XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 29 settembre 2019

Combattiamo la buona battaglia della fede

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La fede è un combattimento, prima di tutto contro se stessi, perché il vero egoismo da vincere e ridurre all’impotenza è il nostro egoismo che, sotto l’istigazione della voce del serpente infernale, cerca di destabilizzare il progetto di Dio e allontanarci dalla promessa della comunione perfetta con Lui.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (6,11-16)
Conserva il comandamento fino alla manifestazione del Signore.
Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio,
il beato e unico Sovrano,
il Re dei re e Signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità
e abita una luce inaccessibile:
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre. Amen.

 

La fede in Dio deve sempre tradursi in carità operosa verso il prossimo: è questo l’insegnamento della liturgia della Parola di oggi, ventiseiesima Domenica del Tempo Ordinario. Attraverso i brani della Scrittura, la Chiesa vuole condurci a vivere la dinamica dell’Incarnazione, a rendere carne l’amore che lo Spirito riversa nel nostro cuore, per la trasformazione della storia in regno di Dio. Nel Vangelo (cf. Lc 16,19-31), il Signore Gesù continua ad ammaestrare i suoi e, attraverso la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone ci porta a riflettere sulla disuguaglianza, presenta nella società, per l’egoismo che consuma il cuore. Dio, che non sembra intervenire, si riserva il suo inappellabile giudizio dopo la morte, mostrando quanto sia importante ascoltare la testimonianza della Scrittura, per scegliere il bene e ascoltare il grido dei poveri. La Prima Lettura, anche questa domenica, ci offre un brano del profeta Amos (6,1a. 4-7). La sua parola colpisce l’indifferenza dei potenti e dei ricchi, che “distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa”. La rovina giungerà pochi decenni dopo (722 a.C.), con la caduta di Israele nelle mani dell’Assiria. La punizione di Dio – come viene compresa e vissuta dall’uomo – non è altro che la diretta conseguenza delle sue scelte sbagliate. L’esortazione che Paolo rivolge a Timoteo, nella Seconda Lettura (cf. 1Tm 6,11-16), all’interno della liturgia odierna, mostra quanto sia importanti essere docili alle indicazioni che ci vengono offerte, per camminare secondo Dio, nella giustizia e nella pietà.

Apparteniamo a Dio

Siamo alle battute finali della prima epistola a Timoteo. Se prima, come si è avuto modo di vedere nelle scorse domeniche, il tono usato dall’Apostolo, nello scrivere, era stato pacato ed amichevole, ora che si avvicina alla conclusione della lettera ed è prossimo ai saluti finali, le parolemostrano ancor di più la sua affabile paternità e la sua tenera fiducia in Timoteo. L’Apostolo vorrebbe prepararlo ad ogni difficoltà, per questo, prima di congedarsi da lui, gli raccomanda ciò che è utile sapere, per vivere al meglio il ministero pastorale.
La prima cosa che notiamo, nell’incipit del brano liturgico odierno, è l’espressione “Tu, uomo di Dio” (v. 11). È normale che l’Apostolo parli in secondo persona, visto che sta scrivendo non per una comunità, ma ad uno dei suoi più fidati collaboratori. L’appellativo che gli rivolge “uomo di Dio” dice tanto del cammino che Timoteo ha compiuto, alla scuola dell’Apostolo, come anche del modo in cui Paolo lo guarda e lo considera, per la fede in Cristo ed il cammino che ha intrapreso, sotto la sua sapiente guida. L’espressione, ampiamente attestata nell’Antico Testamento – si pensi ad Elia ed Eliseo – mostra un rapporto di intima amicizia con Dio, che gli altri percepiscono, dalla parola e dalle scelte, oltre che dai gesti. La vita di chi cammina con il Signore è plasmata dalla familiarità con Lui e all’esterno traspare la ricchezza interiore, che Dio condivide con i suoi amici. È l’esperienza della vedova in Sarepta di Sidone. Dopo che il profeta Elia resuscita suo figlio, esclama: “Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità” (1Re 17,24).Non si nasce uomini di Dio, ma lo si diventa per la fede, per l’assenso della volontà e dell’intelligenza al Signore, per la confidenza e la fiducia che si ripone in Lui, per le battaglie condivise, i silenzi offerti, le sofferenze e le umiliazioni consegnate con gioia e vissute con abbandono. È la vita che ti modella uomo e donna di Dio, la quotidianità ti chiede di fidarti del Signore, perché l’abbandono e l’umiltà, la consegna e l’umiliazione sono i nomi diversi di quell’unica strada che è Gesù Cristo. Egli è la via, in Lui solo noi abbiamo vita e salvezza. Ogni discepolo, per aver risposto alla chiamata, vive nella sequela e cammina dietro a Gesù Cristo. La sua vita non appartiene più a se stesso, ma, nella fede, vive per Dio, a Lui consegna la sua storia, nelle sue mani pone ogni sua scelta. Per questo l’Apostolo può dire: “Questa vita, che vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).

