Santissimo Corpo e Sangue di Cristo – Anno C – 23 giugno 2019

Imparare lo stile eucaristico della vita di Gesù

di fra Vincenzo Ippolito

Se riuscissimo a comprendere la preziosità dell’Eucaristia! Ci prepareremmo nel migliore dei modi alla celebrazione, leggendo la liturgia della Parola e accostandoci al sacramento della Riconciliazione, per non rischiare di astenersi dalla comunione eucaristica.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (11,23-26)
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore.
Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

La liturgia di questa domenica ci porta a fissare lo sguardo sul sacramento dell’Eucaristia, memoria della Pasqua di Cristo, presenza continua nel Signore risorto, nella sua Chiesa, forza di vita nuova per ogni credente. La festa odierna – già celebrata in Francia, nella diocesi di Liegi, fin dal 1247 per avversare le eresie sulla Presenza reale di Cristo nel mistero eucaristico – fu istituita da papa Urbano IV, nel 1264, dopo il miracolo di Bolsena. In realtà, la Chiesa già celebra l’istituzione dell’Eucaristia, nella Messa in Coena Domini, il Giovedì Santo, ricordando anche l’istituzione del sacerdozio ministeriale e del comandamento dell’amore, all’interno del Triduo sacro. Si è voluto celebrare in un giorno particolare il mistero del Corpo e del Sangue del Signore per innalzare all’Agnello immolato, presente nel Santissimo Sacramento dell’altare, inni di lode e di ringraziamento, per il dono impareggiabile del suo dono che si rinnova per noi. Per questo, i testi biblici ci rimandano alla mensa che il Signore imbandisce per nutrire i suoi figli.
La Prima Lettura, tratta dal libro della Genesi (14,18-20), racconta di Melchisedek, re di Salem – antico nome di Gerusalemme – che offre, da sacerdote dell’Altissimo, il pane ed il vino ad Abramo, che riconosce la sua autorità, concedendogli le decime dei suoi averi. Nella Seconda Lettura (cf. 1Cor 11,23-26), Paolo ricorda l’istituzione dell’Eucaristia, nell’ultima sera della vita di Gesù, indicando come la celebrazione della santa Cena sia l’annuncio gioioso della Pasqua di Cristo, per la sua comunità. Nel Vangelo (cf. Lc 9,11b-17), Gesù moltiplica i cinque pani e i due pesci per i cinquemila, perché non vengano meno lungo il cammino. L’Eucaristia è benedizione per chi, come Abramo, cammina nella volontà di Dio e segue le sue vie, esperienza santificante della Pasqua del Signore, che porta frutti sempre nuovi, nella vita della comunità credente; segno della sollecitudine di Cristo, che moltiplica la nostra povertà, facendola divenire abbondanza, per la vita del mondo.

Non si finisce mai di approfondire il mistero di Dio

Il brano liturgico della Seconda Lettura è tratto dalla Prima Lettera indirizzata da san Paolo ai cristiani di Corinzi, appena quattro versetti che rappresentano la più antica testimonianza sull’istituzione dell’Eucaristia, nel Nuovo Testamento. Quando l’Apostolo scrive, infatti, i racconti evangelici vengono ancora trasmessi oralmente e solo in seguito saranno messi per iscritto. L’insegnamento di Paolo attesta così la prassi della comunità primitiva, nella celebrazione della Cena del Signore. Il brano fa parte della seconda parte dell’Epistola (cap. 7-14), dove vengono offerte alcune direttive su particolari situazioni, che la comunità si trova ad affrontare. La parola dell’Apostolo riguarda anche le assemblee comunitarie (cap. 11-14) e, nello specifico, tra le altre questioni, anche la cena del Signore (11,17-34). La correzione e la chiarificazione è richiesta dal modo in cui si celebra l’Eucaristia, se Paolo interviene con determinazione “Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio” (11,17). Comprendiamo quindi come il nostro brano sia parte di una sezione più ampia, nella quale l’Apostolo deve limitare gli abusi e condurre i suoi alla giusta comprensione del mistero celebrato.

