III Domenica di Pasqua – Anno C – 5 maggio 2019

Cantare con la vita all’Agnello immolato per noi

di fra Vincenzo Ippolito

Ogni famiglia deve imparare a pregare insieme ed essere scuola di preghiera per i figli, con gesti e parole, che accompagnate dal canto, esprimono quanto Dio sia incisivo nella costruzione della concordia sponsale e della comunione familiare, perché solo l’Agnello immacolato, ritto sul trono può insegnarci a non avere paura di nulla, perché Dio è il nostro vincastro, la sua mano la nostra forza.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (5,11-14)
L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza.
Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce:
«L’Agnello, che è stato immolato,
è degno di ricevere potenza e ricchezza,
sapienza e forza,
onore, gloria e benedizione».
Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano:
«A Colui che siede sul trono e all’Agnello
lode, onore, gloria e potenza,
nei secoli dei secoli».
E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.

 

La liturgia del tempo pasquale ci conduce, gradualmente, ad accogliere la forza della resurrezione di Cristo, per passare con Lui, dalla morte alla vita, perché il senso del cammino di sequela è il vivere da risorti. “Se uno è in Cristo – scrive san Paolo – è una creatura nuova” (2Cor 5,17) ed è Gesù, vivente ed operante nella Chiesa, con la forza del suo Spirito, a fare nuove tutte le cose in noi e tra noi. Non è semplice, portare il passo con il Risorto. Come i discepoli, fatichiamo non poco a credere che la morte sia vinta dalla potenza del Padre – lo abbiamo visto, la scorsa domenica, con l’apostolo dubbioso Tommaso (cf. Gv 20,19-21) – e non riusciamo a perseverare nella grazia che Gesù ha concesso ai suoi, con il dono dello Spirito Santo, la sera di Pasqua.
Il cammino di fede è sempre scandito da luce ed ombre, ma a vincere è sempre l’amore di Dio, visto che sempre Gesù è il buon pastore, che si mette alla ricerca di ogni sua pecora smarrita, finché non la ritrova. È quanto apprendiamo dalla pagina odierna del Vangelo (cf. Gv 21,1-19). Pietro ed altri sei discepoli tornano sul lago di Tiberiade, al mestiere di un tempo. La vita condivisa con il Maestro è stata una parentesi da cancellare, visto che si torna al passato. Dopo una notte infruttuosa sul mare, incontrano Gesù, che gli chiede di gettare le reti. La pesca è abbondante e questo spinge il Discepolo amato a riconoscere il Signore. Sulla parola Pietro si getta in acqua per raggiungerlo e dinanzi al fuoco, mentre mangiano tutti, conferma il suo amore al Risorto, che guarisce il suo cuore e lo invia a pascere il nuovo Israele. La Prima Lettura, tratta dal libro degli Apostoli (5,27b-32. 40b-41), racconta come Pietro e gli altri, fatti comparire dinanzi ai sacerdoti di Gerusalemme, testimoniano con franchezza e coraggio la resurrezione di Cristo, mentre, nella Seconda Lettura (cf. Ap 5,11-14), Giovanni, il veggente di Patmos, descrive, in una delle sue visioni, la liturgia celeste, con l’adorazione dell’Agnello, a cui si innalza l’inno di lode degli spiriti celesti.
L’insegnamento che la Parola di Dio vuole offrirci è significativo per ciascuno di noi: a livello personale e familiare, oltre che comunitario, ci sono dei momenti di infedeltà, nei quali ci tiriamo indietro e rifiutiamo di proseguire, per una pluralità di motivi, sulla strada che Dio ha tracciato per noi, con la sua croce. Proprio lì, nel luogo della nostra ribellione, nella barca dei nostri fallimenti, il Signore ci raggiunge e, guarendoci, con la sua misericordia, ci conferma nella missione (Vangelo), per essere in mezzo ai fratelli, segno della sua vita nuoca (Prima Lettura), tenendo fisso lo sguardo al cielo (Seconda Lettura), dove il Signore ci attende, per sedere alla mensa del suo regno.

