XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 1 settembre 2019

L’amore che sposa la ferialità

L’amore non si manifesta in gesti straordinari, nei fuochi di gesti eclatanti e sporadici, nella tempesta di scenate di gelosia, nella voce di tuono di chi parla, ma poi, all’atto pratico batte ritirata. L’ordinarietà è la via che sceglie chi ama, il silenzio il linguaggio di chi si dona, l’umiltà il sentimento di chi cura, l’abnegazione la strada chi colui che non guarda per giudicare, ma per cercare nel cuore dell’altro uno spiraglio per donarsi con gioia.

Dalla lettera agli Ebrei (12, 18-19.22-24)
Vi siete accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente.
Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola.
Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.

 

Nel cammino verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51-19,28), Gesù annuncia il Vangelo ed opera la salvezza. Al suo seguito, come i discepoli e le folle che accalcano il luogo del suo insegnamento, ci siamo anche noi, assetati della sua Parola e della grazia della sua visita. La liturgia, in questo ideale itinerario dietro Cristo, ci offre oggi, nel Vangelo (cf. Lc 14,7-14), la parola che il Signore, in casa di un fariseo, rivolge sull’umiltà e sulla scelta degli ultimi posti. Anche il libro del Siracide, da cui è tratta la Prima Lettura (cf. Sir 3,17-20.28-29) mostra come lo sguardo del Signore si volge sull’umile, mentre rigetta gli orgogliosi ed i superbi. Differente è l’orizzonte della Seconda Lettura (cf. Eb 12, 18-19.22-24). L’autore dell’Epistola agli Ebrei presenta una differenza sostanziale tra la rivelazione di Dio, sul monte Sinai, e l’incontro con Gesù Salvatore. È Lui, infatti, che realizzale figure dell’Antico Testamento, il Dio vivente che incontra il suo popolo e si intrattiene con quanti lo accolgono, nella fede. Contemplando l’umiltà di Dio, che ci viene a cercare (Seconda Lettura), siamo chiamati ad imitare la sua stessa umiltà, rifuggendo l’orgoglio e l’egoismo (Prima Lettura), per essere accolti alla mensa del regno (Vangelo, perché abbiamo vissuto la stessa dinamica di Cristo, che da ricco si è fatto povero, per arricchirci (cf. 2Cor 8,9).

Dall’antico al nuovo Patto

Ci troviamo nell’ultima sezione del capitolo dodicesimo della Lettera agli Ebrei (vv. 18-29), nella parte dedicata al confronto tra prima e seconda Alleanza, naturalmente sviluppata per mostrare la superiorità del sacrificio e del sacerdozio di Cristo, rispetto a quelli dell’Antico Testamento. Si tratta di un confronto quanto mai necessario per i cristiani che, provenendo dal giudaismo, devono accogliere Gesù Cristo come unica porta di salvezza. Non è l’osservanza della Legge a salvare l’uomo dal peccato, sembra argomentare l’autore, perché solo Cristo è il salvatore, è Lui la pietra d’angolo, di Lui hanno parlato i profeti, nelle Scritture antiche. Gesù è il Signore che realizza, nel mistero della sua Pasqua, le antiche figure del tempio e del sacrificio, del sacerdote e dell’altare, perché solo in Lui c’è salvezza, “non vi è, infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4,12). Non dobbiamo quindi volgere lo sguardo altrove, ma tenerlo fisso su Gesù Cristo, senza di Lui non possiamo far nulla, solo il Signore ha parole di vita eterna e ci conduce, oltre il deserto, nella terra della libertà vera e della gioia perfetta, che nulla potrà mai rubarci, né turbare. Proprio perché si tratta di un confronto tra l’Antica e la Nuova Alleanza, abbiamo una struttura binaria, prima si presenta la relazione che il popolo viveva con Dio, attraverso la mediazione di Mosè (vv. 18-19) per poi descrivere, nei vv. 22-24,“la via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne” (Eb 10,20).Il passaggio dalle figure alla realtà è giunto a pienezza, perché Dio si è fatto uomo e ha condiviso tutto di noi, eccetto il peccato. L’autore aveva già scritto, come incipit del suo scritto e centro nevralgico del suo discorso: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1,1-2). Ora deve chiarire la superiorità e definitività dell’alleanza stipulata da Cristo nel suo sangue, perché i suoi comprendano che il culto “in spirito e verità” (Gv 4,23) non solo è in continuità con la liturgia del tempio, ma ne rappresenta il naturale sviluppo. È questo il passaggio che anche i primi discepoli sono chiamati a fare, con la resurrezione di Cristo, dalla sua presenza visibile a quella invisibile, non per questo meno reale, visto che Egli abita misteriosamente la comunità-Chiesa e la guida nella storia. Per questo l’autore scrive: “non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola” (vv. 18-19).