La prima cosa che notiamo, più di carattere metodologico, è il fatto che Paolo, nel momento di maggiore difficoltà, dovendo chiarire la fede, indicando il giusto modo di tradurla in comportamento, cerca sempre di risalire all’intenzione di Cristo e al suo atteggiamento. È la volontà fondante di Cristo ad essere dirimente nella vita della comunità, perché solo guardando a Lui, si comprende come essere cristiani e in che modo possiamo camminare nella via del suo Vangelo. Risalire a Gesù Cristo significa andare alle radici, ma questo non è fare archeologia, ma riconoscere, al di là dei condizionamenti sociali, il primato di Dio e la fedeltà della Chiesa al suo insegnamento. La penetrazione della dottrina, infatti, non rappresenta mai un tradire quanto c’era già all’inizio, ma il graduale sviluppo di una grazia, che l’uomo comprende e vive solo attraverso il tempo. Paolo, come giudeo, sa bene il ruolo che l’autentica tradizione ricopre nella vita di fede, non per questo, però, si sente vincolato quando – si pensi alla pratica della circoncisione – si trova a dover affermare con chiarezza il primato di Gesù Cristo, rispetto all’Antico Testamento. La dottrina della Chiesa che si sviluppa, sotto la guida dello Spirito Santo, è sempre in coerente sviluppo con l’insegnamento di Cristo e della comunità credente, che lo ha raccolto. C’è quindi una sostanziale continuità, perché come sono le radici che danno vita ed alimento all’albero, così è Gesù Cristo che dona vita e salvezza ai credenti. Il riferimento, sembra affermare indirettamente Paolo, nella vita di fede e nelle scelte personali e comunitarie, deve essere sempre e solo Gesù, la sua vita, la sua parola e la sua prassi. Tutto il mistero di Cristo, da Betlemme fino alla Resurrezione ed Ascensione al cielo è la chiave per comprendere la nostra storia e ravvisare la volontà di Dio, per ciascuno di noi. È importante, quindi, imparare da Paolo a guardare a Gesù, a rispecchiarsi nella sua vita, lasciarsi plasmare dalla sua Parola, illuminare dai suoi esempi, evangelizzare dalla sua Pasqua. Solo così il discepolo non brancola nel buio, avendo in Cristo la sua stella polare. Lo Spirito poi ci conduce sempre e meglio ad approfondire il mistero di Cristo e a tradurre in vita la sua grazia (cf. Gv 16,12-15).
Ritornare al mistero di Cristo rappresenta un passaggio essenziale nella nostra vita di coppia e di famiglia, come anche di comunità religiose e parrocchiali, perché solo andando alla sorgente della nostra vita, che è Gesù Cristo, noi possiamo ritrovare la grazia della fedeltà ed il coraggio della perseveranza. Non possiamo presumere, nelle difficoltà che la vita ci riserva, di poter fare da soli e di risolvere, con le nostre forze, tutte le differenti situazioni problematiche che si presentano. Dobbiamo andare alla sorgente che è Gesù e, al tempo stesso, come fa Paolo con i cristiani delle sue comunità, insegnare ad andare da Gesù, a non aver paura di affidare a Lui le nostre difficoltà, di lasciare nelle sue mani le pene e le angosce, rallegrandoci e lodando il suo nome santo, per i momenti di gioia, che Egli ci dona. Essere liberi e diventare maturi non significa presumere di non aver bisogno di nessuno – questa è pura illusione! – ma fidarsi di Dio, attraverso gli altri, perché siamo insieme il Corpo di Cristo, insieme il Signore ci dona di essere famiglia, insieme siamo Chiesa, che cammina nella storia, verso il compimento eterno.
Cosa ci impedisce di tenere fisso lo sguardo su Gesù, nelle situazioni più diverse della nostra vita? Perché, ripiegati su noi stessi, non comprendiamo che l’unica strada per uscire dalla paura e dall’angoscia, che spesso attanaglia la nostra vita è la fiducia in Dio, che ci rende invincibili, “lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseverati nella preghiera, solleciti nelle necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità” (Rm 12,12)?

