XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 8 settembre 2019

Chiamati a vestire i panni di Filemone

C’è una grande crisi oggi di paternità e maternità ed è questa, a ben pensarci, la radice del difficile cammino delle famiglie. L’unione matrimoniale e sacramentale tra un uomo e una donna non significa più comprendersi come marito e moglie e, di conseguenza, come padre e madre. Questa progressiva scoperta di identità che portava l’uomo a diventare prima sposo e poi padre e nel caso della donna, prima sposa e poi madre, sembra si sia interrotta e così la vera crisi della famiglia oggi è prima di tutto antropologica.

Dalla lettera Filemone (9b-10. 12-17)
Accoglilo non più come schiavo, ma come un fratello carissimo.
Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario.
Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.

 

La festa della Natività della Beata Vergine Maria di buon grado lascia quest’anno il posto alla liturgia della XXIII Domenica del Tempo Ordinario, tutta incentrata sulla radicalità evangelica, di cui la Vergine è un esempio eminente. La pericope dell’evangelista Luca (14,25-33), continuando ad attingere dal capitolo quattordicesimo, ci offre la parola chiara ed inequivocabile di Cristo, che a quanti lo seguono chiede di amarlo con cuore indiviso. Il monito “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26) risuona per ciascuno di noi, chiamati a fare della croce, accolta con gioia e portata dietro il Maestro, la verifica del proprio itinerario di sequela. Gesù Cristo svela i voleri di Dio Padre, che l’autore del libro della Sapienza ricerca, nella Prima Lettura (cf. Sap 9,13-18). Il Verbo eterno è la sapienza che conduce a conoscere ed amare Dio, la sorgente dello Spirito Santo, che guida l’uomo a comprendersi nel piano di Dio Padre.
Di tutt’altro tenore è la Seconda Lettura, costituita da pochi versetti, tratti dal biglietto che Paolo indirizza a Filemone. Una sorta di lettera di raccomandazione viene solitamente definita, che mostra tutta la paternità dell’Apostolo e la sua capacità di prendersi a cuore sia le comunità, come anche i singoli cristiani. Non è forse questo che dovremmo imparare anche noi, alla scuola di Gesù? Essere segno e strumento di liberazione, nella vita dei fratelli (Seconda Lettura) è possibile solo se scegliamo Cristo e ben calcoliamo cosa comporti seguirlo sulla strada che giunge alla croce (Vangelo), considerando che solo dalle sue labbra abbiamo la sapienza e dal suo cuore lo Spirito-amore, che ci guida a realizzare il progetto del Padre per la nostra gioia.

Tutto concorre al bene

Tra le lettere considerate autentiche, frutto dell’ingegno e della fede dell’Apostolo, l’Epistola a Filemone è la più breve. Formata da appena venticinque versetti, costituisce uno dei migliori scritti di Paolo, da un punto di vista letterario. L’Epistola è indirizzata a Filemone, un cristiano benestante, che accoglie nella sua casa la comunità, con molta probabilità di Colossi, visto che il nome di Aristippo, un collaboratore di Paolo, citato anche in Col 4,17, compare come destinatario della missiva, insieme ad Appia, moglie dello stesso Filemone. Questi era divenuto cristiano, proprio grazie a Paolo, incontrato probabilmente ad Efeso, dove l’Apostolo soggiornò a lungo, nel suo terzo viaggio missionario. Secondo l’uso del tempo, ogni famiglia possedeva degli schiavi, cosa che accade anche a Filemone. Uno di questi, Onesimo, allontanatosi volutamente dal padrone – non si parla di fuga, nel testo, ma questa appare l’ipotesi più accreditata – si rivolge a Paolo, vecchio (v. 9) e detenuto in carcere (vv. 1.9.13), perché, sapendolo intimo amico del suo padrone, lo aiuti, nella difficile situazione che vive. La frequentazione di Paolo porta Onesimo a conoscere Cristo e a convertirsi alla fede, cosa che, come l’apostolo dice, giustificare anche il volontario allontanamento dello schiavo dal suo padrone. La lettera è scritta da Paolo come biglietto di raccomandazione, perché Filemone accolga Onesimo come un fratello, per la comune fede in Cristo, che la mediazione dell’Apostolo ha determinato.