La prima cosa che notiamo è il verbo utilizzato, avvicinarsi, ripreso anche dopo, nella pars costruens dei vv. 22-24, anche se la traduzione italiana utilizza un diverso verbo, per evitare la ripetizione (“vi siete accostati”), voluta, invece, dall’autore, nel testo originale. Il credente può accedere al mistero di Dio, entrare alla sua presenza, godere della sua amicizia, sperimentare la sua misericordia, interiorizzare e vivere del suo amore, perché Dio stesso ci ha raggiunti ed ha messo la sua tenda in mezzo a noi. La storia d’Israele è questo cammino di progressiva rivelazione del volto luminoso del Signore, fino alla sua manifestazione massima, in Cristo Signore, che è Dio e uomo. In tal modo il credente non può fermarsi a tappe intermedie di questo itinerario di rivelazione, ma deve accogliere il mistero di Dio e lasciarsi raggiungere, nella modalità voluta da Lui e secondo i tempi da Lui stabiliti per farsi conoscere dagli uomini. Avvicinarsi a Dio è una grazia, non un merito nostro, non sono le nostre azioni che permettono di presentarci davanti a Lui a testa alta – la figura del fariseo è il segno della presunzione umana, dell’idea sbagliata di poter accampare diritti davanti a Dio, che significa poi che Egli ha dei doveri nei nostri riguardi – perché la divina benevolenza, il suo amore immenso, la compassione che dimostra, la misericordia che brucia nel suo cuore, alla vista delle nostre miserie, che lo spinge ad usarci pietà. Dio esercita nei nostri riguardi una straordinaria forza di attrazione, perché spinge il desiderio nostro, accende la volontà, muove il cuore ad avvicinarsi a Lui, quando Egli si avvicina a noi. Per questo il profeta Isaia annuncia “cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino” (Is 55,6). L’uomo deve riconoscere questo primato di Dio, oltre che nell’ordine della natura, anche in quello della rivelazione. È il primato dell’amore, perché chi ama previene e non attende, si fa vicino e non indugia, corre e non riesce a stare inerme. È il movimento di Dio nei nostri riguardi che mette in circolo la forza della corsa e la grazia dell’incontro. L’apostolo Giovanni lo insegna “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10).

