Vedovanza

di Assunta Scialdone

Il matrimonio dura anche dopo la morte. Lo dicono i Padri della Chiesa

8 Maggio 2019

sposi

Quando l’amore che unisce gli sposi è quello di Dio, neanche la morte può decretare la fine di quella unione. L’una sola carne continuerà a vivere oltre la morte e verrà vissuta, in cielo, con modalità a noi sconosciute. Lo si evince chiaramente dal pensiero di alcuni Padri della Chiesa dei primi secoli.

L’ipotesi avanzata nell’ultimo articolo, che riguardava il destino della consacrazione matrimoniale dopo la morte, ha suscitato in alcuni gioia, mentre in altri perplessità. Questi ultimi l’hanno avvertita come una strana novità. Ebbene vorremmo mostrare che tale non è ponendo in luce il pensiero a tale riguardo di alcuni Padri della Chiesa dei primi secoli.

La visione di Cristo sul matrimonio, come riportata dai sinottici e da Paolo, sembrerebbe netta e radicale, nello spirito di una cosciente, piena e indissolubile donazione reciproca. Gesù, spesso, nei suoi insegnamenti sposta il discorso da un piano puramente legale a quello teologico in modo da esaltare la scelta radicale, umana e spirituale di compiere la volontà di Dio. La scelta sembra mostrarsi definitiva. La dottrina della Chiesa cattolica per quanto riguarda l’indissolubilità del matrimonio non è da tutti condivisa. Il dibattito si fonderebbe su alcuni testi biblici di indubbia interpretazione che tuttavia vengono letti dalla Chiesa cristiana Ortodossa e Protestante come possibilità di un secondo matrimonio. I testi in questione sono: 1 Cor 7, 10-11; Mc 10, 11-12; Lc 16,18; Mt 5, 32; Mt 19, 9. Solo i due testi di Matteo sembrano lasciare aperta la possibilità di un ripudio e di conseguenza l’apertura alle seconde nozze anche se ciò nel testo biblico non viene menzionato.

Il testo più antico, dopo quelli biblici, che tratta l’indissolubilità del matrimonio è il Pastore di Erma (130-140 circa – II secolo), un’opera molto citata da alcuni Padri come Ireneo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, Origene. Il tema non era secondario. Già Ignazio d’Antiochia aveva parlato del matrimonio, nella lettera a Policarpo: «Dì alle mie sorelle di amare il Signore, contentarsi dei loro sposi nella carne e nello spirito. Allo stesso modo raccomanda nel nome di Gesù Cristo ai miei fratelli “di amare le loro spose come il Signore ha amato la Chiesa”. Conviene agli uomini e alle donne che si sposano, contrarre la loro unione secondo il Signore, e non secondo la passione. Ogni cosa si faccia in onore di Dio». È chiaro l’invito a contrarre il matrimonio tra cristiani in modo da poter continuare ad onorare il Signore e vivere un’unione lecita celebrata e benedetta in Dio. Ma veniamo al “Pastore di Erma”. All’interno di quest’opera troviamo dodici precetti donati dall’angelo al pastore (presbitero) che formano un compendio della morale cristiana. Essi riguardano la fede, il timor di Dio, la semplicità, l’amore della verità, la castità anche nello stato matrimoniale, la longanimità e la prudenza. Nel quarto precetto viene affrontata la questione del ripudio: «Ti comando di custodire la castità e che non entri nel cuore pensiero di donna altrui o di qualche fornicazione o di altre siffatte malvagità. Ciò facendo compi un grande peccato. (…) Ricordandoti sempre della tua donna giammai peccherai. Un tale desiderio per un servo di Dio è un grande peccato. Se qualcuno opera una turpe azione, si prepara alla morte (quella spirituale)».

Atenagora (180 circa – secondo secolo) nella sua Legatio pro Christianis è molto più esplicito e severo verso coloro che contraggono le seconde nozze sia in caso di ripudio, definendole un adulterio decente, e sia in caso di vedovanza definendo colui che si risposa un adultero cammuffato. Atenagora, evidentemente, vede il matrimonio unico ed indissolubile anche dopo la morte di uno dei coniugi perché Dio nella Genesi creò un solo uomo con una sola donna: il secondo matrimonio, secondo lui, si oppone alla volontà del Creatore. Da questa breve rassegna (ma esistono studi evidentemente più approfonditi) siamo autorizzati a ritenere che, nel periodo esaminato, le seconde nozze sono rifiutate persino in caso di vedovanza allo scopo di evitare una bigamia successiva nel regno dei cieli (adulterio camuffato). Ci chiediamo: si può dedurre da ciò che il sacramento del matrimonio, dunque, fosse visto come un’unione eterna, nel senso che il legame contratto sulla terra divenisse legame valido anche nel regno di Dio post-mortem? La scomparsa agli occhi umani di un coniuge non era vista come il “non essere più” ma piuttosto come un “essere in modalità diversa” nell’attesa di ricongiungersi con l’altro coniuge rimasto in terra. La morte del coniuge sarebbe “solo” un andare avanti ed arrivare prima alla casa del Padre. Sarebbe uno scomparire solo ai sensi. Se la fede porta a credere nella risurrezione dei morti e nella comunione dei santi, allora l’appellativo di bigamo, dato a quei tempi anche al vedovo risposato, ci risulta più chiaro. Per questo motivo le seconde nozze erano concesse ai vedovi con “tristezza” sulla scia dello stesso san Paolo che le aveva già concesse aggiungendo che per queste persone “è meglio (ri)sposarsi che ardere” (1 Cor 7, 8-9). Esse andavano, comunque, a mettere in luce l’incapacità del coniuge rimasto in terra di rimanere fedele al coniuge defunto e quindi anche all’insegnamento evangelico che proclama il matrimonio come unico ed indissolubile. Stando a questi Padri, ci si può porre una domanda: anche se nel regno dei cieli si vivrà diversamente da come si è vissuto sulla terra, quell’unione particolare sancita dal sacramento del matrimonio rimane in eterno in Cristo?

