Vita

“Ho camminato fino alla sala operatoria. Lì ho lasciato mio figlio due anni fa”

tristezza

di Paola Marozzi Bonzi

“Non volevo quel figlio, ma ora fa male e vorrei poter fare qualcosa perché altre donne non soffrano come me”. Oggi dal Cav della Mangiagalli di Milano, il dramma del post-aborto, un male sconosciuto di cui nessuno vuol parlare.

Di solito, al nostro Centro di Aiuto alla Vita, arrivano donne in pena sulla decisione da prendere circa la loro gravidanza. Quel giorno, invece: “Una signora chiede di te, ma non è incinta.” Avevo appena finito un colloquio pesante in cui la decisione di portare avanti la maternità era stata veramente impegnativa per la nuova mamma. Mi sarei rilassata volentieri con qualche chiacchiera, ne avevo bisogno. 

“Buongiorno, mi chiamo Elisa e mi piacerebbe molto parlare un po’ con lei” disse. “Si accomodi, la prego, sono a sua disposizione”, risposi e intanto mi accorgo che Elisa era inguainata da un busto con tante stecche di ferro. “Sono caduta da cavallo – mi spiega – e devo portare questa armatura per qualche mese”. Caduta da cavallo?! Penso tra me; non si tratta certamente di una persona dai mille bisogni, quasi irrisolvibili che sono abituata a incontrare quotidianamente. Elisa si sta guardando un po’ in giro; la mia stanza le piace: “Non ha per nulla l’aria di una stanza di ospedale!” commenta sorpresa. Sono davvero molto felice quando le persone fanno questo apprezzamento perché, nell’arredarla, l’obiettivo era proprio che non sembrasse per nulla una stanza da ospedale. 

“Sono contenta che le piaccia! Solo la pianta è un po’ malconcia. Non durano a lungo qui dentro e mi sono messa in mente che sarà per tutte le cose negative che ascoltano. Io sono un po’ matta, non ci badi!”. “Direi che non ne ha l’aria ed è anche per questo che ho intenzione di abusare del suo tempo, se me lo permette”. Inizia così a raccontare: “Come le ho detto, mi sono fatta male e sono venuta per un controllo. Dopo la visita, è stato come se i miei piedi avessero preso a muoversi da soli. Ho percorso un corridoio, ma no, non era quello. Un altro corridoio, tante porte, medici che andavano avanti e indietro; è proprio un labirinto questo posto! Ripercorrevo i miei passi perduti e mi aspettavo che qualcuno mi fermasse e, invece, no. Ho continuato a camminare fino alla sala operatoria: avevo lasciato lì il mio piccolo bimbo, due anni fa”. Un brivido mi corre per la schiena; la voce di Elisa mi racconta il suo dolore. “Allora mi era proprio sembrato un clandestino; non lo volevo a nessun costo quel bambino e, anche il mio compagno, non vedeva l’ora che me ne disfacessi. Mi diceva che era solo la promessa di una vita e che prima ci saremmo tolti il pensiero” lasciò cadere il discorso e fece spallucce. “Presi tutti gli appuntamenti del caso e una mattina Carlo mi accompagnò. Sono entrata come per un banale, piccolo intervento, in quella sala operatoria. Non ho sentito male, ma quando sono uscita non ero più la stessa. Mi sentivo svuotata, nessuno abitava più dentro di me”. 

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La commozione di entrambe è grande. Che cosa si fa, che cosa si dice, in questi casi? Decido sempre che il silenzio sia la cosa migliore. Il silenzio, però, non deve durare troppo a lungo, è come lasciare senza rete la persona che sta davanti. “Come sta Elisa? Sento un grande affetto per lei” le dico. Lei mi guarda come uno che sta camminando nel deserto quando vede l’oasi ed ha paura che si tratti di un miraggio. “Fa male ma un po’ meno. Sa, ora ho una bambina, Carlotta; è tutta la mia vita, ma il piccolo bimbo che ho lasciato in quella sala operatoria, non mi abbandona”. “Alle persone sensibili succede così. Purtroppo nessuno le informa prima”. Altro momento di silenzio ma meno greve. “Si domanderà perché sono venuta – interviene Elisa – le volevo chiedere se posso dare una mano a qualche donna perché non le succeda ciò che è successo a me”. Non faccio in tempo a risponderle che bussano alla porta: “C’è una signora che ha bisogno di un colloquio. La manda la 194. Puoi vederla?”. Guardo intensamente Lisa: “Possiamo vederla, Elisa?”. “Davvero mi permette di stare qui? Le garantisco che sarò muta come un pesce”. “Non mi serve un pesce! C’è bisogno di lei”. 

Così entra la signora. La sua è una situazione tutta di povertà. Non ci sono passeggiate a cavallo nella sua storia, ma grandi buchi neri di solitudine e di bisogni concreti per i quali servono risposte. Ha già due figli e un terzo non se lo può permettere. Noi, in questi casi, cerchiamo di arrivare il più vicino possibile alle risposte che possono rendere percorribile la strada dell’accettazione della nuova vita. Elisa partecipa intensamente: “Sarà pesante far crescere un altro bambino, ma mi creda, sarebbe molto più pesante tollerare ciò che resta dopo un’interruzione”. La signora decide di far nascere il suo terzo figlio. Le scrivo il progetto che dice dei nostri aiuti e mentre scrivo, mi accorgo che Elisa si è messa a chiacchierare con lei. “Promossa sul campo Elisa! – esclamo allegramente dopo aver salutato la signora e averle fatto tanti auguri – Allora l’aspetto.” Ci abbracciamo tenendoci strette come per sancire un patto. 

Doveva guarire, Elisa, e il tempo passava in attesa. “Ho comprato i tuoi fiori! – mi scrive una domenica mattina – profumavano di vita e me li sono portati a casa con gioia. Aspettami! Ci vediamo presto al CAV”.

 




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