Leggendo la Scrittura, ci viene sempre offerto di contemplare il mistero di Dio, il suo amore nei nostri riguardi. La dinamica del primato dell’amore, che non attende, ma previene siamo chiamati a viverlo, nei riguardi di Dio e a immettere nei solchi della nostra storia personale, familiare e comunitaria, la potenza dello Spirito che è amore preveniente, affetto che viene incontro, sorriso gioioso che genera pace, benevolenza gratuitamente offerta, effusione di grazia concessa senza risparmio. Se abbiamo dinanzi al nostro sguardo Dio che si avvicina a noi, che ci soccorre nel nostro peccato, guarisce nella nostra debolezza, che fasce le piaghe dei cuori spezzati, libera dal carcere i prigionieri e dona la forza allo spossato e la corsa allo storpio, anche noi possiamo vivere il comandamento della carità. Cos’altro significa avvicinarsi se non amare? Esiste forse un amore che non custodisce, un affetto che non diviene prossimità, una bontà che non si traduce in tenerezza? Amare significa avvicinarsi, vivere la compassione, come il buon Samaritano, lasciarsi trapassare il cuore dal dramma dell’altro, soccorrerlo nella difficoltà, sostenerlo nella caduta, consolarlo nel pianto. Forse Maria ha atteso la visita di Elisabetta o le si è fatta incontro, mossa esteriormente dalla parola dell’angelo che le annunciava per la sua parente una inattesa gravidanza e spinta interiormente dallo Spirito, che rendeva in lei carne il Verbo? Per avvicinarsi l’amore deve sposare l’umiltà, lasciarsi plasmare di pazienza, rivestirsi di comprensione, non calcolare i torti subiti, ma guardare sempre al bene che si può ancora fare. Io mi avvicino all’altro/a, senza attendere che sia lui/lei a fare il primo passo, se il bisogno di amare è più forte della necessità di essere amati, se l’egoismo è sbaragliato dal dono, se la pretesa è vinta dalla maturità dell’amore. Nel nostro cuore c’è troppo fierezza, per questo non ci avviciniamo all’altro, siamo convinti di essere dalla parte della ragione, per questo ci induriamo e non vogliamo sapere ragioni e deve passare del tempo, non per chiarire, ma per dimenticare e far finta di niente, conservando in noi la segreta presunzione di essere giusti. Se Dio facesse lo stesso con noi, saremmo perduti! Egli invece si avvicina, perché non viviamo la vergogna del bisogno, ci viene incontro, per non arrossire dei nostri peccati. Per questo l’Apostolo scrive: “Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,1-2), mentre Giovanni ammonisce i suoi “Chi dice di rimanere in lui, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato” (1Gv 2,6).

Vedere l’invisibile

Il discepolo di Cristo, diversamente dal popolo d’Israele, non ha sperimentato rivelazioni straordinarie di Dio. Per questo l’autore può dire che “non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole” (vv. 18-19a). Le immagini proposte riprendono i racconti delle teofanie divine, fenomeni naturali straordinari quali il fuoco, le tenebre e la tempesta che accompagnano il rivelarsi di Dio a Mosè sul monte Sinai (cf. Es 19,16; 20,18, Dt 4,11, 5,22). Il popolo, dinanzi a manifestazioni, vive la paura ed è vinto dallo sconcerto, al punto tale che “quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola” (v. 19b). Diventare adulti e maturi nella fede – sembra di poter leggere tra le righe – significa non fermarsi a manifestazioni straordinarie e miracolistiche, che non bisogna neppure pretendere, come l’apostolo Tommaso, che voleva mettere il dito nel segno dei chiodi e la mano nel costato del Crocifisso, per verificare la sua resurrezione. Lo stesso passaggio riguarderà anche Paolo, che scriverà ai Corinzi: Cristo “è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivono più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così: tanto che, se uno è in Cristo, è una creatura nuova, le cose vecchie sono passate; ecco ne sono venute di nuove” (2Cor 5,15-17). Maturare e diventare adulti non è solo un passaggio naturale, ma rappresenta una scelta, una decisone che si traduce in impegno fattivo a lasciare le cose di un tempo, per aprirsi alla novità, vivendo le vertigini dell’alta quota, la paura ed il timore di non farcela, giocandosi il tutto per tutto, proprio come ha fatto Gesù. Per questo Paolo potrà dire “Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino” (1Cor 13,11). Si tratta del medesimo passaggio che siamo chiamati a fare tutti, nella sequela di Gesù, abbandonare, senza per questo rinnegare il passato e le forme della nostra vita, per accogliere il nuovo, che è sempre in continuità con l’antico. Gli Ebrei, ai quali è indirizzata la nostra Epistola, divenuti cristiani, devono lasciare le cose che sono elementi dell’antica alleanza e devono aprirsi alla novità di Dio, a Gesù Cristo che è la pienezza della legge di Mosè, la perfezione dell’amore promesso in antico e che in Lui giunge fino al dono della vita sulla croce. Anche noi dobbiamo scegliere di diventare adulti, per imboccare la strada della maturità nell’amore, come non possiamo credere che la nostra fede, quella imparata da bambini, possa ancora essere vissuta nelle forme che hanno scandito la nostra giovane età. Dobbiamo crescere, nel corpo e nel cuore, nella mente e nell’animo nostro, secondo le tappe di crescita che scandiscono la vita di ognuno di noi, come accadde a Gesù. Di Lui l’evangelista Luca appunta “il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza e la grazia di Dio era su di lui” (Lc 2,40), mentre, dopo il ritrovamento nel tempio, afferma “E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 1,52).