Il brano che la liturgia domenicale ci offre inizia dal versetto 9b (“ti esorto”), omettendola prima parte del versetto (9a“in nome della carità”), dove è indicato il motivo dell’esortazione dell’Apostolo. La frase per intero recita “in nome della carità piuttosto [che ordinarti] ti esorto”. A muovere l’intervento di Paolo è l’amore che viene da Dio, la carità divina che spinge il credente a prendersi cura del fratello in difficoltà, vestendo per lui i panni del buon samaritano, l’unico a farsi vincere dalla compassione nei riguardi di colui che incappò nelle mani dei briganti. Non si tratta forse del medesimo sentimento che spinse l’Apostolo a scrivere ai Corinzi “L’amore di Cristo ci possiede […] egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivono più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2Cor 5,14-15)? È, infatti, l’amore la suprema lex per il cristiano, se volendo esortare i Romani, l’Apostolo dirà “Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge”, visto che “la pienezza della legge è l’amore” (Rm 13,8. 10)? È l’amore che spinge il discepolo all’opera, che lo rende dimentico di sé, totalmente proteso a ricercare in ogni modo il bene dell’altro. Anche le Epistole nascono dalla volontà di raggiungere i cristiani sparsi in ogni dove e di continuare ad essere per ognuno di loro e per tutti padre nella fede, compagno nella battaglia, maestro nella sequela, amico nella difficoltà, vale a dire, ad amarli, con il cuore di Cristo. Per chi ama veramente non c’è situazione che possa limitare la carità, difficoltà che chiuda il cuore alla condivisione, dolore che impedisca la cura del fratello, gioia da vivere, senza parteciparla agli altri. Chi possiede in sé l’amore di Cristo, perché ha purificato, con il rinnegamento della propria volontà, l’egoismo e la superbia, che ci rendono simili ad Adamo ed Eva, sente bruciare nel petto il fuoco dello Spirito Santo, la stessa fiamma che consumò il cuore di Cristo, portando a dire “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49), amore riversato nei cuori dei discepoli, se Luca poté scrivere, che del giorno di Pentecoste “apparvero lingue come di fuoco, che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro, e tutti furono pieni di Spirito Santo” (At 2,3-4a). L’amore dello Spirito Santo è potenza della divina carità che abita anche in noi, se Paolo può dire “La speranza poi non delude, perché l’amore di Cristo è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). E visto che l’amore “non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse” (1Cor 13,7), comprendiamo perché l’Apostolo, mosso dallo Spirito di Cristo, dica a Filemone “in nome della carità, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù” (v. 9). Avrebbe potuto pensare a sé, la debolezza e la precarietà, come la prigionia e l’anzianità giustificano e motivano l’incapacità di prendersi cura degli altri. Invece, come Gesù sulla croce, che fino all’ultimo è il Salvatore degli uomini ed introduce il buon ladrone nel suo regno, così il suo discepolo ed apostolo, si consuma senza risparmi, nell’edificare gli altri nel bene e nel guidarli ad interiorizzare sempre più la grazia della fede in Cristo. Per questo, a buon diritto può dire ai Filippesi: “Anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi” (Fil 2,17). Chi ama è sempre proteso verso il bene, non si sente mai arrivato, come se avesse già tagliato il traguardo e può dire con l’Apostolo “io non ritengo ancora di averla conquistata [la meta]. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio mi chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3,13-14). Chi si lascia portare dall’amore, dimentica tutto, come Mosè che, rapito dalla visone del roveto sembra abbia perso il suo gregge – almeno così sembra dalla lettura del testo di Es 3 – come la samaritana al pozzo che lasciò la brocca, per andare ad annunciare alla gente del villaggio la straordinarietà del suo incontro con Gesù; proprio come Paolo che, pur oppresso dal carcere e avanti negli anni, si lascia commuovere da Onesimo e, dopo averlo convertito, lo rimanda al suo padrone, perché il rapporto riceva la gioia del sentirsi fratelli in Cristo Signore.