Nel terzo secolo, Clemente Alessandrino (150-215 circa – terzo secolo) negli Stromati (che significa le Tappezzerie), precisamente nel libro secondo, affronta la questione delle seconde nozze. Nel Terzo Stroma, Clemente polemizza contro gli Encratiti i quali hanno l’intento di convincere i cristiani a sciogliere le loro unioni perché considerano il matrimonio una condizione perversa. Clemente, in risposta, afferma la santità, l’unicità e l’indissolubilità del matrimonio. Tertulliano (155-220 circa- terzo secolo), prima di allontanarsi dall’ortodossia, nel testo Ad uxorem, (Alla moglie), in previsione della propria morte, raccomanda alla moglie di non passare a seconde nozze. Fin dall’inizio egli propone quello che sarà il fondamento di tutta la sua dottrina intorno al matrimonio: «Io non ripudio l’unione dell’uomo e della donna, benedetta da Dio come il vivaio del genere umano, destinato perciò a popolare la terra e a formare il mondo (Gn 1, 28): pertanto essa è permessa, nei limiti però di un’unione unica». Come si vede, l’unicità del matrimonio è chiaramente enunciata. Tertulliano è assolutamente contrario alle seconde nozze: «La disciplina della Chiesa e le prescrizioni dell’Apostolo dichiarano quanto le seconde nozze detraggono alla fede, e fino a che punto ostacolino la santità, visto che l’Apostolo non permette che gli sposati due volte siano ammessi a presiedere la comunità (1Tm 3, 2-12), e non ammette che una donna sia accolta nell’ordine delle vedove, se non quando risulta che essa è stata moglie di un solo uomo (1Tm 5, 9)». Il primo libro termina con un’accorata esortazione alla moglie a non passare mai alle seconde nozze in caso di vedovanza, mentre il secondo libro si apre con la discussione di due passi paolini: 1Cor 7, 7: «Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» e 1Cor 7, 39: «La moglie è vincolata per tutto il tempo in cui vive al marito; ma se il marito muore è libera di sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore». Egli esprime il disaccordo alla concessione facile delle seconde nozze in caso di vedovanza: «In effetti, quanto e grande la continenza della carne che accompagna la vedovanza, altrettanto può essere suscettibile di comprensione, se una donna non si sente di affrontarla. In tal caso, trattandosi di cosa difficile, è facile essere condiscendenti. Ma allora, visto che è permesso sposarsi nel Signore, essendo questo in nostro potere, risulterà tanto maggiormente colpevole il fatto di non attenersi a quello che rimane in facoltà del tutto nostra».

Leggi anche: L’amore dei coniugi termina con la morte o la oltrepassa?