Noi tutti riceviamo da Dio la vita naturale, ma è necessario che questo legame creaturale diventi più saldo, con una consapevole scelta. Devo scegliere Dio nella mia vita, perché Gesù mi guarda e mi chiama, come un giorno Levi Matteo, al banco delle imposte (cf. Lc 5,27-28). “Il Maestro è qui e ti chiama” (Gv 11,28) disse Marta rivolgendosi a Maria, sua sorella e questo vale per ciascuno di noi. Dio aspetta proprio me. Il Figlio di Dio si è fatto uomo per raggiungermi, ha preso un corpo come me, per entrare nell’orizzonte della mia storia e donarmi la vita. Sono uomo di Dio, se accolgo Gesù nella mia vita, se rispondo al suo amore, se non passo dall’altra parte, come il levita ed il sacerdote, quando un fratello è bisognoso di aiuto e riconosco nel suo volto sfigurato, quello del Signore crocifisso e sento nel cuore la sua voce “l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Abbiamo una idea troppo sacrale dell’espressione “uomo di Dio”, come se si appartenesse a Lui solo nella vita di preghiera, nella partecipazione ai sacramenti, nella vita interiore, che spesso scade in egoistico intimismo. È importante e imprescindibile curare la relazione con Dio, nella preghiera, ma non basta per dirsi cristiani. La fede deve diventare vita, l’amore concreto, la carità operosa, la gioia del Vangelo esprimersi nella storia, per costruire una società nuova, che ha Cristo come sorgente e forza, compagno ed amico, cammino e compimento della vita. L’uomo che sceglie Dio è di Dio, appartiene a Lui, cerca di rifuggire il peccato che lo allontana dal suo Signore, combatte la battaglia delle fede, per camminare sulla strada tracciata da Cristo. L’uomo di Dio ama la giustizia, combatte per i poveri, difende i diritti dei deboli, prega sì, ma per ricevere la forza di impegnarsi nel mondo, di trasformare la storia, con la forza che il Signore riversa nel suo cuore, nel silenzio, di attirare i fratelli alla fonte della gioia vera, la croce di Gesù, dove l’amore è vero perché è senza sconti si profonde totalmente nel dono.

Dobbiamo educarci, in famiglia ed in comunità, ad essere di Dio, ad appartenere a Lui, a comprendere che in tutto quello che facciamo siamo suoi, che ogni nostro pensiero, spasimo, anelito, azione, tutto in noi può e deve manifestare l’amore che Dio mette in noi, la fede nostra in Lui, come capacità di vivere ogni cosa, sapendo che il Signore non è estraneo alle nostre gioie, non è lontano dai nostri dolori. Per questo l’Apostolo può dire “Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini” (Col 3,23). Essere uomini e donne di Dio è un programma di vita, un impegno quotidiano, un’avventura continua, una gioia crescente, perché comporta guardare verso Gesù, Lui ci insegna ad appartenere a Dio e a testimoniare tra gli uomini il suo primato di amore.

