XVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 21 luglio 2019

Ti amo con il metro della croce

di fra Vincenzo Ippolito

La vita degli sposi è scandita dalla consegna, dal desiderio di fare tutto per l’altro/a, perché viva nella gioia e nella pace, sia felice, mettendo a frutti i doni che il Signore ha elargito. Questo non vuol dire assecondare l’egoismo dell’altro, quanto, invece, perseguire il suo vero bene, anche quando non è voluto e compreso, purché sia ricercato nella docilità alla volontà del Signore, per il bene dell’altro.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1,24-28)
Il mistero nascosta da secoli, ora è manifestato ai santi
Fratelli, sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle fa conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.

 

Il tema che domina la liturgia odierna è l’ospitalità dell’uomo nei riguardi di Dio, che visita i suoi figli e dona la grazia della comunione con Lui. Nella Prima Lettura (cf. Gen 18,1-10a), l’autore del libro di Genesi racconta di Abramo che accoglie il Signore, nelle sembianze di tre ospiti sconosciuti. Si tratta, come è solitamente definita, dell’apparizione alle querce di Mamre. Dio, dopo aver accettato il banchetto imbandito dal patriarca, gli annuncia la nascita di un figlio, proprio da sua moglie Sara, sterile e avanti negli anni. Il Signore non dimentica la sua promessa e opera nella storia per la gioia di tutti i suoi figli. Sempre di ospitalità parla la pagina odierna del Vangelo secondo Luca (cf. 10,38-42). Nel suo viaggio verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51-19,27), il Maestro fa sosta a Betania, accolto in casa da Marta, presa dai molti servizi e ascoltato con docilità da Maria, che si siede ai suoi piedi, nel tipico atteggiamento del discepolo. L’accorato rimprovero verso Marta offre all’Evangelista la possibilità di ricordare alla sua comunità il primato dell’ascolto della Parola, che motiva l’impegno della carità. La Seconda Lettura, che offre sempre un tema complementare rispetto alle altre letture bibliche, presenta oggi una pericope dell’Epistola ai Colossesi (cf. 1,24-28), la cui lettura abbiamo iniziato la scorsa domenica. In essa l’autore ispirato parla del suo cammino di assimilazione a Cristo e del ministero ricevuto da Dio di far conoscere alle genti la ricchezza di Cristo Gesù.
Il Signore ci chiede di essere accolto. Egli bussa alla porta del cuore di ciascuno, per donare la ricchezza della sua presenza e la grazia della sua amicizia. Se lo accogliamo, come Abramo (Prima Lettura), la sua promessa trasformerà la nostra vita; se ascoltiamo la sua voce, come Maria (Vangelo), saremo capaci di annunciare la speranza (Seconda lettura), nella gioia di sapere che Lui solo è la nostra pace.

