XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 15 settembre 2019

La forza del perdono che ci fa vivere

Dio Padre ci perdona, riconciliandoci con sé, introducendoci nuovamente nella sua casa, facendoci partecipare ai suoi beni, permettendoci di godere del suo amore, che non fa calcoli, della sua grazia che tutti accoglie, senza misura

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (1, 12-17)
Cristo è venuto per salvare i peccatori.
Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

La liturgia di questa domenica è il canto della misericordia che l’uomo innalza a Dio Padre, contemplando la sua benevolenza, che si manifesta nel perdonare ogni peccato e condonare ogni debito. La pagina del Vangelo (cf. Lc 15,1-32) presenta le tre parabole della gioia, che il Maestro pronuncia dinanzi agli scribi e ai farisei che mormorano contro Gesù, dicendo “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2). Il pastore che ricerca la pecora perduta, la donna la dramma smarrita ed il padre, che attende il ritorno del figlio che volontariamente si è allontanato, sono le figure che meglio esprimono i sentimenti del cuore di Dio, che è Padre ricco di misericordia. Nella Prima Lettura, tratta dal libro dell’Esodo (32,7-11. 13-14), il perdono accordato al popolo d’Israele, reo di essersi pervertito, con il vitello d’oro, è frutto della mediazione di Mosè, che supplica il Signore, ricordando la promessa da Lui fatta ad Abramo. Dio mostra il suo volto misericordioso progressivamente, accompagnando i figli d’Israele, attraverso un lungo cammino, a comprendere che la sua essenza è l’amore, giungendo a Gesù Cristo, pienezza della rivelazione di Dio all’uomo. Nella Seconda Lettura (cf. 1Tm1,12-17), l’apostolo Paolo, scrivendo a Timoteo, annuncia l’esperienza della misericordia che Egli stesso ha fatto, nella sequela di Gesù, mostrando che solo il perdono sperimentato in prima persona ci rende testimoni credibili della parola di salvezza.

Collaboratori nell’annuncio del Vangelo

Gli Scritti che formano l’Epistolario paolino, oltre a comprendere Lettere indirizzate ad intere comunità – si pensi alla Lettera ai Romani e alle due Epistole ai Corinzi – oppure a cristiani di una regione particolare dell’Impero Romano, come la Galazia, in Grecia – si tratta della Lettera ai Galati – include anche un tre Lettere, nelle quali l’Apostolo si rivolge a singoli cristiani, per affrontare situazioni particolari. Esse sono la Lettera a Filemone, in parte letta la scorsa domenica, e le due Lettere a Timoteo e l’altra a Tito. Queste ultime sono definite Lettere Pastorali, perché i loro destinatari guidano rispettivamente la comunità di Efeso e di Creta. Paolo, scrivendo loro, offre indicazioni pratiche perché siano buoni pastori del gregge di Cristo Signore

Il libro degli Atti degli Apostoli e le Epistole paoline sono le fonti da cui attingere per conoscere Timoteo, uno dei collaboratori prediletti da Paolo. Di padre greco e di madre giudea, è originario di Listra ed incontra l’Apostolo, durante il secondo viaggio missionario. Divenuto suo stretto collaboratore, lo affianca in numerose missioni, anche nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme (cf. At 20,4). Dagli scritti paolini veniamo a conoscere i numerosi e delicati incarichi che gli vengono affidati (cf. Ts 3,2.6; 1Cor 4,17; 16,10; Fil 2,19-24; Rm 16,21) e lo troviamo menzionato insieme con Paolo come mittente in gran parte delle Epistole.

Il brano che la liturgia oggi ci dona è il rendimento di grazie, caratteristico in gran parte delle epistole paoline. Difatti, dopo l’indirizzo iniziale, dove è indicato il mittente, il destinatario e il saluto che apre lo scritto – “grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù Signore nostro (1Tim 1,2b) – l’Apostolo parla della missione di Timoteo (cf. 1Tm 1,3-4) e della necessità di affrontare le difficoltà emergenti nelle diverse comunità. Si tratta, in realtà, di una sorta di introduzione, prima di entrare nel corpo vero e proprio dell’Epistola, che incomincia proprio con il nostro brano. In esso l’Apostolo parla in prima persona della sua vocazione e di come il Signore lo abbia reso, per la sua sola misericordia, araldo del Vangelo e servo di ogni uomo. Nelle prime battute della nostra pericope sentiamo vibrare il suo animo, tutto proteso verso Dio, nel riconoscere la sua grazia, che lo spinge continuamente a divenire testimone della potenza della misericordia, capace di vincere ogni morte e di cancellare ogni colpa e peccato.

