Criminalità

Una toga, una tonaca, un’uniforme, solo “abbigliamenti” o qualcosa di più?

giustizia

di Michela Giordano

Quanta gente dice di battersi per la legalità e, poi, chiude accordi con criminali? Le parole da non sole non bastano. Si tratta di premiare chi è non chi finge di essere.

Qualche giorno fa, tornata per le feste al “natio borgo selvaggio”, ho portato, insieme a mio marito, Aurora al cinema. Proiezione pomeridiana di una pellicola adatta ai bambini, pochissimi spettatori. Nell’atrio, in attesa degli immancabili pop corn, mi sono sentita chiamare a distanza dall’esterno. Un uomo si sbracciava, cercando di richiamare la mia attenzione. Sul principio non l’ho riconosciuto, poi ho fatto un rapido sforzo di memoria: l’ho conosciuto anni fa durante la mia attività professionale. È un pregiudicato, di famiglia di pregiudicati. Più volte ne ho raccontato l’arresto, i processi, le scarcerazioni. Credevo volesse aggredirmi. Ma quando mai! Mi è venuto incontro con un largo sorriso, quasi abbracciandomi per salutarmi. Mio marito, qualche metro più in là, impegnato con Aurora e i pop corn, guardava da lontano.

“Vi posso offrire un caffè, un gelato?”, mi fa il tizio con una cordialità inaspettata. Per prima cosa ho provato imbarazzo. Ho pensato che chi avesse assistito alla scena, poteva fraintendere il tenore dei rapporti. Non sapevo cosa dire. Di getto mi è uscita la frase peggiore, “ah ma state in libertà?”, considerato che avevo un po’ perso di vista lo stato delle sue vicende processuali. Per fortuna non si è arrabbiato. Si è fatto una bella risata e ha ribattuto “aeh, dottorè, vuoi sfuttit sempre” (ndr “mi prendete in giro”). Dopo avermi spiegato che era impegnato in un processo mi ha salutato e, rispettosamente, è andato via.

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Mio marito mi ha rimproverata. Dovevo sganciarmi subito. Ma davvero mi ha colto di sorpresa la sua cordialità. L’episodio mi consente di condividere una riflessione da giornalista ma non solo: non è necessario infierire per segnare un solco. Essi stessi hanno l’onestà intellettuale di ammettere che esiste un “noi” e un “voi”. I fatti, solo i fatti, contano. Raccontarli basta.

Ancor meno è opportuno nutrire timori di come potesse interpretare quello scambio di battute, esteriormente cordiali, chi lo potesse guardare da distanza. Non è della forma che dobbiamo aver paura, ma della sostanza: quanta gente dice di battersi per la legalità e, poi, chiude accordi con criminali? Ho conosciuto un rappresentante delle Istituzioni che, indagato da una certa forza di polizia, pronunciava in pubblico parole del tipo: “Sono sereno, aspetto che la Giustizia faccia il suo corso” e che, in privato, smuoveva mari e monti per far trasferire, riuscendoci, il referente delle indagini che lo riguardavano. Non è solo una questione di stile. È che le parole da sole non bastano. Dovremmo imparare a guardare ai fatti, ai gesti concreti, andando oltre “l’abito”. Lo sostengo da sempre: una toga, una tonaca, un’uniforme sono solo “abbigliamenti”. Da sole garantiscono “rispetto”. La “stima” arriva se chi li indossa pratica comportamenti degni. Dobbiamo rispetto ad un prete, ma se è un peccatore, nessuna stima. Rispetto è dovuto ad un giudice, ma se è corrotto, nessuna stima. Si tratta di premiare chi è, non chi finge di essere. Al contrario, poi, non abbiamo diritto a lamentarci.




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