Un cammino plasmato da Cristo

Continua oggi la lettura, iniziata la scorsa domenica, dell’Epistola ai Colossesi. Dopo il Cantico (cf. Col 1,15-20), che presenta il primato di Cristo, nell’opera della Creazione e della Redenzione, il brano odierno ha un’indole marcatamente autobiografica. Paolo parla del suo cammino di fede, delle fatiche del ministero apostolico, sopportate per amore di Cristo e del suo desiderio di essere annunciatore della speranza cristiana, che sgorga dalla Pasqua del Signore. Ci troviamo nella parte iniziale dell’epistola ed il tono familiare ed accorato della comunicazione porta l’autore a manifestare ciò che il Signore dona al suo cuore, assetato di bere a piene mani della ricchezza del Risorto. Notiamo subito che la logica narrata e proposta è quella della croce, estranea ed incomprensibile per i sapienti e gli intelligenti di questo mondo (cf. 1Cor 2,6). Scrive l’Apostolo “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” (v. 24). Partendo da un livello puramente umano, appare un paradosso sperimentare la gioia, in mezzo alle sofferenze. I termini (gioia/sofferenza) sono apparentemente in stridente contrasto, perché la riflessione proposta parte da un livello diverso, che è la Pasqua di Gesù. È questa, infatti, la norma a cui il cristiano si deve sempre riferire, se desidera camminare nella volontà del Padre e realizzare il suo progetto di salvezza. Se guardiamo alla croce di Gesù, ci rendiamo conto che il soffrire non è fine a se stesso ed il dolore trova nell’amore e nell’offerta di se stessi il senso vero e profondo. Cristo accoglie la croce per un di più, accetta di salire sul Golgota, di stendere sulla croce le sue braccia, perché guarda verso il Padre e desidera vivere nella relazione filiale con Lui, senza che nulla e nessuno possa separarlo da Lui. Non si tratta quindi di fermarsi alla sofferenza e subire passivamente il dolore, quanto, invece, di sapere guardare al di là, oltre l’orizzonte, proprio come ha fatto Gesù. Non è forse questo il senso del martirio? Non si sceglie il soffrire per il soffrire, né si accoglie la morte passivamente, ma in vista di un bene più grande, di una vita più vera, di una gioia più profonda. Si tratta di attraversare il tunnel della sofferenza, sapendo che finirà il buio e che presto apparirà la luce di Cristo, il nostro liberatore, Colui che ci conduce alle fonti delle acque della vita. La virtù della speranza è quella che ci sostiene in questi momenti, perché se lasciamo che i nostri occhi si fermino all’orizzonte di ciò che il cuore sente e la mente riflette, non riusciamo a compiere quel salto di fede, che è indispensabile per seguire Gesù Cristo ed essere nel numero dei suoi discepoli, accogliendo la morte, per avere in lui la vita. Per questo bisogna chiedere con insistenza che il Signore ci conceda il metro della croce, per giudicare gli eventi della nostra vita dall’altura del Golgota, per immergere ogni situazione nel suo Sangue prezioso, perché venga rivestita di misericordia e di perdono e comprendere che l’amore giunge al dono di sé, senza recriminazioni né ricatti, senza pretese né rifiuti. Come una madre accoglie le doglie del parto, per la gioia di mettere al mondo un figlio, così anche noi siamo chiamati a sopportare “il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione [che] ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2Cor 4,17).

L’autore della Lettera vive questa partecipazione alla Pasqua di Cristo, per questo può scrivere, con quella convinzione che gli viene dalla fede, corroborata dall’esperienza della vita “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” (v. 24). Come Gesù ha donato la sua vita per gli uomini (cf. 2Cor 8,9; Gal 3,13), così anche l’Apostolo offre la sua vita per i Colossesi, come aveva già scritto agli Efesini (3,13) “Vi prego quindi di non perdervi d’animo a causa delle mie tribolazioni per voi, sono gloria vostra”. Vivere per gli altri, seguendo Gesù, accogliendo il dolore, il rifiuto, la sofferenza e la morte è una grazia – “a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui” (Fil 1,29) – è la grazia del dono, che non può comprendere chi non ha sperimentato la potenza della croce gloriosa di Cristo. Chi segue Lui, entra nell’universo del dono, perché sa che Dio gli ha usato gratuitamente misericordia, che non ha considerato un tesoro di cui appropriarsi la vita divina, che gli è propria per natura, e la vista umana, assunta nel grembo di Maria, per la salvezza degli uomini. Chi sente che Dio Padre lo ama in Gesù, nel dono che il Signore gli fa della sua vita interamente, dona a sua volta, senza calcolare nulla e preferisce che l’altro/a abbia la vita, anche a prezzo della sofferenza e del dolore, dell’incomprensione e del rifiuto, dell’oltraggio e della mortificazione. Non c’è nessuna forza umana che possa limitare il fuoco vivo dell’amore di Dio, che dilaga nel cuore del credente, perché, pur non volendo, lo Spirito in Lui lo spinge, con l’ardente e dolce forza del suo amore, a vedere che Dio consuma il suo cuore e lo invade di quel divino affetto, sorgente della santità e della grazia. In tal modo, la sofferenza, oltre ad avere una dimensione verticale – l’esemplarità di Cristo, nella sua Pasqua, che rivela come realizzarsi nella propria umanità, secondo il disegno del Padre, svelato dal Padre in Gesù – mostra, al tempo stesso, una dimensione orizzontale, la mia sofferenza è vissuta a favore degli altri, per la loro gioia, perché abbiano in abbondanza la vita, “sempre, infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita” (2Cor 4,11-12).