Quanto è importante crescere e crescere bene! Non è semplice accogliere gli anni che passano e vedere che si cambia, che i figli prendono la propria strada, che non siamo più gli stessi. Il vero problema è diventare adulti, maturi nella fede e nella vita. Tante volte, invece, ci troviamo ad essere degli eterni bambini, a vivere un’età psicologica che non rispetta quella anagrafica. È la sindrome di Peter Pan, degli eterni bambini, deleteria non solo nelle nostre famiglie, ma anche nel rapporto con Dio e nella vita ecclesiale. L’immaturità e l’infantilismo – ben diversa dalla piccolezza spirituale, richiesta ad ogni discepolo – generano pretese, capricci, liti inutili, contese infinite, instabilità emotive, che negli adulti sono assai preoccupanti e devastanti. Lo stesso si nota anche a livello spirituale, pretendere da Dio che esaudisca le nostre richieste, senza lasciare che la sua grazia ci elevi, così da raggiungere la maturità di Cristo (cf. Ef 4,13). Dobbiamo crescere e scegliere di crescere. Non basta ripetere le cose che facevamo un tempo, dobbiamo imparare a mettere a frutto la grazia, in forme che non solo sono confacenti alla nostra età e alle capacità che mano mano sviluppiamo, ma anche di lasciarci aiutare dai fratelli, nel rispondere alle sfide della storia. Non posso pregare come facevo da bambino, neppure accostarmi al sacramento della Riconciliazione come un adolescente. Dio mi chiede quel di più che posso e devo rendere, per essere me stesso, per dirmi figli adulto, per portare il passo con la maturità che gli anni pretendono che io abbia. Eguale discorso vale anche nelle relazioni familiari. Dobbiamo aiutarci a divenire adulti, che significa bandire ogni pretesa egoistica, per collaborare insieme a costruire il futuro, pianificare il presente, secondo Dio, senza sprecare le energie, ma aiutandoci a vivere nella gioia di sapere che Lui sostiene il cammino della nostra crescita umana, relazionale e spirituale. È necessario che dichiariamo finite le fasi di un tempo – dell’innamoramento e del fidanzamento – per imboccare la via esigente dell’amore, che sposa la ferialità e si incarna nelle situazioni più disparate dell’esistenza. L’amore, infatti, non si manifesta in gesti straordinari, nei fuochi di gesti eclatanti e sporadici, nella tempesta di scenate di gelosia, nella voce di tuono di chi parla, ma poi, all’atto pratico batte ritirata. L’ordinarietà è la via che sceglie chi ama, il silenzio il linguaggio di chi si dona, l’umiltà il sentimento di chi cura, l’abnegazione la strada chi colui che non guarda per giudicare, ma per cercare nel cuore dell’altro uno spiraglio per donarsi con gioia.
Anche il profeta Elia, sul monte Oreb, attese la presenza del Signore. “Ecco il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna” (1Re 19,11-13).Non è la straordinarietà di eventi sporadici ad essere la prova che il Signore sta operando nella nostra vita, ma l’ordinarietà dell’amore, la ferialità del dono, la fedeltà al quotidiano sono il segno che Dio abita in noi e ci accompagna nel cammino della nostra vita. Si tratta della spiritualità delle piccole cose, di coloro che, con umiltà, riconoscono la presenza del Signore nella semplicità di un’esistenza scandita dall’amore. Dobbiamo sempre chiedere al Signore di avere la stessa sensibilità del profeta Elia, per accorgerci del suo passaggio, nella brezza leggera, che solo chi è attento e con l’orecchio teso riesce a percepire.

