XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C 13 ottobre 2019

“Ricordati di Gesù Cristo”

Croce

Ripetere “ricordati di Gesù Cristo” cos’altro significa, se non metti Dio al centro del tuo cuore, rendi Cristo parte della tua vita, domanda a Lui la forza nel parlare, energie nuove per agire in bene, coraggio vivo nel superare le avversità e le incomprensioni dei rapporti? Sarebbe bello dire ad un figlio, mentre esce “ricordati di Gesù Cristo”, quasi a raccomandargli di sentirlo amico e compagno, di fare tutto con Lui e di non lasciarlo in un angolo del cuore ad attendere un gesto di attenzione che non verrà.

Dalla Seconda Lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (2,8-13)
Se perseveriamo, con lui anche regneremo.
Figlio mio,
ricòrdati di Gesù Cristo,
risorto dai morti,
discendente di Davide,
come io annuncio nel mio vangelo,
per il quale soffro
fino a portare le catene come un malfattore.
Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.
Questa parola è degna di fede:
Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;
se perseveriamo, con lui anche regneremo;
se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà;
se siamo infedeli, lui rimane fedele,
perché non può rinnegare se stesso.

 

La liturgia della Parola di oggi intreccia due tematiche, il primo la guarigione che Dio opera con potenza, il secondo la gratitudine, che l’uomo sente, per la salvezza donatagli gratuitamente. Così accadde nel racconto del Secondo Libro dei Re, che leggiamo oggi come Prima Lettura (cf. 2Re 5,14-17). Naaman, comandante dell’esercito del re di Aram, è lebbroso e, venuto a sapere che in Israele c’è un uomo di Dio, è inviato dal suo signore per essere guarito. Eliseo, senza neppure accoglierlo, lo fa immergere nell’acqua del Giordano sette volte e la sua carne diventa come quella di un giovinetto. A nulla valgono le richieste di Naaman, perché Eliseo accetti i suoi doni. La terra d’Israele che egli porterà nella sua patria sarà il segno della benedizione accordata da Dio ad Abramo e alla sua discendenza, di cui ha fatto esperienza. Nel Vangelo (cf. Lc 17,11-19) è Gesù che, con la sua parola, guarisce dieci lebbrosi che lo supplicano, comandandogli di andare a presentarsi al sacerdote. Sanati lungo il cammino, solo uno di loro torna da Gesù per ringraziarlo. Nella Seconda Lettura (cf. 2Tm 2,8-13), l’apostolo Paolo mostra le sue catene come la prova del ministero vissuto, guardando sempre fisso la Pasqua di Gesù.
Anche noi, ogni domenica, siamo toccati dalla potenza della Parola di Cristo, che risana il nostro cuore (Vangelo) e non abbiamo più bisogno di portare con noi nulla, come invece fece Naaman (Prima Lettura), perché Gesù è la nostra terra promessa, la strada della salvezza su cui camminiamo. Grati per il dono ricevuto, non ci allontaniamo da Cristo Salvatore, per il quale accogliamo di buon grado ogni difficoltà (Seconda Lettura), per raggiungere con Lui la gloria.