La grazia da chiedere continuamente al Signore è quella di farsi portare dall’amore dello Spirito Santo, che Cristo ci dona, non permettendo che nessuna situazione umana, di gioia o di dolore, possa limitarne la portata, depotenziane l’efficacia, ridurne la grazia, chiuderne la novità. Deve dilagare in noi l’amore di Dio, in noi e tra noi, quello stesso amore che ha portato il Padre al dono del Figlio ed il Figlio a dare se stesso per amore dei suoi amici, deve bruciare in noi ogni egoismo e superbia, per condurci verso i fratelli, nella ricerca sincera del loro bene. È questo il senso della partecipazione eucaristica domenicale – meglio ancora se quotidiana o almeno più volte durante la settimana – nella quale il Risorto ci comunica la sua vita, potenza d’amore che dilaga, grazia di perdono che si espande, carità sfrenata, che dove giunge genera e rinnova la vita. Dobbiamo lasciarci portare dall’amore, sempre, costi quello che costi e, come i vasi comunicanti, essere uniti a Cristo, per avere in noi la sua carità, comunicataci dalla ricchezza del suo Cuore. Solo uniti a Lui, come i tralci alla vite, faremo frutti di vita vera e piena. Percorre la strada esigente dell’amore solo chi è portato dallo Spirito di Cristo, impareggiabile maestro interiore. La sua linfa in noi genera la vita di grazia, la sua presenza opera cose impossibili alle nostre forze umane.

La grazia della generazione spirituale

Un secondo passaggio che colpisce, nel dire dell’Apostolo a Filemone è la nuova identità che la fede in Cristo determina nei credenti e nella relazione tra loro. Paolo, per il ruolo che esercita, è padre sia di Onesimo che di Filemone e questi, oltre a considerarlo garante della loro rinascita in Cristo, sono chiamati a guardarsi diversamente tra loro, perché la parola del Maestro divino li conduce a sentirsi fratelli l’uno dell’altro, redenti dallo stesso sangue di Cristo, che continuamente abbatte ogni muro di divisione e diffidenza tra noi uomini. Per chi crede in Gesù, la realtà riceve una luce nuova, perché Egli concede a chi lo segue con cuore semplice e puro il suo stesso sguardo sulla storia ed i suoi eventi, per vedere negli altri un dono di Dio e per vivere con gli altri la responsabilità dell’amore, che non si ritrae dinanzi a nessuna difficoltà. In tal modo, nel cuore di Paolo non solo l’amore genera la dimenticanza di sé per il bene dell’altro, ma lo conduce anche a considerare l’altro parte di sé, determinando in lui la capacità di comprendersi come padre, nella relazione con l’altro, accolto come figlio, per l’amore che Dio gli concede di donare; nell’altro, ovvero in colui che è visto come figlio, l’affetto sperimentato e la paternità scoperta comportano la grazia della consapevolezza e l’autocomprendersidi essere per l’altro ed in sè figlio. Che si tratti poi di una dignità questa non escludente, lo si comprende dal fatto che il padre ha altri figli egualmente amati e chi sperimenta l’amore diventa maturo, solo quando, rifuggendo la gelosia e l’invidia, accoglie gli altri quali fratelli, egualmente amati. Così Paolo è padre sia di Onesimo che di Filemone, ma entrambi sono in Cristo fratelli e la relazione che l’Apostolo chiede si istauri tra loro deve superare la differenza tra padrone e servo. La fede in Gesù trasforma le nostre relazioni, attraverso l’aiuto di chi, maturo nell’amicizia con Cristo, riesce a leggere ogni cosa alla luce del mistero del Signore Risorto.