Nella dinamica del dono, accolto e concesso

Leggendo la pericope liturgica, oltre a vedere la volontà di Paolo di risalire fino a Gesù, perché solo Lui può chiarire le difficoltà che serpeggiano nelle comunità, altro significativo elemento che l’Apostolo ben sottolinea è la capacità di riconoscere la propria vita e ministero come un anello nella grande catena che ci tiene legati a Cristo. Paolo sa bene che la comunità lo ha educato nella fede. Il solo evento di Damasco non dice tutto del suo cammino, perché l’incontro con Cristo lo ha trasformato e marcato al fuoco, ma in seguito ha dovuto, con l’aiuto di Anania e degli altri membri della comunità cristiana crescere nella fede e comprendere che in Cristo “tutte le promesse di Dio […] sono divenute «sì»” (2Cor 1,20). Per questo motivo può scrivere ai Corinzi “io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso” (v. 23). Egli riconosce nella sua comunità il segno della presenza del Signore, perché è sulla parola di Gesù – “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” Mt 18,20 – che si diventa un cuor solo e un’anima sola. Non si tratta di un passaggio secondario, quello di considerare la comunità Chiesa come il Corpo del Signore, di cui faccio parte. Ogni discepolo, infatti, vien evangelizzato e consolato, raggiunto e perdonato, guarito ed accolto, attraverso la comunità credente che, tanto nei gesti sacramentali posti efficacemente dai suoi ministri, tanto nell’ordinarietà della propria vita di fede, donano e trasmettono, misteriosamente la grazia di Dio, la potenza che risana e nutre la speranza di vivere con Cristo e di testimoniarlo nella storia. Ricevere per Paolo vuol dire riconoscere il primato di Dio, il suo dono, una grazia gratuita, non meritata, ma che ci abilita a vivere nella gratuità, lasciando operare in noi la forza travolgente e trasformante del suo Spirito d’amore. In tal modo, Paolo confessa di essere povero, così come ogni uomo dinanzi a Dio. È, infatti, la sua povertà creaturale che ha accolto il dono di Dio, come la consapevolezza del suo essere un peccatore perdonato, lo conduce a dire “Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1Cor 15,10).

Noi tutti viviamo immersi nel dono di Dio, la nostra stessa vita è un dono che non abbiamo né cercato, né richiesto. Dio ha chiamato ogni cosa dal nulla, per farci sperimentare la sua potenza, la grazia della sua misericordia, che è sempre un dono suo. Quante cose noi riceviamo eppure non siamo consapevoli che sono segno della gratuità di Dio, attraverso l’amore delle persone che ci sono accanto! Dono è il marito per la moglie, come la sposa per lo sposo, sono del Signore i figli, che rallegrano la famiglia, resa feconda dalla promessa di Dio ai nostri progenitori, alleanza che nessun peccato ha potuto cancellare, né la disobbedienza né le acque del diluvio. Dono di Dio è ogni realtà creata e affidata all’uomo, nel guardino di Eden e lui, immerso nel dono che è per se stesso e per gli altri, deve consapevolmente entrare in questa dinamica che rifugge l’appropriazione, avversa l’egoismo, rifiuta la pretesa, respinge il compromesso, evita di assoggettarsi al contraccambio. Per l’Apostolo, entrare nella dinamica del dono vuol dire sapere che tutto viene da Dio – “io ho ricevuto dal Signore” – e, senza trattenerlo per sé, condividere con i fratelli “quello che a mia volta vi ho trasmesso”, il tesoro che noi conteniamo in vasi di creta. Il “gratuitamente avete ricevuto” deve portare al “gratuitamente date” (Mt 10,8), perché se abbiamo in noi, per la mediazione di Cristo, la vita di Dio, saremo condotti dallo Spirito a vivere come Lui, consegnati al Padre in olocausto di soave odore, protesi ai fratelli, nel soccorrere le loro membra doloranti. Essere famiglia e comunità ecclesiale significa vivere del dono ricevuto e concesso, non solo prendere ciò che gli altri donano, ma offrire spontaneamente quanto il Signore mette nelle nostre mani. Non possiamo fermare in noi il flusso del dono di Dio, perché Lui vuole concederci la sua stessa vita, che scandisca la nostra esistenza e ci conduca ad essere eucaristia vivente, per la salvezza del mondo. La trasmissione della fede comporta che noi riconosciamo ed approfondiamo, con l’aiuto dello Spirito, la fede che ci è stata donata. Non possiamo limitarci a donare alle nuove generazioni le poche nozioni di catechismo ricevuto, perché siamo chiamati da Signore a trasmettere un bagaglio che si è arricchito e si arricchisce continuamente, per le rinnovate esperienze che ci vengono concesse di fare. In tal modo, come abbiamo fatto con la vita naturale, che curiamo nel suo sviluppo organico ed accompagniamo, secondo le esigenze che mano mano si presentano, così, nell’educazione alla fede, siamo chiamati a tradurre la professione di fede in uno stile di vita, indicando gradualmente come sia possibile vivere come Gesù Cristo, docili al suo Spirito, che abita dentro di noi.

