XIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 7 luglio 2019

Gesù ci insegna la norma dell’amore

di fra Vincenzo Ippolito

Tante volte ci lasciamo portare da situazioni e sentimenti che, riflettendoci a freddo, quando gli ardori delle nostre passioni si placano, non ci servono veramente, né ci aiutano ad essere ciò per cui Dio ci ha amati, creati, rendenti in Cristo, santificati con il suo Spirito, resi sua presenza nel mondo.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Galati (6,14-18)
Porto le stimate di Gesù nel mio corpo
Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti, la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace misericordia, come su tutto l’Israele di Dio.
D’ora innanzi mi procuri fastidi: io porto le stimmate di Gesù nel mio corpo.
La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.

 

La liturgia di questa Domenica è un’esplosione di gioia. L’uomo annuncia ai quattro venti la misericordia che il Signore gli ha gratuitamente rivelato e fatto sperimentare, come potenze di vita nuova e di grazia insperata ed immeritata. La Prima Lettura ci dona una pagina tratta dall’ultima parte del libro del profeta Isaia (cf. 66,10-14c). In essa, l’autore ispirato, descrivendo il periodo successivo all’esilio, chiede di partecipare al giubilo del suo cuore per Gerusalemme, città della gioia ritrovata e dell’esultanza riavuta in dono dalla mano del Signore. Attraverso immagini delle più tenere, il profeta annuncia il tempo della consolazione, che scorrerà come un fiume, e della pace, che fluirà come un torrente. La Seconda Lettura, invece, presenta, con tratti autobiografici, il cammino di assimilazione a Cristo, da parte dell’apostolo Paolo. Dopo aver parlato della superiorità di Cristo rispetto alla legge data ai padri, nel concludere il suo scritto, l’Apostolo presenta la sua testimonianza ed il desiderio di vivere di Cristo crocifisso, senza che nulla e nessuno lo distolga da questo suo struggente desiderio. Nel Vangelo (cf. Lc 10,1-12. 17-20) san Luca ci racconta di Gesù che designa settantadue discepoli, inviandoli “a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi”. Le indicazioni che il Maestro dona ai suoi perché l’annuncio sortisca l’effetto desiderato è attuato dai discepoli, che, tornando da Gesù, sono stupiti della potenza di Satana messo in fuga dal loro ministero.
La gioia del profeta per la città santa (Prima Lettura) si rinnova lì dove Cristo è annunciato (Vangelo), perché è Lui la sorgente della grazia che rinnova la faccia della terra, la fonte della pace che dona consolazione e abbondanza di grazia. La missione è il risvolto dell’intimità vissuta con Gesù, solo portando in noi la sua Pasqua, potremo annunciare ai fratelli la salvezza che il Padre ci ha donato in Gesù.

Cristo, cuore pulsante di una vita di annuncio

Siamo alle battute finali della Lettera ai Galati. In essa l’Apostolo, facendo sintesi dell’insegnamento donato a quelle comunità, più volte visitate nel corso dei suoi viaggi missionari, come attesta il libro degli Atti degli Apostoli, focalizza nella croce il segno distintivo della fede cristiana, fugando ogni pretesa umana di trovare vanto al di fuori del mistero della Pasqua di Gesù Cristo. Il problema centrale affrontato dall’Apostolo era stato quello della circoncisione. Per la legge dell’Antico Testamento, era obbligatorio entrare a far parte del popolo d’Israele attraverso la circoncisione, pratica antica che, dall’uso profano, quale rito di iniziazione alla vita di una tribù, era divenuto segno di appartenenza all’alleanza concessa da Dio ai suoi letti. Alcuni si ostinavano ad affermare la necessità, anche per i cristiani, di passare attraverso l’Antico Testamento e le sue pratiche rituali, seminando lo scompiglio tra i credenti. Più volte Paolo, proprio per affermare che la salvezza non dipende dalle opere dell’uomo, ma unicamente da Cristo e dalla grazia della sua giustificazione, era dovuto intervenire, di persona e per lettera a chiarire i termini della contesa. La Lettera ai Galati è un esempio eloquente del suo desiderio di non permettere a nessuno di edulcorare o manipolare il Vangelo, per trasmettere unicamente l’autentica dottrina, insegnata dalla Chiesa. Si comprende come i toni divengano più pacati, nel chiudere la sua lettera, ritornando su punti che, dopo l’argomentazione presentata risultano ben chiari, per quanti hanno voluto che l’autorevole voce dell’Apostolo dirimesse la questione, donando chiari punti di riferimento.