Al centro sempre e solo Gesù Cristo

Il brano che la liturgia oggi ci dona, sempre attingendo, come la scorsa domenica, dalla Seconda Lettera a Timoteo, ha uno stile solenne ed incisivo. L’Apostolo, nell’esortare il suo discepolo, perché viva al meglio il ministero pastorale, fissa lo sguardo sulla Pasqua del Signore, che motiva e sostiene le difficoltà della vita e della predicazione apostolica. Egli scrive “ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore” (vv. 8-9). Paolo pone l’accento tanto sulla Pasqua di Gesù, quanto sul cammino di sequela che egli sta vivendo, alla scuola del Risorto, perché Timoteo possa indirettamente comprendere lo stretto rapporto che esiste e deve esistere tra Gesù Cristo, morto e risorto e l’evangelizzatore, chiamato a ripresentare la sua stessa dinamica pasquale e ad annunciare ai fratelli la parola di salvezza, che misteriosamente trasforma la propria vita.
L’imperativo – “ricordati di Gesù Cristo” (v. 8) – dimostra la responsabilità che Paolo vive nell’annunciare e vivere il Vangelo e la fiducia che Timoteo gli accorda, nel considerarsi suo discepolo e collaboratore, disposto di buon grado ad accogliere quanto gli viene detto. Egli sa di poter parlare da padre e maestro nella fede e non ha paura di essere deciso nell’indicare la via della salvezza a colui che Dio gli ha affidato. Quanta determinazione amorosa dovremmo imparare anche noi dall’Apostolo, quanto coraggio perché le nostre relazioni crescano in bene e si ricerchi, in un clima di fiducia e di stima reciproca, la strada del vero e del giusto. Non è un’imposizione quella di Paolo, ma un esortare con amore. Il suo è il tono accorato di chi ama e ricerca il bene, di chi desidera il meglio e lascia intravedere la strada da percorrere, la via da imboccare, il bello da perseguire, il bene da desiderare. Dice “ricordati di Gesù Cristo”, quasi facendo sintesi delle cose da tenere a mente, perché il mistero della Pasqua del Signore occupi il primo posto nel cuore e nella mente di ogni discepolo. Gesù è il Figlio di Dio per noi incarnato, morto e risorto. È questo che Timoteo deve ricordare, sempre e solo Gesù deve tenere ben fisso davanti a sé. Quante volte facciamo diventare la professione della nostra fede una serie di norme, una dottrina da imparare, un prontuario da rispettare. Dimentichiamo allora – di qui l’esortazione di Paolo “ricordati di Gesù Cristo” – il centro nevralgico della nostra vita, perché la fede è la nostra vita, la linfa che ci sostiene, l’energia che motiva il nostro impegno, la gioia che fa splendere di luce il nostro volto.
Perché non fare un serio esame di coscienza su come e quanto ricordiamo Gesù Cristo? Non è forse vero che trascuriamo Gesù, nelle nostre famiglie, dove spesso c’è tempo per tutto, tranne che per Lui e per incontrarci in Lui, pregando e ringraziandolo per i benefici che ogni giorno ci dona? E le nostre comunità, religiose e parrocchiali, come vivono la centralità di Cristo? Nell’ansia delle tante cose da fare, non capita di perdere l’amicizia con Gesù, l’intimità con il Signore, la gioia del trascorrere del tempo, ai piedi del Tabernacolo, in adorazione o in colloquio con Lui, che è sempre con noi, nel segno umile del pane e del vino? Gesù è il grande dimenticato, è il Signore, ma non trova spazio nella nostra vita, è il Redentore del mondo, ma, nel nostro mondo interiore, sembra non essere accolto. Si dimenticano solo le cose che non si amano o che si amano poco, quelle che non sono da noi considerate importanti: Cristo è veramente importante per me? Se lo dimentico, non è il Signore della mia vita! Se vivo, come se Lui non ci fosse, come posso dire che è il mio migliore amico, il mio Dio? Porsi queste domande non è poi tanto superfluo.

Quanto suona attuale il monito dell’Apostolo “ricordati di Gesù Cristo”. Dobbiamo tenerlo a mente, nelle relazioni familiari, perché avere il Signore come lampada, ci porta a guardare ogni cosa sotto la luce della sua misericordia e del suo perdono. Anche al popolo d’Israele era chiesto di ricordare i comandi del Signore e di legarli come un segno –“Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte” (Dt 6,6-9) – con la nuova alleanza, il credente tiene fisso lo sguardo su Gesù, “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,2). È Lui, infatti, che compie le antiche profezie e svela il volto del Padre. In ogni momento della nostra giornata, dovremmo dire al nostro cuore:“ricordati di Gesù Cristo”. Quando ci svegliamo al mattino ed in fretta iniziamo le nostre frenetiche giornate, dovremmo riuscire a fermarci, fosse anche sull’uscio di casa, per dire e noi stessi: “ricordati di Gesù Cristo”. Ripeterlo continuamente porta il nostro cuore ad una continua preghiera, a sentire il Signore parte integrante della vita, linfa della nostra esistenza, forza per superare ogni affanno. Ripetere “ricordati di Gesù Cristo” cos’altro significa, se non metti Dio al centro del tuo cuore, rendi Cristo parte della tua vita, domanda a Lui la forza nel parlare, energie nuove per agire in bene, coraggio vivo nel superare le avversità e le incomprensioni dei rapporti? A Dio nulla è impossibile, allora perché non invocarlo, perché non chiedergli di essere con noi, perché non dargli quello spazio che Egli ci chiede, visto che noi abbiamo pieno spazio, nel suo cuore? Sarebbe bello dire ad un figlio, mentre esce “ricordati di Gesù Cristo”, quasi a raccomandargli di sentirlo amico e compagno, di fare tutto con Lui e di non lasciarlo in un angolo del cuore ad attendere un gesto di attenzione che non verrà.