L’Apostolo scrive, tradendo la tenerezza ed il trasporto del suo animo “Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene” (v. 10). C’è una generazione carnale, come esiste una generazione spirituale, egualmente importante, anche se spesso non considerata o vissuta in mondo molto superficiale. Più volte, nel suo epistolario, Paolo torna sul tema della paternità spirituale. Scrivendo ai Galati, appunta: “figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi” (Gal 4,19), mentre ai Corinzi può dire “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come miei figli carissimi. Potreste, infatti, avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (1Cor 4,14-15). Nella Prima Lettera ai Tessalonicesi aveva confidato:“siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre ha cura dei propri figli” (1Ts 2,7), per poi dire: “Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, chi vi chiama al suo regno e alla sua gloria” (1Ts 2,11-12). Comprendiamo allora come ci sia in Paolo una spiccata consapevolezza del ruolo che Dio gli ha affidato, in ordine alla crescita di fede dei fratelli. La “grazia di essere apostoli” (Rm 1,5) comporta la paternità spirituale e, al tempo stesso, si traduce in impegno, nel quotidiano affanno, nella preoccupazione per tutte le Chiesa, tanto da poter dire “Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema” (2Cor 11,29) e “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli: mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io (1Cor 9,22-23). Generare l’altro/a in Cristo significa farlo rinascere dall’Alto, per acqua e Spirito Santo, ovvero suscitare la fede in Gesù, l’incontro con Lui, la relazione salvifica con il Maestro, l’incontro con la sua Parola, l’assimilazione dei suoi sentimenti. Chi genera nella fede non lega a sé l’altro, ma sa di essere unicamente mediatore di una grazia che lo trascende, di una potenza che lo supera, di un amore che lo attraversa. Per questo Paolo può dire: “In nome di Cristo, siamo ambasciatori. Per mezzo nostro è Dio stesso che vi esorta” (2Cor 5,20) e ancora “noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio e non viene da noi” (2Cor 4,7). Egli sa bene che, al pari della legge (cf. Gal 3,24), deve considerarsi un pedagogo, che conduce a Cristo ogni uomo che Dio stesse pone sul suo cammino. Suo compito è guidare gli altri a Gesù e permettere che l’amicizia con Lui divenga sempre più profonda, la docilità allo Spirito del Risorto trasformante, l’amore a Dio e ai fratelli totalizzante.
Ogni intervento pedagogico, nell’educazione alla fede, deve muoverci “finché Cristo non sia formato in voi” (Gal 4,19), portando a Gesù, non al perfezionismo morale, non all’incontro con una dottrina o con una legge, ma con Cristo vivo, vero, presente ed operante nella Chiesa e nella storia di oggi. Generare nella fede significa condurre le persone che il Signore ci affida a crescere in Lui, mettendo a frutto la sua grazia e lasciando all’amore suo di plasmare cuore e mente, energie e sensibilità, corpo ed amina. Generare nella fede vuol dire aiutare gli altri a immergersi nel mistero della Pasqua di Cristo, comprendere che solo passando attraverso la porta stretta della sua croce si conosce la strada della gioia, che nel dono silenzioso e feriale, perseverante ed umile, si costruisce la vita, modellandola su quella di Gesù, nella forza del suo Spirito. Solo così si manifesta il desiderio per l’altro di essere libero nell’amore vero, proteso nell’affetto fraterno, preoccupato dalle necessità dell’altro. Nella generazione spirituale, nei riguardi di un figlio o di una figlia che sento parte del mio cuore di padre, si avverte, prima di ogni cosa, il primato del dono di Dio, di cui mai è possibile appropriarsi. I figli sono sempre un dono, nella dimensione carnale, come anche spirituale. Quanto più questo diviene chiaro, tanto più si vince la pretesa di controllare gli altri e sorge il desiderio di accompagnare le tappe della crescita, di condividere gli ideali e comprendere le strade tracciate da Dio, ma indicando le vie che si sarebbe voluto percorrere e che la Provvidenza non ha voluto, aprendone altre ben più grandi. Non forse le pretese che ogni genitore vive? Anche un padre, una madre spirituale, al pari di Maria e Giuseppe, deve veder crescere Gesù nella vita dell’altro ed essere nutrice di questa generazione spirituale, perché tutti siamo chiamati a concepire e generare Cristo in una vita santa per la gloria di Dio Padre e la salvezza del mondo.

C’è una grande crisi oggi di paternità e maternità ed è questa, a ben pensarci, la radice del difficile cammino delle famiglie. L’unione matrimoniale e sacramentale tra un uomo e una donna non significa più comprendersi come marito e moglie e, di conseguenza, come padre e madre. Questa progressiva scoperta di identità che portava l’uomo a diventare prima sposo e poi padre e nel caso della donna, prima sposa e poi madre, sembra si sia interrotta e così la vera crisi della famiglia oggi è prima di tutto antropologica, perché il demonio fa credere che la vera realizzazione personale sia nell’egoismo esasperato, non nel dono totale di se stessi. In tal modo l’uomo e la donna non cercano la propria realizzazione nella sponsalità e nella genitorialità, ma nel lavoro e nell’affermazione delle capacità che, da mezzi, divengono fine, in se stesso sterile, incapaci di generare nulla al di fuori dell’esaltazione di se stessi. Lo stesso è anche a livello spirituale. È difficile oggi trovare padri e madri nella fede, esperti di umanità autentica, attinta, sperimentata e nutrita nella relazione preferenziale e totalizzante con Cristo, nella Chiesa. I dialoghi sono sfuggenti, gli sguardi fugaci, superficiale se non proprio assente la capacità introspettiva, che cresce con il silenzio e la preghiera, la contemplazione di Cristo, nella Parola e nell’Eucaristia, nella vita personale e nell’ascolto dei bisogni dei fratelli. Basta pensare come viviamo il sacramento della Riconciliazione o dell’Eucaristia, non si sa, talvolta, chi abbia più fretta, se il sacerdote nel darti l’assoluzione o il fedele nel partecipare alla Messa, ma già con la testa a ciò che farà dopo. Questo perché siamo convinti di poter fare da soli, anche nella fede, vivendo così il delirio adolescenziale di chi pretende di essere totalmente libero, di quella libertà che diviene libertinaggio e che è poi la causa di tanti mali.
Potremo uscire da questa crisi solo riscoprendo in Cristo la nostra identità e centrando su di Lui la nostra vita. È Gesù, infatti, con la forza del suo Spirito di vita, a farci vedere l’autentico bene, donandoci la grazia di perseguirlo con determinazione ed impegno, senza lasciarsi scoraggiare o fiaccare dalle cadute, che possono esserci, nel camino della vita.