Evitare il male e fare il bene

Appartenere a Dio ci porta in uno stato di continuo discernimento, perché non è semplice comprendere e perseguire la volontà di Dio, uniformandosi in tutto a ciò che il Padre desidera per noi. Per questo l’Apostolo chiede a Timoteo: “evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza” (v. 11). Bisogna evitarela tentazione della ricchezza “radice di tutti i mali” (1Tm 6,10) – lo comprendiamo, leggendo quanto Paolo scriveva prima – ma questo non basta, perché oltre a scongiurare il male, è necessario operare il bene, trasformare il bene in meglio ed il meglio in ottimo. Una vita cristiana che si combatte solo in ritirata non vale la pena di essere vissuta. È, infatti, necessario giocare in attacco, non solo in difesa, perché bisogna essere propositivi nell’annuncio del Vangelo e nella vita cristiana in genere. Non si può vivere nella paura delle tante cose che ci fanno male e ci conducono fuori strada, ma è bene spendere le proprie energie in programmi belli, sogni grandi, disegni che allargano la mente e fanno vibrare il cuore. Per questo Paolo, accanto alle cose da evitare, subito aggiunge il bene da perseguire. È significativo notare che i verbi utilizzati dall’Apostolo – fuggi e persegui, resi nella traduzione CEI con “evita … tendi” – mostrano un movimento che il cristiano deve attuare, nella sua vita. La fede, infatti, è movimento, non si può stare fermi, una volta che si è sperimentato la visita di Dio. Anche Maria, dopo l’annuncio di Gabriele, si mise in cammino ed in fretta raggiunse la casa di Zaccaria ed Elisabetta. Da un lato si fugge il male, evitando di restare imbrigliati nelle sue trappole, dall’altra si tende al raggiungimento del bene. È necessario, infatti, tendere “alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza”. Non dobbiamo mai perdere il mordente, mai scoraggiarsi, ma procedere, con la forza di Dio, risoluti e saldi, sulla via di Dio. Le virtù che l’Apostolo chiede a Timoteo di perseguire sono ciò che rifulge nella Pasqua di Gesù. È Lui, infatti, il giusto perseguitato, l’uomo pio, che ricerca di essere il diletto del Padre, la carità di Dio fatta carne, l’agnello mansueto, l’uomo dei dolori che è paziente nel soffrire. Timoteo deve ripercorrere la stessa strada di Cristo, se vuol essere segno del buon Pastore. Perché i lineamenti e i sentimenti del Maestro rivivano in Lui, non deve allontanarsi dalla fonte, ma bere alla fonte cristallina della vita.

Dobbiamo recuperare, nella formazione umana e cristiana, la via delle virtù e la pratica dell’ascesi per evitare i vizi. Non si può parlare di vita interiore, se viene a mancare il rinnegamento di se stessi e della propria volontà. Potrebbe sembrare questo un discorso d’altri tempi, ma il Vangelo è sempre attuale, anche se determinati discorsi perdono di moda e cadono nel dimenticatoio. In nome di una visione eccessivamente positiva dell’uomo, che misconosce le sue tendenze al male e la concupiscenza che dentro lo consuma, portati a parlare in termini di realizzazione personale, di affermazione di se stessi, non ci rendiamo conto che, talvolta, queste espressione sono come dei cavalli di Troia, nascondono all’interno grandi tranelli. “Tutto è lecito – scrive l’Apostolo – Sì, ma non tutto mi giova” (1Cor 6,12). La virtù ci realizza, mentre il vizio ci perverte. È importante chiamare le cose per nome, perché solo se si conosce il nemico, lo si può affrontare e ricacciare, con la forza di Dio. Non c’è realizzazione, fuori dalla volontà di Dio, che risplende in Cristo; non esiste affermazione di se stessi, senza il rinnegamento della nostra somiglianza con l’Adamo ribelle, che vive in noi e ci porta ad allontanarci da Dio, convinto che, estromettendo Lui dalla nostra vita, potremo essere dio di noi stessi. Il buonismo ci porta a dire “Che vuoi che sia?”, a misconoscere le cose, con una semplice affermazione del tipo “che può fare?”. Dobbiamo conoscere i nostri talloni di Achille ed evitare occasioni che ci possono portare verso la rovina. Paolo ravvisa un pericolo nell’orgoglio e nell’invidia, nelle contese e nelle maldicenze (cf. 1Tm 6,4ss), ma sa bene che solo chi evita il male e si incammina sulla strada del bene, può sperare di raggiungere la meta.