Al centro Cristo e Cristo crocifisso

Il Cristo che Paolo chiede di non dimenticare è “risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore” (vv. 8-9). Il cuore dell’annuncio cristiano è la resurrezione di Gesù dai morti e anche quando sembra che Paolo ponga la croce come momento centrale dell’esperienza cristiana (cf. 1Cor 1,18-31), in realtà ne parla sempre come parte integrante dell’unico evento salvifico, costituito dalla Pasqua. È la resurrezione di Cristo che ci rende cristiani, la fede nel Signore, passato dalla morte alla vita, a farci discepoli, partecipi della potenza dello Spirito, che ci fa vivere da risorti. Per questo l’Apostolo ai Corinzi può scrivere: “se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione, vuota anche la nostra fede” (1Cor 15,14). Tra le cose che consegna a Timoteo, c’è la Pasqua di Gesù Cristo, che è la prova della verità dell’annuncio evangelico, dell’autenticità della vita personale e del ministero apostolico, che si esercita, in nome e con l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo.

L’Apostolo sa bene che per la mentalità umana – lui parla dell’uomo carnale – non è semplice accogliere “la parola della croce” (1Cor 1,18) e “la parola della riconciliazione” (2Cor 5,19). Il Crocifisso è “scandalo e stoltezza” (1Cor 1,23) per coloro che non credono e rifiutano di accogliere il Golgota come strada della gioia, la porta stretta della morte per amore come il passaggio obbligatorio per trovare in abbondanza la vita. Anche noi abbiamo sulle labbra la Pasqua di Gesù, professiamo la nostra fede in Lui, morto e risorto per noi, ma quando si tratta di bere il calice della volontà del Padre e di consegnarci totalmente nelle sue mani, come Pietro rinneghiamo il Maestro, come il profeta Giona, scappiamo, inorriditi della parola che il Signore ci ha rivolto, perché diventi per noi vita e annuncio di salvezza. La croce fa paura ed il crocifisso mette orrore, ma il credente sa per fede che “dobbiamo entrare nel regno di Dio, attraverso grandi tribolazioni” (At 14,22). Dio conosce le nostre infedeltà e comprende la nostra pochezza. Colui che ha chiesto a Pietro di perdonare i fratelli settanta volte sette è sempre ben disposto ad usarci misericordia, se noi, pentiti, ritorniamo a Lui, con cuore sincero e confidente. Anche i discepoli, continuamente condotti per mano da Gesù, ad accogliere la croce e a non scappare davanti al Golgota, che si presentava dinanzi a loro, hanno sentito scandalo ed orrore. Dopo esserci ravveduti, hanno però lasciato allo Spirito Santo di trasformali in creature nuove, sostenendo il loro cammino di conversione. Paolo, chiedendo a Timoteo di ricordare la Pasqua di Gesù, gli chiede di interiorizzare il mistero della fede che professa, di vivere la grazia della Pasqua del Signore, in cui crede, di lasciarsi portare, nelle difficoltà, dallo Spirito del Signore e di sapere che non è solo nel vivere la croce, perché altri gli sono compagni e condividono le sue stese difficoltà nel ministero apostolico. I passaggi che indica servono all’Apostolo per indicare la storicità di Gesù Cristo, la greppia e la croce sono il segno eloquente della presenza di Dio nella nostra vita e del suo desiderio di farsi carico della nostra povertà, della storia nostra, contraddistinta da luci ed ombre. Scrivendo “Gesù risorto dai morti, discendente di Davide” (v. 8), Paolo vuol mostrare che il Signore non è un fantasma, che il cristianesimo non è una finzione, che la fede non è un’invenzione, ma tutto è ben radicato nella storia, che il Verbo ha assunto, facendosi uomo, entrando nella discendenza di Davide. La fede, infatti, è concretezza, è basata su fatti storici, su eventi verificabili, sulla vita dell’uomo, visitata dalla potenza di Dio, che abita in Cristo. È quanto l’Apostolo scrive anche ai Romani “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della resurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore” (Rm 1,1-4).

È importante richiamare la storicità dell’Incarnazione e della Passione di Gesù, considerare e ricordare la sua Resurrezione, perché questo significa dare fondamento al nostro annuncio e speranza alla nostra fede nella resurrezione futura, che riguarderà anche noi. Il cristianesimo non è una dottrina, anche se la comporta, ha una filosofia, senza che per questo possa identificarsi con essa, annovera una serie di norme morali, ma non è una morale. Se diventa ciò che non è – una filosofia, una dottrina, una morale – è perché abbiamo perso il criterio dell’Incarnazione e della Pasqua di Gesù. Il cristianesimo è una persona, Gesù Cristo, il Risorto, il vivente nella Chiesa, che è il suo vero Corpo e misteriosamente presente nella storia degli uomini.

