Costume

La malattia del secolo? Il “me ne frego”

camminare

di Michela Giordano

A tutti è capitato o capiterà di far finta di non vedere e scendere a compromessi con la coscienza. Ma tra il “me ne frego” e il “non mi capiterà più” c’è sempre la cosa giusta da fare.

Diffido da chi, con tronfia sicurezza, afferma: “A me non capiterebbe mai”. La vita è complessa, una tavolozza di colori tra essi contaminati, molto più ampia della scala dei bianchi e dei neri che, taluni, ritengono di essere in grado di tener separati, distinti. Non ho avuto, fino ad ora, la grazia di conoscere un santo (dal quale, forse unico caso, potrei aspettarmi la perfezione in terra), figuriamoci se io possa credere che esistono esseri umani tanto virtuosi da non cedere mai alla tentazione, dal non cadere in errore. Capita a tutti, per fortuna. A volte sono piccole cose, come fregare il posto al parcheggio a chi era già in attesa; altre volte il cedimento assume i contorni della tenue illegalità, come lasciare l’auto in doppia fila, “ma solo per un attimo, il tempo di comprare un pacchetto di sigarette”. Sono sicura che sia possibile individuare nella vita di ciascuno di noi “una buccia di banana” sulla quale siamo, in qualche occasione, scivolati. 

Mi ha colpita, la scorsa settimana, la telefonata di un’amica che vive nel “civile Piemonte”. Ha il papà malato di tumore e vive accanto a lui lo strazio delle lunghe permanenze in ospedale per la chemioterapia. Da due mesi constata che, nel mare magnum di un ospedale perfettamente funzionante, c’è un infermiere, quello addetto a non so quale accertamento pre-ciclo, che fuma in ambulatorio, si assenta lungamente mentre i pazienti aspettano in corridoio, è scortese. Lo hanno filmato, i familiari dei malati, inizialmente intenzionati a pubblicare su Facebook quelle immagini o a segnalarle al direttore sanitario. Poi hanno desistito, perché “poi dobbiamo continuare ad andarci, in ospedale, e se poi se la prendono con papà?”. Ecco un aspetto della faccenda sul quale non avevo abbastanza riflettuto: a volte, nella battaglia tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, il cittadino sa perfettamente quale sia la strada corretta, ma il condizionamento della paura, del fastidio che ne potrebbe derivare, lo frena. 

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Non facciamo i soloni presuntuosi, la paura è comprensibile, soprattutto quando una delle parti in causa è in posizione di subalternità (culturale, sociale, economica o anche meramente di forza fisica). Certo, poi occorre metterla da parte, questa paura, ma in ciò consiste la sfida più complessa della nostra società, nel fornire a ciascuno gli strumenti per censurare quella piccola vocina interiore che, ogni tanto, suggerisce “ma che te ne frega, lascia che se ne occupi un altro, lascia perdere”. È la malattia del secolo il “me ne frego” e sfido chiunque ad affermare di non esserne mai stato affetto. Nessuno è al riparo. 

A me è capitato e capita. Poi, vabbè, non ci dormo la notte, perché mi sento in colpa, schiacciata dal senso di responsabilità: mi pare che ce ne sia sempre meno in giro, anche se non saprei dire dove io l’abbia imparato. Allora mi alzo dal letto battagliera, sicura e mi ripeti: “Non mi capiterà più”. Poi, però, ci ricasco, quando quella vocina impertinente si rimette in azione e vado avanti così, tra un “che me ne frega” e un “non mi capiterà più” e in mezzo l’indignazione quando noto negli altri l’influenza della vocina malefica. Perché, si sa, il dito è più facile puntarlo che piegarlo verso sé stessi.

 




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