La nostra vita di cristiani è consegnata a Dio e agli altri o, potremmo anche dire, a Dio, attraverso gli altri. Questo non vuol dire che i fratelli siano strumentali alla nostra offerta a Dio, visto che il comandamento dell’amore del prossimo non è mai disgiunto da quello verso di Dio (cf. Mc 12,29-31, Mt 22 37,40), ma che nel circuito dell’amore, che il Signore ha innescato, con il suo dono, che non viene mai meno, entriamo sia noi che i fratelli, perché siamo un solo corpo in Cristo, chiamati tutti a rivelare la potenza del suo amore, che abita e trasforma la nostra vita. È l’amore di Dio che ha attivato in noi la potenza dell’amore, se Paolo può scrivere “L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivono più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana” (2Cor 5,14-16a). Anche la vita degli sposi è scandita dalla consegna, dal desiderio di fare tutto per l’altro/a, perché viva nella gioia e nella pace, sia felice, mettendo a frutti i doni che il Signore ha elargito. Questo non vuol dire assecondare l’egoismo dell’altro/a, quanto, invece, perseguire il suo vero bene, anche quando non è voluto e compreso, purché sia ricercato nella docilità alla volontà del Signore, per il bene dell’altro/a. Nella vita di coppia deve sempre prevalere la dinamica dell’altruismo, che ha in Dio, scelto ed accolto nel patto nuziale, la sua sorgente. Solo così potrò fare le cose con l’amore che mi spinge non ad accontentare l’altro/a, ma a consegnarmi a lui. Questo comporta il mistero della sofferenza, perché l’egoismo recalcitra, quando viene colpito a morte. La nostra vita spesa per gli altri è il segno che seguiamo Gesù, il nostro amore che ci porta a vivere la spiritualità del buon samaritano – figura di Cristo, durante tutta la sua vita, fino alla Pasqua – nel guardare il fratello, accostarsi a lui e soccorrerlo nella difficoltà. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

La misura della pienezza di Cristo

La vita cristiana, come afferma l’autore della Lettera ai Colossesi, oltre ad essere da lui spesa, sopportando le difficoltà e le sofferenze, a favore dei fratelli, comporta, in una dimensione più marcatamente personale, l’assimilazione alla vita di Gesù Cristo. Dopo aver detto “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” continua, scrivendo “do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (v. 24b). Non è difficile comprendere che la vita di ogni discepolo, plasmata dal mistero pasquale di Cristo, nell’accoglienza docile del suo Spirito, che disegna in noi i lineamenti dell’esistenza di Gesù, comporta un lento e graduale cammino di crescita nella fede e nella testimonianza, “finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13). In sé, il mistero pasquale del Signore Gesù è perfetto, perché la consegna obbediente del Figlio, nell’abbraccio del Padre non conosce tentennamenti e ribellioni, è in se stessa perfetta, conforme in tutto al volere divino. Per noi, invece, che siamo soggetti al peccato, il cammino dell’accoglienza obbediente della volontà di Dio conosce tappe alterne, perché non sempre siamo totalmente disponibili alla grazia, oltre che umanamente e spiritualmente maturi, per vivere nella totalità il dono di noi stessi. L’autore dell’Epistola, che è anche lui un discepolo e condivide le tappe del camino di ogni uomo, sa bene che la sequela comporta un compimento, una ripresentazione esistenziale della vita di Cristo, nella mente e nel cuore, nei sentimenti e nelle azioni. Seguendo Gesù, tutti camminiamo verso il compimento, verso la realizzazione della nostra chiamata.

