Realtà virtuali

Tablet, Facebook e il rumoroso silenzio dell’umanità: è questo il futuro delle nuove generazioni?

smarphone

di Valentina Cristiani

Sono stata in Africa e ancora oggi tutto quello che vedo mi riporta lì. Molti in quella terra non conoscono tablet o smartphone, non hanno profili social, giocano con le ciabatte e si divertono ancora a stare insieme. Non dovremmo forse guardare di più al loro esempio per restituire vita alla vita dei nostri figli?

Qualche giorno fa sono andata dal dottore per una visita. Sono arrivata con una mezz’ora di ritardo e ho perso il turno. La sala d’attesa era super affollata… sapevo che avrei dovuto aspettare tanto. Non c’erano giornali, né finestre per osservare la strada, così ho iniziato a guardarmi intorno cercando qualcosa di interessante per ingannare il tempo. 

Non ho potuto fare a meno di osservare la signora seduta di fronte a me, con lei c’erano le due figlie: la più piccola alla sua destra e l’altra, poco più grande, a sinistra. Erano lì tra tanta gente, ma sembravano completamente estranee a tutto ciò che accadeva intorno a loro. La piccola guardava video dal suo tablet (aveva le cuffie, ma il volume era così alto che potevo distinguere ogni parola che ascoltava), la signora era tutta presa dal suo cellulare (sembrava quasi ipnotizzata dallo schermo: scorreva la bacheca Facebook con un gesto quasi meccanico… in realtà non prestava neanche attenzione a quello che vedeva, ma continuava a farlo senza sosta) e l’altra figlia con minuziosa attenzione passava al setaccio le storie delle amiche su Instagram. Sembravano manichini senza vita. I loro sguardi erano assenti, vuoti. Non si sono rivolte uno sguardo, né un sorriso o una parola. Il loro silenzio faceva più rumore del chiacchiericcio degli altri pazienti che come me attendevano.  

Dopo circa 50 minuti di questo triste spettacolo, il dottore ha fatto il nome della signora: era il suo turno. Continuando a fissare il cellulare si è alzata, ha chiesto alle figlie: “Venite con me?” e senza attendere risposta ha raggiunto il dottore. Le bambine sono rimaste lì e, sono sicura, non si sono neanche accorte dell’assenza della madre. Ho provato dolore e, non lo nascondo, anche paura. È proprio questo il futuro che attende le nuove generazioni?

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Come spesso avviene in questi casi, mente e cuore sono tornati in Africa, alle mattine in cui andavo nelle classi della Maison de Rose a trovare quei pargoletti dal grembiulino rosa. Attendevano con trepidazione il mio arrivo manifestandomi la loro gioia con sorrisi raggianti. Quei bambini erano assetati d’amore, quell’amore che si nutre di affetto, di sorrisi e di attenzioni. A metà mattinata, insieme alle maestre, li portavo a giocare nello spazio adiacente all’asilo. Era per loro una festa. Erano liberi di correre e divertirsi, uno spettacolo meraviglioso da osservare. Si riunivano a gruppetti e giocavano senza litigare, rispettando ordinatamente la fila per salire sullo scivolo o sull’altalena. L’altalena non era altro che il copertone della gomma di un’auto legata al ramo di un albero da una corda. C’era un contenitore con tantissimi giochi, ma a loro sembrava non interessare molto… probabilmente a casa di giochi non ne avevano, per questo non sapevano neanche come utilizzarli. Giocavano piuttosto con i rametti che raccoglievano a terra, o con le ciabatte. Sì… le loro ciabatte erano prima escavatori che smuovevano la sabbia e dopo camion trasportatori che raccoglievano quella sabbia e la portavano al cantiere dove qualcuno più ingegnoso cercava di tirare su un edificio da quella montagna di polvere che diventava sempre più alta. Insomma, a questi bambini mancava sapere cos’era un tablet, forse non ne avevano mai visto uno, ma di fantasia ne avevano da vendere. Alcuni ballavano, altri cantavano. Grida di gioia rallegravano quelle mattinate africane. Erano felici… ed io con loro! 

I “nostri” bambini dovrebbero imparare da loro a giocare, ad essere bambini! Potrebbero così riscoprire quella gioia e quella spensieratezza che stiamo loro negando risparmiandogli un giorno il rimpianto di un’infanzia mai vissuta. La mia nonna guardando le nuove generazioni diceva preoccupata: “Si stava meglio quando si stava peggio”. Ora comprendo pienamente il senso delle sue parole. Prima i bambini non erano sepolti dai giocattoli, non vivevano “realtà virtuali”, ma si incontravano in cortile e giocavano insieme, dialogavano, sviluppavano la fantasia e sapevano fare comunione. Non erano gli apparecchi elettronici il centro delle loro attenzioni, ma l’umanità dell’altro. La gioia non era nel possedere le cose, ma nello stare insieme, nello scoprire quanta ricchezza c’è nell’altro. Dovremmo tornare a quei tempi e restituire vita alla vita dei nostri bambini.

Ma mi rendo conto che oggi forse più che i figli dovremmo educare i genitori… 

Intanto quella signora, finita la visita, ha chiamato le figlie e, senza aggiungere altre parole, le ha tirate via. Probabilmente quelle bambine sanno fare una buona ricerca su Google e magari un giorno diventeranno assi dell’informatica, ma non sapranno mai che ai piedi hanno indossato molto più che ciabatte.

 




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