Vedere, con gli occhi del cuore, il trionfo del Signore

Il brano biblico proposto come Seconda Lettura dalla liturgia odierna è tratto dalla seconda parte del libro dell’Apocalisse (capp. 4-22), nella quale l’autore descrive le sue visioni, dinanzi al trono di Dio. Già la scorsa domenica, abbiamo ascoltato la presentazione che l’autore faceva di sé, dei motivi del suo esilio e della prima rivelazione, nella quale il Signore gli affidava il compito di scrivere ciò che avrebbe visto (cf. Ap 1,4-20). Oggi, proseguendo la lettura semicontinua del libro, che accompagnerà la Chiesa, in questo tempo pasquale, teniamo fisso lo sguardo sulla liturgia celeste, mirabilmente descritta dall’autore ispirato, con ricchezza di simboli. Al pari di Isaia (cf. Is 6,1ss), Giovanni è rapito dalla straordinaria visione che si presenta, dinanzi al suo sguardo. Egli scrive “vidi e udii” (v. 11), ma non ci è dato sapere, se si tratti di una visione interiore o esteriore, di una voce che sente nell’animo o meno. Nell’uno, come nell’altro caso, non è in dubbio l’oggettività della rivelazione e la verità del messaggio trasmesso all’Apostolo. La descrizione che egli fa, scrivendo, è resa plasticamente con vivacità e concretezza, in un consesso celeste che richiama la corte di un re, circondato dal suo seguito solenne. “Vidi – scrive Giovanni – e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani” (v. 11). Il centro della visione è il trono, verso cui convergono lo sguardo dei presenti e le loro voci di acclamazione e di lode. Già prima, il Veggente aveva detto: “vidi, in mezzo al trono, circondato dai quattro esseri viventi e dagli anziani, un Agnello, in piedi, come immolato; aveva sette corna e sette occhi, i quali sono i sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra” (Ap 5,6). Nel nostro brano, l’attenzione è posta sulla corte celeste e la lode che essi rivolgono a Colui che è assiso sul trono, ma è bene per noi, facendo un passo indietro, indugiare sulla figura del Risorto, che Giovanni contempla nel simbolo di un Agnello.

Le immagini proposte dall’autore, nel suo libro, il più delle volte vanno interpretate, ma non è difficile comprendere, in questo caso, il riferimento al Crocifisso risorto. Già nel Vangelo secondo Giovanni, infatti, il Battista, indica Gesù come “l’agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29) e così lo presenta ai suoi discepoli (cf. Gv 1,36), perchè lo seguano. Già la misteriosa figura del Servo del Signore era descritta dal profeta Isaia, con la metafora dell’agnello – in Is 53,7 leggiamo “Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” – la ripresa giovannea fa capire che, nel mistero della sua Pasqua, tutto si realizza in Cristo, che muore in croce, come il vero agnello, a cui non è spezzato alcun osso (cf. Gv 19,36; Es 12,46). L’Agnello è quindi Gesù, con tutta la ricchezza simbolica dell’Antico Testamento, che tale figura evoca, al tempo stesso, però, Egli è immolato, perché porta i segni del sacrificio del Golgota, in piedi, trionfante, perché ha vinto il peccato e la morte, ha il potere, rappresentato dalle corna, e la conoscenza, simbolicamente espressa dagli occhi, tutto questo nella pienezza, che il numero sette indica. Si tratta della signoria universale del Crocifisso risorto, le sue piaghe hanno ricevuto dal Padre il balsamo dell’amore che dona la vita per sempre. Per Giovanni, tutto converge verso il Signore glorificato, che gli aveva detto: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Ap 1,17-18). Gesù è il centro, assiso sul trono attrae a sé ogni creatura, “miriadi di miriadi e migliaia di migliaia”, per i quali vivere è lodare, stare alla sua presenza, contemplare la sua gloria, vedere le sue piaghe risorte, tenere fisso lo sguardo su di Lui, il più bello tra i figli dell’uomo, sulle cui labbra è diffusa la grazia (cf. Sal 43,3). Il Signore, oltre a fare nuove tutte le cose, “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,4).