La questione che Paolo riprende, concludendo, è quella del vanto. Poiché tutto, nella vita cristiana, dipende dal Risorto e dalla grazia che Egli effonde nel cuore dei credenti, solo in Gesù bisogna riporre le proprie speranze ed attendere la salvezza e la gioia. Invece, chi crede, facendosi forza della Legge antica, che l’uomo si salvi per quello che compie, pretende di far dipendere tutto dalle sue azioni, neutralizzando la potenza dell’amore e del perdono che Dio nutre nei riguardi della sua creatura, attraverso Gesù Cristo. Costoro vivono come un merito la salvezza e non come un dono totalmente gratuito da parte di Dio, in Cristo; pretendono di sentirsi giusti per l’obbedienza alla Legge, come il fariseo (cf. Lc 18,11-12) e, pronti a disprezzare gli altri, seminano dottrine che di cristiano non hanno nulla, perché imperniano sulla volontà umana la salvezza, svalutata e divenuta semplice meritocrazia. Per questo l’Apostolo può dire “Se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano” (Gal 2,21). Invece, le opere, afferma Paolo, sono la conseguenza della salvezza sperimentata in Cristo, non la condizione della salvezza che Dio ci dona. In tal senso, il credente non può trarre vanto da se stesso o da quello che compie, da quanto insegna o dalle azioni che spinge gli altri a compiere. Il vanto, come gratificazione del proprio egoismo, affermazione della superbia, supremazia dell’orgoglio e della personale pretesa di bastare a se stessi e di essere in gradi di farsi maestri e giudici nella vita dei fratelli è contrario al Vangelo e rappresenta una dottrina alternativa rispetto alla predicazione apostolica. Il cristiano trova il suo vanto e la sua giustificazione, la forza e la salvezza sua unicamente in Gesù Cristo. Per questo Paolo può dire “quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo” (v. 14). Non si tratta di una frase ad effetto, ma del frutto di un’esperienza maturata negli anni. L’Apostolo viene dal Giudaismo e sa bene cosa significa vivere nella pretesa di sentirsi giusti dinanzi a Dio, per le opere compiute. Per questo può dire “Cristo ci ha liberati per la libertà” (Gal 5,1) e vive come un desiderio forte l’evitare di nuovo il giogo della schiavitù. Una volta divenuto discepolo di Cristo, Paolo ha finalmente imparato che la Legge è un pedagogo, nel condurci a Cristo e che, venuto il Signore, è Lui solo la legge vivente e personale, pienezza dell’antica, capace di determinare ed orientare la vita del credente. Per l’Apostolo Cristo è tutto, se scrive, sempre ai Galati “non vivo più io, ma Cristo vive in me. e questa vita che vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), mentre ai Filippesi può confidare “queste cose che per me erano guadagno le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore” (Gal 3,7-8). Fino a quando la croce di Cristo non sarà ben piantata nel nostro cuore, fissata nel nostro animo, la potenza dello Spirito, che discende dal Costato trafitto del Signore non riuscirà a determinare un cambiamento sostanziale del nostro modo di pensare di agire. Essere cristiani non è questione di fare o non fare, Paolo lo dirà in seguito, quanto di vivere in Cristo un’esperienza di amore trasformante, la grazia di un’amicizia trasfigurante, un incontro rinnovato di scambio tra la nostra morte che diventa vita, perché è Lui la vita che abita la nostra morte e ci dona di risorgere con Lui a vita nuova.