Trasmissione di una vita, non solo di un racconto

Paolo, richiamando la memoria dei Corinzi all’istituzione dell’Eucaristia ci dona il più antico racconto dei gesti compiuti da Gesù, durante l’ultima cena. Non si tratta, bisogna subito dire, di una narrazione sterile e fredda, che serve a comunicare nozioni e fatti, per togliere la curiosità sugli ultimi momenti della vita del Signore. L’Apostolo è l’anello di una trasmissione vitale, membro eminente di una comunità che racconta l’Eucaristia, celebrando e vivendo il mistero della Pasqua di Cristo. Non basta, infatti, solo raccontare la fede, è necessario viverla, perché lo Spirito Santo ricorda le parole di Gesù, perché fecondino l’oggi della Chiesa e spingano a seminare il Vangelo nei solchi della storia degli uomini di oggi. Nella Cena del Signore non ricordiamo solo un evento accaduto tanti secoli fa, ma contempliamo il mistero di Cristo che si rinnova nel Pane e nel Vino, nella forza dello Spirito, perché ogni uomo sperimenti la salvezza della Pasqua e vive dell’amore riversato nel suo cuore.

È possibile dividere il nostro brano in tre parti. Nella prima (v. 23a), Paolo dice di trasmettere quanto a ricevuto dal Signore, attraverso la comunità; nella seconda (vv. 23b-25) presenta il racconto dei gesti compiuti nell’ultima cena da Gesù, che rappresentano la prassi liturgia di ogni comunità, nella frazione del Pane; nella terza (v. 26), infine, l’Apostolo indica ai Corinzi il risvolto esistenziale del mistero celebrato, mostrando che nutrirsi dell’Eucaristia vuol dire vivere in perenne rendimento di grazie, nell’attesa gioiosa del ritorno del Signore.
Se ci fermiamo alla narrazione dell’istituzione dell’Eucaristia che l’Apostolo trasmette (vv. 23b-25), prima ancora dei Vangeli sinottici, ci rendiamo conto che l’attenzione è sul senso della vita di Gesù che l’Eucaristia ripresenta, ricorda e propone. Scrivendo “il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria” (vv. 24-25), Paolo vuole che i Corinzi ricordino gli eventi centrali della vita di Cristo, perché la memoria grata della sua offerta li conduca all’imitazione del suo esempio, assecondando la forza dello Spirito che l’Eucaristia comunica e fa dimorare in noi, in maniera sempre più penetrante e permanente. I gesti di Cristo – sembra dire l’Apostolo – sono prassi imprescindibile per la sua Chiesa, sia nella celebrazione liturgia sia soprattutto nella vita, perché un culto che non diventa vita è puro formalismo. Il Signore, nella notte in cui veniva tradito, invece di risponde con la stessa moneta a Giuda, a Pietro e agli altri apostoli, che avevano già il piede fuori dal cenacolo, continua ad oltranza a parlare di amore e a donare perdono, un amore che diventa dono totale, nel sacrificio della croce. Lo stesso amore lo troviamo nel Pane e nel Vino. Cristo vive con noi la stessa dinamica, nei segni umili del sacramento, il Maestro, anche se Figlio di Dio, si propone, mai si impone come Signore, vuole che lo scegliamo, lo accogliamo, ricambiamo con l’amore l’amore che Egli nutre per noi. Nell’Eucaristia c’è tutto Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio, c’è la salvezza che dona alle folle, la misericordia che accorda ai peccatori, la grazia che concede a quanti lo cercano con cuore sincero, la guarigione che offre ai malati, la forza che promana dal suo corpo glorioso e tutti raggiunge, la resurrezione che, il terzo giorno, il Padre gli concederà, per la sua obbedienza. Nell’Eucaristia c’è la vita di Gesù che diventa la nostra vita, se l’Amen che pronunciamo è il segno della volontà nostra di accoglierlo come Signore e Redentore, di offrirgli incondizionata docilità, perché sia Lui ad operare in noi la salvezza e la grazia della vita nuova. Dire che nel Pane e nel Vino consacrati sull’altare, per le mani del sacerdote, significa che solo la fede riconosce nei segni il Vivente – “non i sensi, ma la fede provano questa verità” dice san Tommaso – perché Gesù prolunga la sua presenza nell’Eucaristia, perché ogni uomo, possa sperimentare, al pari degli apostoli e delle folle, la sua vita, data in dono. Accostarsi al sacro Banchetto significa attingere dalla sorgete la grazia dell’amore, che non si ritrae dinanzi a nulla, l’unico capace di cercare il bene dell’altro e di perseguirlo, a prezzo della propria morte.