È importante tenere fisso lo sguardo sulla Pasqua di Gesù, volgere gli occhi del cuore a Colui che hanno trafitto, attingere con gioia alle sorgenti della salvezza, da cui sgorgarono la grazia e la misericordia, la giustizia e pace, l’amore e la verità. L’apostolo Giovanni ci insegna a non lasciarsi portare dalla tristezza, per il male che sembra prevalere, per l’ingiustizia e la violenza che si vede dilagare. Verrà un tempo in cui “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà” (Is 11,6). Questo tempo, in realtà, è iniziato con Gesù, con il mistero della sua Pasqua, con la sua vita consegnata all’abbraccio della croce, con il soffio della resurrezione che, ricevuto in dono dal Padre, per la sua obbedienza, Egli consegna ai discepoli, per seminare la pace, per vincere l’odio con il perdono. Abbiamo bisogno, nelle nostre famiglie e comunità, di tenere fisso lo sguardo sul Crocifisso risorto, di comprendere, dalla meditazione della sua croce, che la morte è vinta, il peccato si supera, il fallimento non ci determina per sempre, la colpa è cancellata, quando Cristo regna in noi, per mezzo della sua grazia. Se Gesù, passato attraverso le sofferenze della croce, è il Vivente, ha il potere universale, esercita la signoria assoluta, dobbiamo consegnargli la camera segreta del nostro cuore, il trono della nostra vita sponsale e familiare, stringendoci a Lui, “pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1Pt 2,5). È Lui che ci rende “edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo” (1Pt 2,6). La centralità di Cristo, nella vita quotidiana, è il riflesso, nello scorrere del tempo, della promessa nuziale, della grazia dei sacramenti celebrati, della preghiera che ritma la vita e motiva e sostiene la fedeltà e la cura dell’altro/a. Si realizza la parola del salmista “La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa” (Sal 128,3), solo quando costruiamo su di Lui i nostri rapporti e superiamo, con la grazia che il suo Cuore dispensa, le difficoltà e le morti a se stessi, le contrarietà ed incomprensioni, i travagli e le sofferenze, le lacrime e le notti di dolore, che segnano, come i rintocchi di una campana, l’orologio della propria storia. L’Agnello immolato, ritto sul trono, ci ricorda che non c’è vita senza morte, non c’è letizia, senza sofferenza, come per una donna non c’è maternità gioiosa, senza vivere i travagli del parto. Anche noi siamo chiamati a portare, al pari dell’apostolo Paolo, i segni della passione di Cristo nella nostra carne, piaghe che lo Spirito vivifica e trasforma in fenditoi di misericordia e di perdono per i fratelli.
Solo quando riconosceremo che Cristo è il Signore della nostra casa, che ha nelle sue mani il potere dei nostri cuori, che ci conosce in profondità, perché il suo sguardo ci scruta con amore, allora, vinti dalla sua potenza di affetto, potremo regnare con Lui e cantare, già su questa terra, la sua bontà e misericordia.