Se trarre vanto dalle proprie opere, porta l’uomo a gonfiarsi di orgoglio, crescendo nella pretesa di essere giusti, davanti a Dio e agli altri, al contrario, vantarsi in Cristo e gloriarsi nella sua croce vuol dire partecipare alla dinamica del mistero pasquale, alla morte e resurrezione del Signore, per rinnegare a se stessi e vivere di Dio. In tal modo, trovano posto nel cuore del credente quelle virtù che rifulgono in Cristo Gesù, quali l’umiltà e l’abnegazione, la mansuetudine e la carità, il silenzio e l’offerta, il sacrificio e il dono, totalmente contrarie alla pretesa e autoreferenziale gratificazione del proprio io. Il segno che il cuore è totalmente abitato dalla grazia e il desiderio di conversione sta operando in profondità è proprio l’abbandono confidente in Dio, il rimettere la propria vita nelle mani del Signore, vivere con gioia la creaturale dipendenza dal Signore, considerare la morte a se stessi come la via maestra per seguire la strada di Cristo, vivendo della sua vita nuova. Vantarsi, nel linguaggio paolino, non vuol dire manifestare la potenza della Pasqua di Gesù, far regnare, nella propria vita, la sua croce, dipendere in tutto dalla salvezza da Lui operata a nostro favore. Per questo, scrivendo ai Galati, l’Apostolo può dire “Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito: non cerchiamo la vanagloria, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri” (Gal 5,24-26). La croce di Gesù – quando Paolo parla di croce intende tutto il mistero pasquale, di morte e resurrezione – determina nel credente un sostanziale cambiamento di vedute, per questo Paolo può dire “quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (v. 14). Parlare di mondo, per l’Apostolo, come anche per san Giovanni, significa intendere tutto ciò che è contrario a Dio ed è nemico della croce di Cristo. Alla scuola del Maestro, obbediente al suo insegnamento e spronato dal suo stesso esempio, il credente sa che non può vivere secondo il mondo, assecondando le passioni ingannatrici, lasciandosi dominare dal proprio egoismo, permettendo all’orgoglio di signoreggiare, incontrollato. Per chi segue Gesù Cristo, non ci sono mode, né idee passeggere, né principi che mutano, a seconda dell’istinto dominate. Sulla strada del Golgota non si vive per se stessi, né si ricerca il proprio interesse, indifferenti verso gli altri, chiusi alle altrui necessità, non si asseconda ciò che il cuore inquieto pretende, quanto l’animo nostro, malsano per le acque agitate delle terrene passioni e dei sentimenti disordinati, impone, come un bambino capriccioso che batte i piedi a terra. Paolo sa bene che seguire Gesù Cristo, accogliere il suo amore vuol dire lasciarsi convertire dalla potenza della sua misericordia, permettere all’ardente e dolce forza del suo amore di orientare diversamente la nostra esistenza, sradicando quanto è contrario alla volontà del Padre. Solo Cristo è il nostro Maestro, la sua croce l’albero motore della barca della nostra vita, il soffio dello Spirito ci spinge nel mare aperto della storia, per testimoniare il primato dell’amore e la grazia della misericordia. Viviamo nel mondo, ma non siamo del mondo. È Gesù, nella sera del tradimento a ricordarcelo, rivolgendosi al Padre “Non prego perché tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità” (Gv 17,15-16).

Le parole dell’Apostolo ci portano a rivedere la nostra vita, se la mentalità controcorrente che Cristo ha vissuto si ritrova anche in noi: scegliamo gli onori del mondo o preferiamo lavorare nel silenzio e fare il bene? Ci attendiamo il riconoscimento da parte delle persone che ci sono accanto, il Bravo! Grazie! oppure sappiamo tradurre l’amore in ricerca sincera del bene per se stesso? Nella relazione di coppia e nel rapporto con i figli, in comunità o sul lavoro, cerchiamo la gratificazione, per superare le nostre insicurezze, oppure ci impegniamo a fare ciò che il Signore ci chiede, attendendo da Lui la ricompensa, che Egli sempre riserva per coloro che operano nel segreto e lasciano che Lui solo guardi il bene che si opera? Foraggiamo il nostro io, ci gonfiamo di orgoglio, in ogni modo cerchiamo di superare gli altri per affermare noi stessi? Le discussioni tra noi sono pacati confronti o battaglie all’ultimo colpo, per dire che siamo giusti e quanto facciamo è sempre bene? In che modo la croce del Signore ci offre criteri nuovi di giudizio? Lasciamo che la potenza della Pasqua, per la grazia del sacramento nuziale, plasmi in noi gli stessi sentimenti del Signore risorto o preferiamo assecondare quella parte di noi che appartiene alla terra? Invece di fare guerra a chi ci sta accanto, riusciamo a mettere a morte il nostro orgoglio, assecondando la grazia di Dio, capace di mettere in scacco le macchinazioni del demonio? Apparteniamo veramente a Gesù Cristo? La sua croce ci plasma, il suo amore ci porta all’offerta di noi stessi, il suo esempio ci conduce a vivere per gli altri? Che peso ha nelle nostre scelte il rispetto umano, ciò che il mondo pensa? Seguiamo le mode, oltre che nel vestire, anche nell’agire, allontanandoci dalla croce del Signore? Che dimestichezza abbiamo con la morte del nostro orgoglio, con il rifiuto di ogni pretesa gratificazione del nostro io? Siamo specchio della vita di Gesù? Viviamo nella fedeltà alla vocazione che ci è stata data? Portiamo il peso del rinnegamento di noi stessi e di quanto umanamente desideriamo, per vivere nella volontà di Dio e piacere unicamente a Lui? In che modo siamo ai nostri figli? Guardandoci possono riconoscere in noi i lineamenti del Signore Gesù Cristo? Ci illudiamo di seguire Gesù, mentre, invece, assecondiamo solo ciò che il nostro egoismo ci chiede?