Un nuovo modo di incontrare e vivere di Dio

Dopo avere sinteticamente presentato la modalità antica di incontrare Dio, al tempo dell’esodo, dopo l’uscita del popolo dalla schiavitù dell’Egitto,l’autore mostra che le figure hanno lasciato il posto alla realtà, perché “le cose vecchie sono passate; ecco ne sono venute di nuove” (2Cor 5, 17) e Gesù Cristo è tutto per il cristiano. Ritorna il verbo avvicinarsi – “Voi invece vi siete accostati” – con una congiunzione disgiuntiva, resa in italiano con invece, ad indicare il contrasto con quanto detto precedentemente. A seguire ci sono ben nove riferimenti “al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova” (vv. 22-24). Le designazioni offerte non si riferiscono a nessun luogo fisico. Esse indicano la realtà della nuova alleanza, che sostituisce quella del monte Sinai, fallimentare per l’infedeltà dell’uomo al patto stipulato da Dio. Quanti credono in Cristo, entrano in una dimensione totalmente nuova, in una comunione spirituale che il Paraclito crea nel cuore di quanti hanno fede in Gesù. In tal modo, con la loro vita divengono un edificio spirituale, il luogo santo nel quale lo Spirito di Cristo mette la sua dimora. Sulla stessa linea si muove la riflessione dell’Autore della Lettera agli Efesini: “voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,19-22).
Se riuscissimo a comprendere che la Chiesa, oltre ad essere una comunità gerarchicamente costituita, è prima di ogni altra cosa, il popolo di Dio, la grande famiglia dei suoi figli! Se la amassimo più di noi stessi e comprendessimo che il legame che scandisce le nostre relazioni è la grazia del Battesimo! La Chiesa, infatti, è la nostra famiglia spirituale. È quanto sta dicendo l’autore della Lettera agli Ebrei, con un linguaggio antico, che continua ad avere un significato profondo per ciascuno di noi. Gesù è il monte Sion, è Lui il luogo della rivelazione definitiva del volto del Padre; Cristo crea intorno a sé la Gerusalemme celeste e rende la città santa il luogo dove il suo popolo canta le sue lodi ed opera per la trasformazione della storia. Essa è priva di porte, come ricorda l’Apocalisse, perché in essa tutti vengono accolti come figli e fratelli. Noi, uniti a Cristo Signore, siamo l’assemblea festosa dei primogeniti, perché il Padre ci attende sulla porta della sua casa e, come per il figliol prodigo, fa festa per, quando ci usa misericordia e gli offriamo la possibilità di amarci con infinita tenerezza. Quando siamo alla presenza del Signore e chiediamo la grazia di procedere nelle sue vie, Egli manda i suoi angeli a custodirci nel cammino, perché nessuna difficoltà impedisca la vittoria in noi del bene. La fede ci permette di avvicinarci al mistero di Dio e di godere della dolce presenza di Cristo, nostro unico mediatore e salvatore.

Vivere nella nuova ed eterna alleanza, stipulata da Cristo, con il suo sangue, significa per noi sperimentare, attraverso i sensi spirituali, che Dio è con noi, è il nostro sostegno e la nostra forza. Il suo Spirito ci sostiene perché abita nel cuore dei credenti e nulla potrà mai abbatterci, se lasceremo che la sua voce ci guidi e la sua luce ci apra la strada del bene. In Gesù Cristo ci è stato dato tutto e detto tutto. Non dobbiamo indurire il cuore, come l’antico popolo d’Israele, ma lasciarci docilmente portare dalla sua mano, che ci conduce oltre il deserto, nella terra della gioia vera e della pace perfetta.




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