Rendo grazie a Colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro” scrive Paolo, quasi volendo coinvolgere il lettore in questo inno di lode, che rende solenne il suo dire e polarizza l’attenzione su Cristo. L’Apostolo sente nel cuore il desiderio ed il bisogno di ringraziare, di rivolgersi al Signore, con animo grato, rileggendo, con gli occhi della fede, la sua vita e ripercorrendo il cammino compiuto, sotto la potente mano di Dio, che non abbandona quanti si lasciano guidare dalla sua volontà. Può lodare il Signore, rispondendo all’invito del salmista – “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome. Ho cercato il Signore: mi ha risposto e da ogni paura mi ha liberato” (Sal 34,4-5) – l’uomo che, consapevole della propria creaturale debolezza, del limite che lo costituisce e della precarietà che scandisce la sua storia, ha sperimentato la potenza della grazia e la forza risanatrice dell’amore divino. È l’amore sperimentato il motore della lode, la ragione del sorriso, il motivo del canto, l’occasione della gioia. Paolo sente insopprimibile in sé il desiderio di parlare di ciò che il Signore ha compiuto nella sua vita, così che riaffermi con forza, quanto ha già detto alla comunità di Corinto: “Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio e non viene da noi” (2Cor 4,7), perché si realizzi quando afferma la Scrittura “Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria, per il tuo amore, per la tua fedeltà” (Sal 115,1). In tal modo, l’Apostolo ringrazia Dio, ma non rivolgendosi direttamente a Lui, quando descrivendo il rendimento di lode che scandisce la sua vita, perché, raccontandolo a Timoteo, possa mostrargli la via che Dio gli ha fatto percorrere e che attende di essere da tutti i credenti battuta. È come se Paolo descrivesse al suo fidato collaboratore la preghiera che rivolge al Signore, per tutti i benefici che ha ricevuto, perché solo chi riconosce umilmente di essere stato beneficato, può vivere con un senso di riconoscenza, che diviene memoria grata del bene che gli è stato fatto e le cui conseguenze hanno irreversibilmente mutato il corso della sua vita.

Raccontandosi al suo discepolo Timoteo, Paolo riconosce che il Signore Gesù Cristo è la sorgente della sua forza e della grazia dell’apostolato, che svolge tra le genti. Per questo può scrivere, parlando di Gesù Cristo “mi ha reso forte … mi ha reso degno di fiducia, mettendo al suo servizio me”. Si tratta di due momenti direttamente collegati, il secondo consequenziale al primo, perché Dio, prima elargisce la sua grazia e poi affida la missione, che consiste nel far fiorire in noi le capacità che Egli ci ha in precedenza elargito, per la realizzazione della sua volontà. Dobbiamo sempre vedere la circolarità tra grazia e missione, perché i talenti del Padrone sono a noi affidati, perché vengano fatti fruttificare, non perché vengano sotterrati. Paolo, che sulla via di Damasco, aveva fatto l’esperienza della debolezza e della creaturalità, si rende conto che Cristo è forte, nell’amore e nel perdono, nella misericordia e nella bontà, la sua forza si rivela nella Pasqua, la potenza del Risorto, nel dono dello Spirito che elargisce ai suoi. Chi ha sperimentato la presenza di Dio, nella propria vita, può dire “Ti amo, Signore, mia forza, Signore mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo” (Sal 18, 2-3) e ancora “Il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve, sulle mie alture mi fa camminare” (Ab 3,19). Poiché “quanti sperano nel Signore riacquistano forza” (Is 40,31), siamo chiamati come Elia a riprendere il cammino, rifocillati dal cibo di Dio. La forza che Cristo ci dona è il suo amore, la potenza dello Spirito che ci consacra ed invia in missione.