Perché noi avessimo la viva immagine, il modello di come il Padre ci vuole e cosa si attende da noi, perché la creazione realizzi il suo fine e compia il suo progetto, Egli ha inviato nel mondo il suo Figlio. Incarnato nel seno della Vergine Maria, ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana, mostrando sempre e massimamente nella sua morte e resurrezione, cosa lo Spirito compie in coloro che gli si abbandonano, con disponibilità totale di mente e di cuore. Il Consolatore da Lui effuso realizza in noi ciò che contempliamo in Gesù Cristo, ma l’operazione del Paraclito in noi è soggetta ai nostri tempi, perché la grazia presuppone sempre la natura. Il portare a compimento, di cui parla l’autore ispirato, fa riferimento alla meta a cui tutti dobbiamo tendere, alla misura della pienezza di Cristo, Signore nostro. A questo dobbiamo tendere, senza stancarci, né farci fiaccare dalle potenze delle tenebre, non scoraggiandosi, durante le cadute, ma fidandoci solo di Dio e della sua grazia, mai delle nostre forze. La conformazione a Gesù Cristo, il partecipare alla sua vittoria sul peccato e sulla morte è sua grazia e nostro impegno, in quella collaborazione tra Dio e noi, che rende attuale la salvezza e raggiungibile la meta.

Ciascuno di noi ha una vocazione da portare a compimento, un progetto divino da realizzare, una missione ricevuta dall’Alto da completare, sia a livello personale, come anche di coppia e di famiglia, di comunità parrocchiale e religiosa. Dobbiamo protendere verso la meta, “tenendo fisso lo sguardo a Gesù” (Eb 12,2), non permettendo che le difficoltà ci possiamo fiaccare, le incomprensioni frenare, le cadute rallentare, nel perseguire la misura alta della santità cristiana, che è vivere in Cristo e, con la sua forza, costruire tra gli uomini, la civiltà dell’amore, la fraternità universale. Se riuscissimo a comprendere che tra marito e moglie c’è un disegno divino da realizzare, con l’amore scambievole, la complicità santa, il dialogo costruttivo, la correzione amorevole, la comprensione misericordiosa, il perdono reciproco, l’ascolto attento, il parlare sincero, l’affetto vero, la volontà ferrea di vedere sempre il bene e di gettarsi dietro le spalle il male. Se riuscissimo ad aprire mente e cuore, come i discepoli di Emmaus, al Signore Gesù, che sotto le sembianze di uno straniero, percorre le strade della nostra angoscia per ascoltarci e correggerci, entrare nei fallimenti che quotidianamente sperimentiamo, quando ci allontaniamo da Lui. Abbiamo una missione da compiere, delle responsabilità da espletare, dei compiti da vivere, delle situazioni da affrontare, in famiglia e nella società, nella Chiesa e nelle relazioni che caratterizzano il nostro vivere. Chi può dire di essere perfetto nell’amore, arrivato nel dono promesso, giunto alla meta prefissa? Per questo dobbiamo terminare l’edificio della nostra vita, perfezionare i nostri rapporti, mettere a punto i nostri comportamenti, attraverso una revisione coscienziosa, fatta con amore e pazienza, abnegazione e coraggio. Vivere, senza sentirsi mai arrivati non deve mai portarci a soccombere sotto la tentazione della frustrazione, né a ripiegarci su noi stessi, credendoci dei falliti. Siamo in cammino, lungo la strada, nell’obbedienza alla parola del Maestro, veniamo guariti come i dieci lebbrosi, visitati come i discepoli, che si allontanano da Gerusalemme. Anche Paolo può scrivere “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,12), mentre san Francesco, morente, rivolgendosi ai suoi frati, disse: “Incominciamo, fratelli, a fare qualcosa, perché finora non abbiamo fatto nulla”.