Contemplare, per partecipare al canto di lode

Nella visione della corte celeste, Giovanni oltre a vedere quanto accade, ascolta le voci della moltitudine, dinanzi al trono dell’Agnello. La vita di fede, sembra insegnare l’Apostolo, comporta mettere a frutto le ricchezze che il Signore ci ha dato, ponendo i nostri talenti al servizio dell’incontro con Dio e del rapporto con i fratelli. Il Veggente, preso dalla scena che gli si presenta, non solo vede con attenzione, ma vuol vedere, senza lasciarsi distrarre da nulla, ascolta sì, ma desidera sempre più ascoltare, con partecipazione, il canto degli spiriti, rivolto Signore, che vive nei secoli. Giovanni vede ed ascolta, ma sono i sensi del cuori a guidarlo, quelli interiori a condurlo, oltre il sensibile. Seguendo la descrizione dell’autore ispirato, possiamo dividere la scena (5,11-14) in due parti. Da un lato (vv. 11-12), abbiamo “molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani” e “il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia”, mentre nell’altra (vv. 13-14), sono “Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano” a rivolgersi all’Agnello, seduto sul trono, cantando e lodando il suo nome. È come se ci fossero due cori, che abbracciano l’intero universo e che, attorno al trono, innalzano il proprio canto all’Agnello. Ciascuno di noi è parte di un corpo più grande, è membro vivo della grande famiglia dei figli di Dio, che è la Chiesa. Nessuno deve mai sentirsi escluso dalla comunità credente, né assecondare le tensioni che spesso possono farci allontanare, dal corpo di Cristo, che non possiamo depauperare, con la nostra assenza o, cosa peggiore, scacciando gli altri. È di fondamentale importanza avvertire l’appartenenza alla grande famiglia della Chiesa, sentire la bellezza della comunione che lo Spirito suscita, della corresponsabilità che nasce dalla consapevolezza del dono ricevuto, non solo per se stessi, ma anche per donarlo agli altri. Essere Chiesa comporta vivere le stesse dinamiche che si riscontrano in famiglia, sentirsi parte della vita dell’altro, farsi carico delle sue pene, sostenere nelle difficoltà, sorridere dei traguardi, lavorare perché il futuro porti serenità e gioia. Questo è ciò che, se siamo comunità, deve crescere anche tra noi, la stima e l’affetto, la cura e l’attenzione, la gioia per il bene che si compie ed il coraggio di sostenersi nelle cadute. Giovani contempla un’assemblea armonica di persone che non cercano di prevalere sugli altri o di occupare il primo posto, di essere i soli a salvarsi o di perseguire una gioia per pochi. Nell’assemblea festosa dei cielo, tutti vivono la bellezza del canto, la gioia della partecipazione serena, il ritmo della lode corale. Non ci sono solisti, davanti al trono dell’Agnello, ma una voce sola di lode, che è frutto della somma individualità dei singoli. Questo, nell’assemblea del cielo, come nella Chiesa e nella famiglia, non significa mortificare il singolo o spersonalizzarlo, in una dimensione collettiva, che toglie le differenze, quanto, invece, far convergere in unità le diversità, permettendo a ciascuno di sentirsi parte di una realtà più grande, offrendo con umiltà, il proprio contributo per la causa comune, che è la lode di Dio. È questo il principio della complementarietà, che crea l’unità, non come uniformità, ma che armonizza le diversità e le conduce a fare comunione. Quando vogliamo cantare da soli, quando preferiamo procedere per la nostra strada, rifiutando il confronto ed il dialogo e rigettando la bellezza della reciprocità, secondo il piano di Dio, allora lasciamo prevalere l’egoismo, in nome di una realizzazione personale, che, nella coppia ed in famiglia, come in qualunque comunità umana, non è altro che la vittoria dell’amor proprio e la perdita del nostro essere immagine e somiglianza di Dio, insieme.

I due cori, che l’Apostolo ascolta – nel capitolo 5 sono tre i Cantici che si innalzano al trono dell’Agnello, Ap 5,9-10. 12. 13 – sembrano alternarsi nel canto, nessuno prevale sull’altro che gli è accanto ed, insieme, non cercano di essere controcanto degli altri, che rivolgono all’Agnello la propria lode. Amare significa rispettare la persona che ci è accanto, lasciarle tempo e spazio per manifestare le proprie doti, vincendo le paure che tutti ci portiamo dentro. Non sempre riusciamo a modulare la voce, nel canto comune. Spesso manca il riscaldamento oppure sbagliamo tonalità, credendo che siano gli altri a non aver preso bene la nota. Per questo è richiesta pazienza ad ogni corista. Il fidanzamento non è forse il tempo opportuno per modulare la voce, orientare al Signore i proprio cuore e lasciare che sia Lui a determinare le gioie della vita, non gli egoismi personali a prevalere, chiedendo all’altro/a di soccombere? E il tempo delle nozze, in cui si cresce come famiglia, accogliendo il dono dei figli, non è forse il periodo per perfezionarsi nel canto fatto all’unisono, tenendo fisso gli occhi su Cristo, che infonde la forza di cantare sempre, anche quando ciascuno, “nell’andare se ne va e piange”, portando la semente dell’amore da gettare, in una terra che appare sterile ed invece, poi, ci fa tornare con giubilo “portando i suoi covoni”? Cos’è poi l’educazione dei figli, se non la trasmissione della gioia di vivere insieme e di essere un coro solo, perché si ha un cuore solo, accogliendo anche il loro sciamare, per formare altre arnie, dove il miele dell’amore sostiene nel canto della vita?