Perché non riproporre la strada della virtù ai nostri giovani? Perché non perseguire la via di Cristo, nelle differenti chiamate che il Signore ci rivolge? È così difficile lasciare che lo Spirito in noi renda la nostra esistenza come quella di Cristo? Essere virtuosi, infatti, significa vivere la stessa vita del Risorto, far spazio al suo Spirito, che ci fa vivere come Lui, non evitando le tentazioni, ma superandole, con la grazia di Dio, mai confidando nelle nostre forze, ma riponendo in Cristo ogni speranza e da Lui aspettando ogni aiuto. Al pari di Paolo, non dobbiamo aver paura di andare contro corrente. Dobbiamo educarci ed educare all’impegno politico, nella giustizia, che non sta nel trovare la via più opportuna o più semplice, ma quella che si addice a noi uomini, nel rispetto della nostra dignità di persone; educarci ed educare alla pietà autentica, che sta nell’obbedienza a Dio, nel pieno abbandono al suo volere (cf. Eb 5,7ss), alla fede, che consiste nell’accogliere Dio e nell’acconsentire a ciò che Egli ci indica come strada da perseguire. Attuare la pazienza e vivere la mitezza è possibile solo lasciando che lo Spirito ci comunica la vita del mitissimo Agnello, che condotto al macello non aprì la sua bocca e che, sull’altare della croce, si offrì vittima di salvezza, per tutti gli uomini.

La vita una battaglia, avendo Cristo come alleato

Procedendo nella lettura del brano, ci accorgiamo di quanto la prosa di Paolo a Timoteo sia incalzante e lo stile crescente. Le argomentazioni, infatti, divengono sempre più forti e le richieste impegnative, per chi, oltre ad interiorizzare e vivere le indicazioni offerte, è anche chiamato a trasmettere agli altri. La vita è un combattimento per tutti, soprattutto per chi segue Gesù Cristo, il crocifisso risorto. Per questo l’Apostolo scrive “Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni” (v. 12). Più volte, nell’epistolario paolino ci si imbatte in termini militari. Nella Seconda Corinzi leggiamo “In realtà, noi viviamo nella carne, ma non combattiamo secondo criteri umani. Infatti, le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno la Dio la potenza di abbattere le fortezze” (2Cor 10,3), mentre a Timoteo già aveva detto “noi ci affatichiamo e combattiamo, perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1Tm 1,4). Proprio perché siamo in una continua lotta, “vestiti con la corazza della fede e della carità” (1Ts 5,8), è bene prendere “anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio” (Ef 6,17). Definire la vita un combattimento è il frutto dell’osservazione della fatica quotidiana di ogni uomo. Per questo Giobbe può affermare “L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario” (Gb 7,1) ed il salmista può rivolgersi a Dio, dicendo “impugna la lancia e scure contro chi mi insegua; dimmi. Sono io la tua salvezza” (Sal 35,3). Sempre a Timoteo Paolo si esprimerà, parlando di se stesso “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4,7).

Siamo chiamati a combattere, fino all’ultimo colpo, con coraggio e determinazione, con impegno e forza. La fede è un combattimento, prima di tutto contro se stessi, perché il vero egoismo da vincere e ridurre all’impotenza è il nostro egoismo che, sotto l’istigazione della voce del serpente infernale, cerca di destabilizzare il progetto di Dio e allontanarci dalla promessa della comunione perfetta con Lui. L’Apostolo può dire “Combatti la buona battaglia della fede”, perché egli per primo vive la lotta, se ai Corinzi confida “Da quando siamo venuti in Macedonia, il nostro corpo non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, dolori all’interno” (2Cor 7,5). Può sostenere la lotta dei fratelli, al pari di Mosè, alzando le mani, perché combattendo nella pianura, la preghiera li sostenga e la testimonianza li incoraggi a non desistere solo chi vive in prima persona il difficile conflitto ed è disciplinato in tutto. “Io dunque corro – scrive Paolo – ma non come chi è senza meta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco a schiavitù, perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io stesso venga squalificato” (1Cor 9,27). Non basta essere maestri con la parola, è necessario essere testimoni con la vita. Per questo Paolo è credibile ed il suo insegnamento fa breccia nella mente e nel cuore di Timoteo. È sì una lotta la nostra, ma mossi dalla fede noi ci corazziamo e combattiamo, perché “La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abita nelle regioni celesti” (Ef 6,12). Da questo ci rendiamo conto che è tutt’altro che semplice la lotta: Per questo dobbiamo chiedere a Dio la sua grazia, così da poter dire come l’Apostolo “mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Col 1,29).

