di Cristo, più sperimenta che “il tuo amore vale più della vita, le mie labbra canteranno la tua lode” (Sal 62,4). Il discepolo è l’uomo consumato dalla Parola della Scrittura, perché la legge, durante il giorno, la medita, lungo la notte, lascia che indichi la strada della vita, che lo porti ad evitare la ribellione e la disobbedienza, per essere la compiacenza del Padre, il diletto di Dio. Per questo l’Autore ispirato, più avanti, descriverà il suo mangiare un piccolo rotolo, che un angelo gli presenta (cf. Ap 10,8-11), proprio per indicare che solo chi assimila la Parola, nutrendosi continuamente di essa, come di cibo, troverà in abbondanza la vita.
Le nostre famiglie e comunità devono imparare da Giovanni a non aver paura del Vangelo, a non vergognarsi della Parola di Cristo (cf. Rm 1,16), ma a vivere, con il coraggio e la forza, che viene da Dio, il difficile cammino della sequela e della testimonianza, nel mondo di oggi. Essere sale della terra e luce del mondo è la chiamata che il Risorto affida ai suoi discepoli, sapendo di non essere soli, perché è Lui ad accompagnare i nostri passi, a sostenere il nostro annuncio, a mettere sulle labbra la parola di salvezza, che chiama a conversione tutte le genti. È importante notare come il martirio oggi sta accompagnando la vita della Chiesa, con una generosità che ricorda i cristiani dei primi secoli. È la forza della Parola di Dio che ci spinge e motiva, infonde energie nuove e coraggio, perché la cultura della morte, la diffidenza per il diverso, l’egoismo esasperato non prevalgano sul desiderio della fraternità universale e della pace tra gli uomini. È necessario lasciarci determinare dalla Parola della Scrittura, lasciare a Gesù di ispirare i nostri pensieri, perché la nostra azione nel mondo sia la continuazione del suo perdono e della potenza della sua misericordia. Nelle nostre famiglie, comunità parrocchiali e religiose è quanto mai fondamentale lasciarsi guidare dalla Parola del Maestro. Essa è la luce che ci illumina, il pane che ci sfama, l’acqua che ci disseta. Dalla Parola del Signore furono fatti i cieli e la Parola del Signore è lampada ai nostri passi, luce sul nostro cammino, sempre.

La tradizione della Chiesa ha dato all’autore ispirato il titolo di veggente, perché, proprio nel momento di maggiore tribolazione, nell’esperienza dell’esilio e della lontananza dalla sua comunità, il Signore lo visita con la sua grazia e lo riempie del suo coraggio e della sua forza. E così, come i tre fanciulli uscirono incolumi dalle fornace, perché un angelo venne in loro soccorso, come il Signore Gesù, nel Getsemani, venne consolato da un angelo, nella sua agonia (cf. Lc 22,42), così Giovanni è visitato da Dio. Egli scrive “Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba […] Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro” (vv. 11.12-13). Come i discepoli ricevono le apparizioni del Risorto, così Giovanni, nel suo esilio, accoglie le rivelazioni di Dio. Il Signore si presenta risorto – “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (vv. 17-18) – gli dona di sperimentare la sua presenza e di continuare a trasmettere ai fratelli attraverso la sua testimonianza messa per iscritto – “Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito” (v. 19), gli dice il Signore, apparendogli – le opere mirabili che il Signore compie nella nostra storia.

Dio non ci lascia mai soli nel cammino, misteriosamente segue i nostri passi e ci spinge ad essere, in ogni contesto, nelle diverse età della vita, annunciatori e testimoni della sua Pasqua, che continua nelle membra del suo corpo, che è la Chiesa. Per questo Paolo può incoraggiare il suo discepolo e collaboratore Timoteo, scrivendo: “Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo” (2Tm 1,8). La vita di fede non è un combattimento semplice, in un mondo dove i valori del Vangelo sono avvertiti come contrarie ad ogni logica, ma non per questo è meno bello ed impossibile essere discepoli di Gesù. A noi il testimoniare, come il Veggente di Patmos, la gioia del Vangelo e la potenza della resurrezione ch rivive in noi, per il dono dello Spirito del Signore.




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