Cantare con la vita all’Agnello immolato per noi

Oltre a descriverci la scena che contempla, Giovanni riporta anche ciò che ascolta, la voce di coloro che circondano il trono. «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione» (v. 12) cantano gli uni, mentre gli altri rispondono «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei scoli» (v. 13). A chiudere sono i quattro esseri viventi che, più vicini al trono, acclamano «Amen», mentre “gli anziani si prostrarono in adorazione” (v. 14). La gioia di stare alla presenza del Signore motiva il canto, l’esultanza di sapere che il Risorto è tutto per i suoi, muove i cuori alla gioia. La vita come canto è la nota dominante di quanti vivono con Dio, camminando alla sua ombra, avvertendo il suo sguardo di amore e di cura, sentendosi sostenuti, nelle vicende liete e tristi della vita, dal suo braccio santo, salvati sempre da ogni pericolo dalla sua mano onnipotente. Bella quest’alternanza dei beati, c’è chi canta e chi ascolta e poi, tutti lasciano che siano altri, i quattro esseri viventi a concludere la lode. Bella è la totalità che si esprime nel canto, “Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano”, scrive l’autore, quasi a dire che l’armonia che regna sovrana, nella lode e nel canto. Non sole le figure che il Veggente scorge intorno al trono, ma anche le parole che essi pronunciano sono rivolte all’Agnello, al solo cui spetta “potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione” (v. 12).

Il motivo del canto è la presenza del Signore che, come lampada, illumina i suoi eletti ed infonde la grazia della preghiera, il bisogno di rivolgersi a Lui, con le modulazione più sublimi della supplica. “Voglio cantare al Signore finché ho vita, cantare inni al mio Dio finché esisto” (Sal 104,33) e ancora “Saldo è il mio cuore, o Dio, saldo è il mio cuore. Voglio cantare, voglio inneggiare” (Sal 108,2). Alle parole, che esprimono la signoria dell’Agnello, la sua forza e potenza che Egli esercita su ogni creatura, segue la prostrazione degli anziani, il loro adorare l’Agnello. Gesti di adorazione, parole di benedizione, non è forse questo il ritmo della vita familiare, che diventa fonte di santità nelle piccole cose, dove tutto è cifra della presenza del Signore, segno della tenerezza, che dà senso e significato ad ogni nostra azione? È necessario, non solo nella preparazione al Battesimo o alla Prima Eucaristia di un figlio, in tempi particolari, come il mese di maggio, dedicato alla Vergine Maria, ma sempre, anche nella vita feriale di una comunità domestica, avere un ritmo di preghiera e di liturgia familiare che ci porti a riconoscere il primato di Cristo e a donargli la lode, che a Lui, spetta come Dio e Signore della nostra storia. Ogni famiglia deve imparare a pregare insieme ed essere scuola di preghiera per i figli, con gesti e parole, che accompagnate dal canto, esprimono quanto Dio sia incisivo nella costruzione della concordia sponsale e della comunione familiare, perché solo l’Agnello immacolato, ritto sul trono può insegnarci a non avere paura di nulla, perché Dio è il nostro vincastro, la sua mano la nostra forza. È il canto, il giubilo a tradurre la gioia la presenza dello Spirito in forza per camminare sulla via di Dio. Scrive sant’Agostino:
Oh felice Alleluia, quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena tranquillità, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici. Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente angustiata, lassù da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nel reale possesso; qui in via, lassù in patria. Cantiamolo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere il gaudio del riposo ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, poiché, al dire dell’Apostolo ci sono certuni che progrediscono in peggio. Se tu progredisci, cammini; ma devi progredire nel bene, nella retta fede, nella buona condotta. Canta e cammina! Non uscire di strada, non volgerti indietro, non fermarti!” (Discorsi 253,3).

La nostra famiglia, come ogni comunità parrocchiale e religiosa, può vivere in rendimento di grazie e scandire il tempo che la Provvidenza dona, assecondando il desiderio di bellezza e di gioia, che ciascuno si porta nel cuore. I motivi di gioia sono superiori a quelli di mestizie, se guardiano la nostra vita, con gli occhi di Dio e permettiamo al plettro dello Spirito di toccare le corde dell’anima. Uniti in una sola melodia, la nostra vita sarà lode al cospetto dell’Agnello, benedizione e lode a Lui che ci resi “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (1Pt 2,9).




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