Tendere all’ideale, senza paura

Dire che non siamo perfetti e che dobbiamo ancora lavorare su noi stessi, per raggiungere la conformazione a Cristo, significa che in noi ci sono delle lacune da colmare, delle mancanze da rivedere, dei passi da rimodulare, delle dinamiche da correggere. Protesi a vivere la sequela di Gesù e a disporci, nella totalità, ad essere in Lui, non possiamo misconoscere le nostre imperfezioni e credere che tutto vada bene. Bisogna essere realisti, senza per questo farsi prendere dall’abbattimento, perché ciò che vediamo e viviamo, non è secondo quanto desideriamo da noi stessi. Avere dinanzi le nostre mancanze ci deve portare, invece, a riprendere il cammino con più impegno, a darsi da fare per superarsi, perché la vita cambi, con la forza di Dio. Sentiamo in noi la tensione tra l’ideale ed il reale e spesso questo è fonte di sofferenza, quando, incentrati su di noi, crediamo che la vita sia nelle nostre mani. Il cristiano sa, invece, per l’esperienza che Dio gli concede di fare, che la distanza viene colmata dalla presenza del Risorto, coperta dalla potenza della sua misericordia. Le mancanze divengono i luoghi dove il Signore si rivela medico, i momenti di tenebra, i tempi opportuni nei quali sperimentare maggiormente la luce di Dio. Le mancanze – il testo biblico lo sottolinea bene – non sono tali per un giudizio umano sulle situazioni, ma in riferimento alla nostra assimilazione a Lui. Noi manchiamo e siamo deficitarii, perché Cristo ancora non si è formato totalmente in noi, la nostra consegna non è incondizionata, il nostro abbandono totale. In tal senso, la tensione della vita cristiana – vivere in Cristo – è rallentata dall’incapacità umana di portare il passo, ma questo non può e non deve frenare la corsa verso Dio, in risposta al suo amore che ci precede sempre, quanto, invece, spingerci ad intensificare l’impegno, ponendo cuore e mente, nel realizzare la nostra gioia, che consiste nel compiere ciò che il Signore ci chiede di fare.
La ripresentazione della vita di Gesù risorto, la visibilità del suo mistero pasquale dipende da noi, dalla gioia del cuore nostro, dalla credibilità della nostra testimonianza, dalla convinzione del nostro credere, dalla incisività in noi della potenza del Signore vivo e vero, in mezzo a noi. l’autore dice che “nella mia carne” a sottolineare la capacità di lasciarsi investire profondamente dalla grazia dello Spirito Santo, come ha fatto Maria, non credendo che il cammino spirituale non comporti una vita concreta, nella quale Cristo vive in noi. Non è forse questa la dinamica della vita di coppia e di famiglia? Il linguaggio tra gli sposi passa e deve passare attraverso la propria carne, per essere vero, come per ogni membro della Chiesa, perché Gesù deve entrare nella mia vita, illuminare il mio cuore, determinare le mie scelte, dare senso alla mia solitudine, colorare il grigiore della mia tristezza, spingere oltre il deserto il mio cammino, per varcare la soglia della terra che Egli ha preparato per coloro che si lasciano guidare dalla sua mano. Se la sequela di Gesù non incontra la carne, quello che sono e vivo, ciò che penso e credo, lo Spirito non potrà trasformarmi in apostolo e missionario del Vangelo. Solo se il Paraclito mi riveste con la sua forza, la mia vita sarà segno della presenza del Risorto, in mezzo agli uomini e la mia famiglia e la relazione di coppia diverrà il nuovo giardino di Eden, dove il Signore cammina con noi, alla brezza della sera.

Nella Chiesa per il mondo

I passaggi successivi della Lettera ai Colossesi ci danno la possibilità di comprendere quanto la nostra esistenza di cristiani non debba mai essere vissuta per noi stessi, ma sempre e solo per gli altri, perché tutti conoscano la ricchezza di Cristo e sperimentino, nella sua Chiesa, la grazia della sua misericordia. Da questa profonda consapevolezza di fede sgorga la parola dell’Apostolo “Di essa [la Chiesa] sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi” (v. 25). Essere ministri della Chiesa, dispensatori tra gli uomini della sua grazia, rendendo manifesto in noi il mistero nascosto da secoli e rivelatosi in Cristo è l’impegno di ogni credente. “Dio volle fa conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo” (v. 27-28). Queste parole, vissute dall’autore e donate ai Colossesi, sono il programma della nostra vita: avere Cristo come speranza da annunciare ed istruire, perché ogni uomo raggiunga l’unica perfezione a cui dobbiamo tendere, la carità eroica, che si attua solo se lasciamo operare in noi la potenza dello Spirito Santo.




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