Leggendo quanto l’Apostolo indirizza a Timoteo, siamo chiamati ad esaminarci sulla nostra capacità non solo di ringraziare, ma di raccontare il nostro rapporto con Gesù Cristo, descrivendo agli altri la nostra amicizia con il Maestro, non per un desiderio di ostentazione o per spingere gli altri ad emularci, quanto del manifestare, con tutta umiltà, l’opera di Dio in noi. Dire la verità di quanto il Signore compie significa testimoniare il primato suo nella nostra vita, indirettamente spingendo gli altri a vivere di Dio, come noi, con la sua grazia, cerchiamo di fare ogni giorno. È naturale, per una famiglia cristiane e per degli sposi che hanno consacrato la loro vita, nel reciproco amore, parlare del proprio mondo interiore, manifestarne i dinamismi, rivelarne la bellezza, condividerne le difficoltà, lasciarsi aiutare ed illuminare, nelle situazioni più diverse della propria vita, dalla persona che mi è accanto. Paolo descrive a Timoteo, senza nascondere nulla, ciò che passa tra lui e Gesù, sente il desiderio di condividere la ricchezza che Dio ha messo nel cuore, l’esperienza, talvolta anche dolorosa, che lo porta a maturare, nel cammino della sequela. Paolo sperimenta che Gesù ha avuto fiducia in lui, affidandogli una missione, così come ripone fiducia in noi, affidandoci la sua grazia e chiedendoci di gettare le reti, sulla sua parola, che apre strade nuove, nel cammino della vita. Amare una persona significa dare fiducia, affidargli incarichi importanti, mettere nelle sue mani potenzialità grandi. La Parola di Dio ci chiede di ripensare al binomio amore- fiducia, nel rapporto di coppia, nella relazione con i figli, nei rapporti con le persone, che consideriamo parte di noi e della nostra vita.

Conosciamo veramente noi stessi?

Quando si parla o si scrive ad una persona, a cui si è legati per affetto e per stima, non si ha minimamente paura di aprire il cuore e di rivelare i segreti del proprio animo. In questi casi, non si hanno remore o vergogna di farsi vedere con tutta verità, gettando le maschere, che spesso si indossano per essere perfetti e comparire giusti, dinanzi a se stessi, a Dio e agli altri. Paolo non ha paura di raccontarsi dinanzi ad un discepolo, né teme di rovinare l’immagine che Timoteo ha del suo maestro, dentro di sé. Dire la verità non deve mai far paura, perché chi ci vuol bene è chiamato ad accoglierci così come siamo, non come la mente ed il cuore suo si attende e ci immagina. È importante accogliersi e volersi bene con tutta semplicità e che i nostri rapporti siamo costruiti vincendo ogni bugia ed il desiderio di piegare l’altro alle nostre attese. Non devo, infatti, realizzare l’immagine che la persona accanto a me si è figurata, né perseguire l’ideale che l’altro pretende di raggiungere. I nostri rapporti devono partire da quello che siamo, senza finzioni, pur se devono tendere alto e realizzare il sogno di Dio su di noi. Paolo sa bene questo ed indirettamente spinge Timoteo a non fare del suo maestro un idolo o un eroe irraggiungibile, vedendo in lui una persona raggiunta dalla grazia trasformata dall’amore di Dio. Ecco perché si può definire “un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia” (v. 13), prima dell’incontro con Cristo e con la potenza della sua misericordia. Dire la verità all’altro è il segno che si è stati già capaci di dirla a se stessi, vincendo la paura, per amore di verità, superando la vergogna, in nome della realtà, non scappando dinanzi alla propria storia, dove le tenebre sono il preludio di una luce, che solo Cristo può donare, se lo accogliamo come Signore e gli permettiamo di essere il nostro Salvatore.

Essere consapevoli che quello che si è rappresenta il primo passo per diventare maturi nella fede e adulti nella vita. Non serve, infatti, nascondere i propri errori o gettare nel dimenticatoio situazioni spiacevoli, amicizie fallimentari, sbagli, le cui conseguenze ancora pesano. Non serve credere che tutto è passato e che bisogna solo voltare pagina, perché le situazioni che non vogliamo guardare in faccia ci rincorrono, come capitò a Cleopa ad al suo compagno, sulla strada verso Emmaus e neppure possiamo chiedere a Dio che copra con il candore della sua misericordia la porpora dei nostri misfatti, senza che si realizzi quella trasformazione che il profeta Isaia promette: “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero come porpora, diventeranno come lana” (Is 1,17-18). La trasformazione che Dio opera in noi e contro la quale noi remiamo, perché la superbia ci porta a voler meritare il perdono, non ad accogliere con gratuità, prende il nome di riconciliazione. Dio Padre mi perdona, venendomi incontro nel suo Figlio Gesù, ed il suo perdonarmi opera la riconciliazione, ovvero abbatte ogni muro di divisione e ristabilisce la pace (cf. Ef 2,14). A che serve un perdono che non ricrei le condizioni primordiali, rovinate dal peccato? Dio Padre ci perdona, riconciliandoci con sé, introducendoci nuovamente nella sua casa, facendoci partecipare ai suoi beni, permettendoci di godere del suo amore, che non fa calcoli, della sua grazia che tutti accoglie, senza misura. Paolo confida a Timoteo di aver sperimentato sulla propria carne la verità che annuncia con le labbra. Se ai Corinzi aveva detto: Dio “ci ha riconciliati a sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione” (2Cor 5,18-19), ora esprime la sua gioia perché vive del perdono ricevuto e sente in se stesso il frutto della riconciliazione operata da Cristo, con il sacrificio della sua croce. Dio, perdonandoci, ci riconcilia, ovvero stringe nuovamente amicizia con noi, “annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario” (Col 2,14), perché per Lui perdonare è condonare ogni peccato, annullare ogni debito, trasformare in luce ogni tenebra. L’uomo, però, come Paolo, dovrà sempre ricordare di essere un peccatore perdonato, un naufrago salvatore, un morto ritornato in vita, perché la memoria grata della salvezza gratuitamente offerta da Dio alimenta, da un lato, la lode ed il ringraziamento, perché il Padre celeste, in Cristo Gesù, dalle tenebre ci ha chiamati alla sua luce meravigliosa (cf. 1Pt 2,9), dall’altro un sano realismo, perché viviamo nel dono e siamo chiamati a mettere a frutto la grazia del perdono e della riconciliazione, manifestando, con una condotta di vita santa, di essere stati toccati, come la fanciulla dodicenne, dalla mano di Cristo (cf. Mc 5,41), richiamati in vita, al pari di Lazzaro (cf. Gv 11,43).