Partire solo e sempre da Gesù

Ai tempi dell’Apostolo, come capita ancora oggi, tante discussioni si fermano all’apparenza, senza riuscire ad andare in profondità, per analizzare le situazioni problematiche e trovare vie di uscita, che permettano di ricentrare l’obiettivo e vivere nella volontà del Padre. Paolo, invece, senza perdersi in chiacchiere, dopo una lunga argomentazione, stigmatizza la questione, scrivendo “Non è infatti, la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura” (v. 15). I termini della questione, sembra dire l’Apostolo, non possono essere ridotti al fare o non fare una cosa, che, per quanto importante e richiesta dalla Legge dell’Antico Testamento, rappresenta sempre un’azione umana, segno e non condizione della salvezza. In tal modo egli va alle radici della contesa con quanti credono che la Legge antica debba essere rispettata, mettendo l’accento sulla novità di vita che Cristo dona a quanti credono in Lui e, con il Battesimo, iniziano un cammino di vita nuova. L’asse della questione è totalmente spostata. Si passa dalla circoncisione, che è pur sempre opera dell’uomo, a Cristo, da quello che noi facciamo a quanto Dio ha operato, a nostro favore, attraverso Cristo. Ogni discorso autenticamente cristiano deve essere incentrato in Gesù, partire da Lui, a Lui rifarsi, da Lui trarre senso e incisività, ragione e forza. In questo Paolo è veramente un maestro, perché tutto è ricondotto al mistero pasquale del Signore, perché solo la sua luce può dare all’uomo, immerso nelle tenebre, la possibilità di alzare lo sguardo e non sentirsi abbandonato, senza speranza. L’Apostolo sa che solo il Signore ci risolleva da ogni situazione, solo la sua mano ci salva, la sua parola guarisce e risana, la sua grazia, che vale più della vita, può spingerci a largo, per gettare nuovamente le reti.

Non solo dobbiamo imparare a fare sintesi e a centrare le nostre discussioni, per riuscire a venirne a capo, ma è al tempo stesso importante partire da Dio, dal suo amore per noi, da quello che Lui opera per la nostra gioia, dalla grazia che gratuitamente effonde in ogni discepolo, per renderlo partecipe della sua vita divina, perché sia nel mondo sale e luce. Dobbiamo partire da Dio, sempre, se vogliamo veramente costruire qualcosa e consolidare i nostri rapporti, rinnovandoli. Solo Cristo può, infatti, darci la possibilità di non fermarci a quello che noi facciamo e pensiamo, spingendo il nostro sguardo oltre l’orizzonte, per contemplare le grandi cose che Egli vuol fare in noi, come un giorno in Maria, se solo gli diciamo il nostro Eccomi! Partire da Dio significa non vedere ciò che l’altro/a fa o non fa, non prendere in considerazione le offese ricevute o le mortificazioni sperimentate, neppure intristirsi per le cadute, gli spigoli troppi vivi del proprio carattere, il temperamento focoso, l’istintività marcata, la lingua troppo lunga – accogliersi è il primo passo per lasciare che la grazia di Dio ci trasformi, solo se ci guardiamo con misericordia, saremo capaci di mettere la nostra vita nelle mani del Signore, l’unico che cambia il cuore di pietra in cuore di carne, con la forza del suo amore – ma quello che è importante è la volontà e il desiderio di guardare verso Dio, assecondando lo Spirito di Cristo che è dentro di noi. Andare sempre oltre, non lasciarsi bloccare dai pregiudizi, non farsi fermare dai pensieri che, sotto l’istigazione del Nemico, portano all’ira e al risentimento, alla tristezza e all’incapacità di superare le difficoltà emergenti è il segno della volontà di non lasciarsi fiaccare dal male, ma di reagire, proprio come fa Paolo.