Tertulliano mette in risalto la libertà di scelta di contrarre o meno un secondo matrimonio in caso di vedovanza, sottolineando che l’apostolo Paolo consiglia di rimanere fedeli al primo matrimonio conservando la castità. Se proprio non ci si riesce allora vi è un ordine ben preciso e cioè di contrarlo unicamente nel Signore. Tertulliano orienta la sua posizione a favore del consiglio paolino esortando cioè a rimanere nella castità dopo la vedovanza. Giovanni Crisostomo (360-435 d.C.) nel Discorso ad una giovane vedova afferma in più parti la continuazione del matrimonio anche oltre la morte. Egli pone questa verità come scontata e condivisa, che va solo ricordata. Egli afferma, con molta chiarezza che il matrimonio non termina sulla terra alla morte di uno dei coniugi, ma sopravvive oltre la morte. «Giacché questa morte non è una morte reale, ma un trasmigrare (…) Ti è possibile continuare a custodire l’affetto che tu nutri verso di lui anche ora e allo stesso modo di prima. Tale è appunto la forza dell’amore: essa è in grado di abbracciare, riunire, di legare insieme non solo le persone presenti, quelle che si trovano accanto a noi e quelle che vediamo, ma anche quelle persone che sono molto lontane da noi. Inoltre né tempo, né la lunga distanza del percorso, né alcunché di simile avrebbero la minima forza necessaria di spezzare quest’affetto spirituale. E poi, anche se vuoi vedere il tuo sposo in faccia, e so per certo che questo costituisce il tuo più vivo desiderio, persisti nel conservargli il letto nuziale incontaminato dal rapporto con un altro uomo; preoccupati di mostrare fattivamente una condotta di vita pari alla sua e, senza alcun dubbio, potrai giungere assieme a lui nello stesso coro; abiterai con lui non per cinque anni, quanto appunto è durato il vostro matrimonio su questa terra, né per venti, né per cento, né per mille, né per duemila e neppure per diecimila, né molte volte di più, ma per secoli infiniti ed eterni. (…) Se tu intendi mostrare una condotta di vita come la sua, allora lo riavrai di nuovo, non con quella bellezza fisica che egli aveva al momento della sua dipartita, ma con un altro splendore e con una bellezza lucente più dei raggi del sole. (…) Se farai ciò (cioè restare nella vedovanza senza contrarre una nuova unione) – potrai – vivere per tutta l’eternità accanto al tuo caro sposo, ove sarai pienamente libera dagli affanni, dalle paure, dai pericoli, dalle insidie, dall’ostilità dall’odio. (…) Dopo aver raggiunto un grado di virtù pari a lui, tu possa abitare insieme a lui nella stessa dimora, possa di nuovo unirti a lui per i secoli eterni, non con questo tipo di unione maritale, ma con un altro di gran lunga più sublime. Mentre su questa terra è soltanto una unione fisica, lassù, nel cielo, essa sarà unione più intima, di un’anima con un’anima, e di molto più soave e più eccelsa».

Il Crisostomo nel lungo discorso fatto a questa giovane vedova, del quale ho riportato solo alcune parti significative, si mostra di una dolcezza e sensibilità uniche. Quasi come se volesse far toccare con mano al lettore la bellezza dell’amore cristiano che univa questi due sposi e che continua, anche oggi, ad unire i coniugi cristiani. Il Crisostomo mette in luce la bellezza del matrimonio quando questo è vissuto in Dio. Quando l’amore che unisce gli sposi è quello di Dio, neanche la morte può decretare la fine di quella unione. L’una sola carne continuerà a vivere oltre la morte e verrà vissuta, in cielo, con modalità a noi sconosciute. Con Agostino (354-430 circa) s’intravede il mutamento del pensiero della Chiesa. Si parte dal considerare bigami i vedovi che contraggono le seconde nozze per arrivare ad affermare, nello scritto La dignità dello stato vedovile indirizzato ad una certa Giuliana, che: «Occorre quindi che tu in primo luogo ti persuada di questo, che, cioè, la dignità del genere di vita da te prescelto non include condanna per le seconde nozze: solo che queste sono un bene minore». Egli non condanna le seconde nozze contratte da vedovi per mezzo della concessione paolina, ma le vede non equiparate al primo matrimonio. L’ideale cristiano, come testimoniato dai Padri della Chiesa e dagli autori dei primi secoli, era il matrimonio assolutamente unico, per cui non si poteva accedere alle seconde nozze nemmeno dopo la morte del primo coniuge, in quanto il legame doveva essere unico per la vita terrena e per l’eternità. Questo modello monogamico è iscritto nella tradizione e nella vita della Chiesa. Troviamo traccia di questa convinzione anche nella Chiesa d’Oriente nella quale le seconde nozze dopo la vedovanza non hanno carattere sacramentale e non sono concesse neppure oggi ai preti dopo la morte della moglie. Anche se per i laici il secondo matrimonio è stato, poco per volta, ammesso, esso è sempre stato considerato una “concessione”. Non un bene, dunque.

I Padri della Chiesa, anche se non sono stati citati tutti, ritengono che il matrimonio sia unico ed indissolubile. In caso di vedovanza, alcuni Padri, vedono le seconde nozze come un adulterio camuffato perché in virtù dell’immortalità dell’anima la relazione coniugale non può terminare alla morte di uno dei due, ma è trasformata in Cristo, non annientata. Molti di essi richiamano l’insegnamento dell’Apostolo Paolo che invita le vedove a restare nella castità. Solo in caso di debolezza della carne le seconde nozze vengono concesse per evitare un male maggiore ma tra le prime nozze e le seconde non esiste paragone: le prime sono da considerarsi superiori mentre le seconde sono concesse come una sorta di rimedio alla concupiscenza. Probabilmente per tale motivo, inizialmente non esisteva nessun rito che sancisse le seconde nozze. Esse erano accompagnate da un atto penitenziale ed una breve benedizione fatta in forma strettamente privata senza essere sottolineata da nessun tipo di festa. L’atto penitenziale, tuttora in vigore nella prassi ortodossa, sta a sottolineare la mancata fedeltà al coniuge defunto a causa della concupiscenza della carne.




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