Paolo è consapevole che la sua trasformazione è opera di Dio, della misericordia. Lo afferma chiaramente scrivendo a Timoteo – “Mi è stata usata misericordia” (v. 13) – come anche agli Efesini: “Anche noi tutti, come loro [i pagani], un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri. Ma Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvi … Per grazia siete salvati mediante la fede; è ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene” (Ef 2,3-5. 8-9). Si tratta di una misericordia sovrabbondante, senza misura, sconfinata come il mare, la cui immensità l’occhio umano non può raccogliere, come la sabbia, i cui granelli non si possono contare. Dobbiamo arrenderci alla misericordia, lasciarci amare nel nostro peccato, raggiungere nel nostro errore, visitare dalla potenza guaritrice del Maestro. Solo Lui può risanarci, solo il suo amore riconciliarci. Per questo Paolo potrà scrivere a Timoteo “così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù” (v. 14). Cristo è venuto a donarci la vita “in abbondanza” (Gv 10,10), perche “Dalla sua pienezza tutti noi abbiamo ricevuto grazia su grazia” (Gv 1,16) e “In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversato su di noi con ogni sapienza ed intelligenza” (Ef 1,7-8). Anche Francesco d’Assisi, prima dell’abbraccio con Sorella Morte, confiderà ai suoi “Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro ed usai on essi misericordia” (Test 1-2: FF 110). La misericordia sperimentata genera nel Poverello la misericordia offerta ed il raccontare la carità suscitata nel cuore dalla grazia verso il fratello lebbroso è il segno, pur se non detto, dello Spirito che lentamente lavora nel cuore e lo converte.

Siamo chiamati a vivere della sovrabbondanza dell’amore di Dio per noi, compiendo, per la sola forza sua, il passaggio dal peccato alla grazia, gettando le maschere che ci portano a mostraci, falsamente, perfetti ed irreprensibili. Ciascuno di noi è un peccatore amato ed è inutile vestire i panni del figlio maggiore della parabola evangelica odierna. Tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare, pensieri e azioni contrarie alla volontà del Padre che devono essere gettati nel fuoco della misericordia di Dio. In quella fiamma – come scrive santa Teresa di Gesù Bambino – il nostro più grande peccato non è altro che una goccia d’acqua, in un braciere ardente.

Un annuncio che parte dalla vita

Il brano odierno, se nella prima parte presenta l’esperienza della misericordia, che Paolo ricorda e racconta a Timoteo (vv. 12-14), nella seconda (vv. 15-16), che precede la dossologia finale (v. 17), l’Apostolo propone quella parola “degna di fede e di essere accolta da tutti” (v. 15), che rappresenta l’annuncio della Chiesa ad ogni uomo: “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori” (v. 15), che richiama l’affermazione dello stesso Cristo, nella casa di Levi Matteo: “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 3,17). La nostra vita rivela la misericordia di Dio e nessuno può dire di non aver bisogno del perdono del Padre, visto che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (Rm 3,23-24). La nostra vita può divenire un esempio, come quella dell’Apostolo, se lasciamo trasparire l’amore di Dio che perdona, riconcilia ed offre possibilità sempre nuove di vita.




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