Dobbiamo imparare a combattere e soprattutto a ricordare le nostre battaglie, quando parliamo agli altri, soprattutto ai figli. Gli insegnamenti che ricevono non devono essere staccati dalla nostra esperienza, perché solo chi è passato nel crogiolo, oltre a conoscere bene le trappole del cammino di maturazione, vede nell’altro l’inesperienza che spesso spinge a cedere. Se gli educatori si rivedessero nei giovani che hanno dinanzi! Se nell’altro riuscissimo a percepire le tappe già superate del cammino! Non possiamo guardare gli altri dall’alto delle nostre conquiste – ammesso che ci siamo delle conquiste! – ma è necessario comprendere che siamo tutti nella stessa barca, tutti siamo deboli ed incostanti e la nostra barca, stando a mare, conosce la bonaccia, solo se c’è Gesù e può toccare la riva, solo se il Maestro è con noi. Non dobbiamo scoraggiare i giovani, dinanzi alle esigenze grandi della vita cristiana, ma accompagnarli, perché tutti abbiamo bisogno di essere amati e custoditi, ascoltati e accompagnati, guidati ed accolti. Ciascuno di noi, in famiglia ed in comunità, va guidato al combattimento, addestrato alla lotta, curato, nelle sconfitte, medicato nelle cadute, rifocillato, nella convalescenza, incoraggiato ad impegnare di nuovo la spada, a credere in se stesso, considerando il nemico mai superiore alla forze che il Signore corrobora e sostiene con la sua grazia. Siamo chiamati a conquistare la meta, ma perdere una battaglia non compromette la vittoria nella guerra. Nulla è perduto, se Cristo cammina con noi, se è Lui alla testa del nostro esercito, se addestra le mani alla guerra, le dita alla battaglia (cf. Sal 18,35).

Guadare avanti con speranza

È Dio che dona la vita in Cristo Gesù. A noi spetta custodire il suo dono e camminare nelle fede e nella speranza, verso il Regno dei cieli. Paolo desidera che Timoteo abbia sempre dinanzi agli occhi il mistero della fede che è chiamato a vivere e a testimoniare. Per questo, con l’autorità che ha ricevuto da Dio – autorità che non è esercizio dispotico del potere, ma servizio di amore verso i fratelli – ordina “di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (v. 14). La fede è un dono da vivere, custodendolo e da custodire, facendo vivere in noi e tra noi. Non cambia, secondo le mode del tempo, perché il Credo è sempre uguale, basato sulla rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Possono cambiare le modalità per vivere la fede, ma non la verità che è e resta Gesù Cristo. Il progresso nella vita di fede riguarda la comprensione del mistero di Dio, non il portare il passo con i tempi e adeguarsi al sentire comune, perché lo Spirito Santo guida la Chiesa a una maggiore penetrazione del Vangelo, per rispondere alle sfide della storia. Le forme della fede possono anche mutare, ma non “il bene prezioso che ti è stato affidato” (1Tm 2,14). La dignità e la sacralità della vita, l’indissolubilità del vincolo nuziale, la difesa del diritto dei poveri, la sollecitudine per i bisognosi e le persone vulnerabili, la cura della casa comune sono parte di quell’unico progetto che l’uomo è chiamato a custodire, collaborando all’opera del Creatore, con amore maturo e cura responsabile.




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