Non è infatti, la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura” (v. 15), cos’altro vuol dire l’Apostolo, se non teniamo fissi gli occhi su ciò che è importante, lasciamo cadere le cose da poco, difendiamo e custodiamo ciò che vale, preserviamo quello che veramente conta. Sono poche, infatti, le cose che contano, nella nostra vita, come poche le persone alle quali diamo il cuore. Tante volte ci lasciamo portare da situazioni e sentimenti che, riflettendoci a freddo, quando gli ardori delle nostre passioni si placano, non ci servono veramente, né ci aiutano ad essere ciò per cui Dio ci ha amati, creati, rendenti in Cristo, santificati con il suo Spirito, resi sua presenza nel mondo. Cosa conta veramente nella nostra vita? Quali sono le persone e le cose veramente importanti per me, per noi? Su cosa abbiamo puntato la nostra esistenza, fondato il nostro amore, costruito la nostra casa, educato i nostri figli? Possono anche sembrare delle domande banali, ma, a ben rifletterci, non lo sono, perché ci portano alla verità più profonda di noi stessi, al senso di ciò che siamo qui ed ora, di ciò che siamo nella mente e nel cuore di Dio e che rappresenta la meta del nostro cammino sulla terra. La distanza tra ciò che siamo e quello che Dio ci chiede di essere è colmata dalla grazia dello Spirito, che plasma la nostra volontà e opera in noi cose impossibili.
Abbiamo in noi la novità della vita di Dio, cos’altro cerchiamo? Lo Spirito che ha fatto passare Gesù dalla morte alla vita è nel nostro cuore, cos’altro pretendiamo? Cristo ci ha dato la sua stessa vita che, riversata in noi, rompe gli otri vecchi della nostra grettezza, chiedendoci di divenire nuovi, perché solo mettendo da parte il lievito vecchio, possiamo essere pasta nuova e, pur se piccoli, possiamo far fermentare tutta la pasta. Siamo creature nuove

Gesù Cristo unica nostra regola di vita

Rispetto alle altre Epistole, la Lettera ai Galati sembra uscire dagli schemi usuali, sia per l’inizio – si entra direttamente in argomento, dopo i saluti, senza nessun rendimento di grazie o anche esortazione – come anche alla fine, nella quale i saluti sono essenziali. La prosa asciutta mette in luce la preziosità delle indicazioni che Paolo offre, patrimonio da accogliere e custodire con fede da parte delle comunità della Galazia. Tra le sollecitazioni che l’autore offre la prima suona significativa, in un tempo in cui le regole sembrano retaggio d’altri tempi. Scrive l’Apostolo “E su quanti seguiranno questa norma sia pace misericordia, come su tutto l’Israele di Dio” (v. 16). La norma di cui egli parla è il Vangelo, Gesù Cristo, solo Lui è il modello da seguire, la sua Parola offre indicazioni concrete per una vita, secondo la volontà del Padre. Avere dei parametri, nel proprio comportamento, delle linee da seguire, nelle scelte di vita risulta essenziale. Per vivere la novità dell’esperienza cristiana, secondo la forza dello Spirito Santo bisogna guardare a Gesù. Se Lui è la norma, la sua vita la regola, la sua Pasqua la nostra legge per morire a noi stessi e vivere con Lui, allora veramente siamo creature nuove, portiamo in noi, come l’Apostolo, i segni della sua passione, partecipiamo misteriosamente alla potenza della sua Resurrezione.

Abbiamo bisogno di regole, non per mortificare la nostra sensibilità, ma per guidare la nostra vita ed arginare i nostri non semplici caratteri. La grazia di avere Cristo come modello deve scandire la nostra vita quotidiana, perché solo se Gesù è con noi, non manchiamo di nulla, solo se la sua Parola è roccia per la nostra casa, le tempeste ed i venti contrari non ci faranno alcun male.




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