Liberi di scegliere il bene

Paolo, nel rimandare lo schiavo Onesimo, avrebbe potuto chiedere a Filemone quanto voleva. Il suo ruolo di apostolo, come anche l’amicizia vissuta nella lieta fraternità e nella reciproca stima gli avrebbe permesso di fare ogni richiesta e di trovare pronta accoglienza. Invece, sceglie una strada diversa, quella del rispetto per la libertà dell’altro, offrendo la possibilità di discernere insieme il bene da fare, ma di prendere personalmente, davanti a Dio, la decisione più opportuna. E così, dopo aver scritto: “Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore” (v. 12) aggiunge “Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario” (vv. 13-14). Non solo “la carità non fa nessun male al prossimo” (Rm 13,10), ma “non manca di rispetto, non cerca il proprio interessa” (1Cor 13,5), perché è la potenza dello Spirito di Cristo, infuso nel cuore dei credenti. Per questo Paolo non pretende, ma lascia liberi, conduce a riflettere e, con delicatezza, fa presente le cose, ma senza imporre nulla. Lo stesso aveva fatto con i Corinzi, circa la raccolta per i poveri di Gerusalemme: “non dico questo per darvi un comando, ma solo per mettere alla prova la sincerità del vostro amore, con la premura verso gli altri” (2Cor 8,8). L’Apostolo riesce ad amare con libertà e a chiedere, senza per questo pretendere o legare gli altri, perché è un uomo libero dentro da ogni forma di condizionamento. Accoglie gli altri per quello che sono, così come accoglie se stesso, nell’amore di Dio e sa benevolmente accettare il tempo che è richiesto per il cammino di crescita di ciascuno. Dimostra, in questo biglietto, la maturità dell’età, nella vita e nella fede e di buon grado prende la strada della persuasione, mai quella dell’imposizione, mostrando l’opportunità del bene da fare, l’utilità della fede da vivere.

Amare vuol dire lasciare libero l’altro/a, non prendere ciò che non vuole o, ancor peggio, non sa darci, per questo è necessario rispettarne i tempi e la maturità, comprenderne le battute di arresto e accompagnarne la crescita, spesso lenta, altre volte tanto veloce, da voler bruciare le tappe. Amare sul serio comporta guardare con lucidità il bene da perseguire, senza misconoscere l’altro e le sue capacità, mai permettere che la legge prevalga sulla persona e che la consapevolezza sia una meta da raggiungere, anche passando per le valli oscure della difficoltà. Paolo offre a Filemone un orizzonte di riflessione che non è staccata dalla vita, come anche ad Onesimo di non fuggire dalla casa del suo padrone, per non vivere la paura di essere eternamente fuggiasco come Caino. È la riconciliazione che ci rende fratelli, come accadde a Giacobbe ed Esaù, suo fratello. Il cammino della fraternità non è semplice da vivere, ma neppure impossibile, assecondando la grazia dello Spirito che è in noi come zampillo di beatitudine e di gioia evangelica. Amare significa non permettere la fuga dalla responsabilità, ma aiutare l’incontro, non evitare la punizione, ma mostrare che è inutile, perché l’altro è un fratello da accogliere come il padre misericordioso abbracciò il figlio che era perduto. Nei nostri rapporti siamo chiamati a vivere la bellezza dell’amore che Gesù ci mostra e la cui forza ci dona, per essere come Lui, generatori di vita e sorgenti di speranza. L’apostolo Paolo sta scrivendo anche per noi. Ciascuno deve vestire i panni di Filemone, per capire che la fede spinge a rompere le catene della schiavitù e dell’oppressione, perché il Vangelo è la forza per edificare tra gli uomini il Regno di Dio.




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