Se riuscissimo a comprendere la preziosità dell’Eucaristia! Ci prepareremmo nel migliore dei modi alla celebrazione, leggendo la liturgia della Parola e accostandoci al sacramento della Riconciliazione, per non rischiare di astenersi dalla comunione eucaristica; dedicheremmo del tempo a partecipare alla Messa anche feriale, che è un’opportunità per tutti, piccoli e grandi, giovani e adulti. Come si può essere forti nella fede, se non ci si nutre del Pane di Dio? La nostra fede ci porterebbe all’Adorazione, almeno un giorno alla settimana, imparando da Gesù l’amore che diventa dono. La nostra vita personale e di coppia, in famiglia ed in comunità può cambiare, se lasciamo che Cristo nutra in noi i desideri belli che il Padre ha seminato nel nostro cuore. Intender non può, chi non lo prova!

Offrire se stesi, come ha fatto Gesù

Raccontare ciò che si celebra, riproporre quanto già si vive sono i passaggi che l’Apostolo compie, nel suo scritto, perché i Corinzi, oltre a correggere i comportamenti devianti, non confacenti ai discepoli di Cristo – la condotta contraria alla morale cristiana erano stati descritti prima in 1Cor 11,17-22 – possano continuare lo stile eucaristico di Gesù e mettere a frutto la grazia divina loro partecipata. Attraverso il Pane ed il Vino, infatti, il Signore riversa nella vita dei credenti lo Spirito Santo che nutre in ognuno il desiderio di prendere, benedire, spezzare e dare la nostra vita come ha fatto Gesù. Lungi dall’essere una finzione o una rappresentazione del passato, la Cena del Signore, celebrata nella comunità, è il momento nel quale si comprende il senso della propria vita di credenti, alla luce della vita di Gesù, e si fissa lo sguardo sulla sua Pasqua di morte e resurrezione, modello di ogni esistenza consegnata alla volontà del Padre, nella forza dello Spirito, per la vita del mondo. Ogni volta che la Chiesa si riunisce intorno all’altare, per l’Eucaristia, celebra un culto esistenziale, ovvero una lode che permea la vita e trasforma la storia, perché Cristo, a sua somiglianza, ci rende lievito nella massa del mondo, luce che illumina i fratelli, che brancolano nei buio. Per questo l’Apostolo, scrivendo ai Romani, può dire “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). L’Eucaristia, memoriale della morte e resurrezione di Cristo, ci è donata per vivere come Lui, avendo in noi i suoi sentimenti, pronti a testimoniare la salvezza che gratuitamente ci è stata donata.

Celebrare l’Eucaristia per le nostre famiglie significa entrare nel vortice dell’amore di Cristo, lasciandosi contagiare dalla sua potenza e del suo coraggio, dalla sua volontà oblativa e dal desiderio di non cercare il contraccambio, nelle relazioni, pronti sempre a fare il primo passo. Nel Pane e nel Vino abbiamo la presenza personale di Cristo che ci chiede di assimilare la sua grazia e di lasciare operare in noi la sua forza. Questo itinerario di cristificazione che l’Eucaristia opera in noi è un cammino graduale di assimilazione a Lui. non possiamo, infatti, pretendere che Cristo entrando in noi è magicamente ci trasformi. Si tratta di un non semplice cammino di consegna e di abbandono e, come per il cibo che sostiene il nostro corpo, così anche il Signore, nostro Cibo e Bevanda di salvezza, sostiene la nostra crescita spirituale e ci rende maturi e forti nell’amore e nel dono, nell’offerta e nell’accogliere le contrarietà della vita, perché risplenda in noi la potenza della croce gloriosa del Risorto.




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