Non possiamo perdere il centro della nostra fede, il nostro annuncio è Gesù Cristo – stiamo vivendo, in questi giorni, il Sinodo sull’Amazzonia, un tempo di grazia perché tutta la Chiesa riscopra la dimensione missionaria della fede che professa – e confrontarsi con Lui, che è il Risorto, ci porta a guardare diversamente la nostra vita, nelle gioie e nei dolori che la costituiscono. Difatti, il Golgota è un passaggio obbligatorio per tutti, credenti e non credenti, perché la sofferenza e la morte fanno parte dell’esperienza umana. Ciò che cambia per il cristiano è il modo con cui si affrontano le situazioni della vita e si contempla, oltre l’orizzonte, la presenza di Dio, che mai ci abbandona, come non ha abbandonato il suo Figlio Gesù. Difatti, chi crede nel Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto per noi, ottiene la vita eterna, nel suo nome e partecipa ai fratelli i frutti della redenzione, la carità, il perdono dei peccati, la misericordia, come possibilità offerta per ricominciare. È nella Pasqua che noi comprendiamo il senso della vita di Gesù e della nostra vita; dalla Pasqua impariamo ad accogliere il nostro Calvario, senza ribellarci, ad offrire il nostro soffrire, senza lamentarci, a fare della nostra vita un dono a Dio e ai fratelli, senza nulla attendersi, come contraccambio. Non possiamo togliere all’annuncio cristiano la stoltezza della croce, lo scandalo del Crocifisso, ma siamo chiamati a confrontarci con il mistero della morte di Gesù, sapendo che l’amore del Padre strappa dagli inferi il Figlio obbediente, fino alla morte.

Una vita crocifissa annuncia la Pasqua d Gesù

Un discorso che voglia essere autenticamente cristiano, finalizzato a far crescere nella fede e nella relazione amorosa del Signore, deve avere i caratteri della croce, per questa la parola e la vita di chi annuncia il Vangelo deve essere crocifissa. Se il cristianesimo è la presenza di Gesù Cristo, la sua Persona, viva e vera nella nostra storia, anche la parola dell’evangelizzatore deve testimoniare questa concretezza e vivere l’incarnazione e la passione del Signore. La parola annunciata deve passare attraverso la carne di chi la dona, vitalizzare la morte dell’egoismo, scarnificare la volontà propria, lacerare le viscere degli affetti personali, incidersi nel vivo del cuore che ricerca il bene. Paolo annuncia sì il mistero pasquale di Gesù, ma vissuto nella sua vita ed interiorizzato nell’ animo suo, cristificato dalla potenza dello Spirito Santo. Per questo l’Apostolo può dire “come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore” (vv. 9). Proprio perché la croce risorta del Signore è ben piantata nel suo cuore, sulle sue labbra fiorisce l’annuncio del Vangelo e quanti ascoltano la sua voce, personalmente o attraverso la mediazione dei suoi collaboratori o i suoi scritti, riconoscono in lui un testimone del cammino di sequela che annuncia con gioia e vive con radicalità. Paolo dona ciò che ha ricevuto – “A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto” (1Cor 15,3) – senza edulcorazioni, né manomissioni – “non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo” (1Cor 1,18) – tutto ritenendo “una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù” (Fil 3,8), “ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo” (Col 1,28).

C’è un legame strettissimo tra il mistero pasquale del Maestro e quello del discepolo, tra la croce del Signore e le catene dell’apostolo, tra i dolori del Crocifisso e la sofferenza delconvertito sulla via di Damasco, quasi a dire che non si può essere ministri, senza partecipare intimamente agli spasimi del Crocifisso, come anche alla luce radiosa del giorno dopo il sabato. L’Apostolo è un tutt’uno con Gesù, così da poter dire “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) o anche “io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo” (Gal 6,17). Egli ricorda a Timoteo non una dottrina che professa, in maniera fredda e senza partecipazione intima, ma un mistero vivo, quello di Cristo, i cui segni porta nella sua carne e nel suo cuore, una potenza di amore vivo, che vivifica la sua parola, motiva il suo impegno, lo spinge all’annuncio, lo sostiene nelle difficoltà, lo pacifica nelle avversità. Timoteo ascolta la testimonianza di un uomo, che si è lasciato incontrare dal Risorto, sulla via di Damasco, che ha cambiato la sua vita, per Cristo, che non ha avuto paura di rivoluzionare il suo mondo, interiore ed esteriore, così da poter scrivere “Non ho certo raggiunto la meta, non sono ancora arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo”(Fil 3,12). La parola dell’Apostolo diventa quindi autorevole, perché è confermata dalle sue catene, testimoniata dal suo carcere, comprovata dalle sofferenze sofferte per Cristo. Se, ai Corinzi, Paolo può dire “Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e Cristo crocifisso” (1Cor 2,2), scrivendo a Timoteo, mostra che il Risorto è per il credente “sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione” (1Cor 1,30). La scienza cristiana è Gesù Cristo, conoscere Lui è vera sapienza per il credente, che, con il salmista può dire, guardando il Risorto “Con te non desidero altro sulla terra” (Sal 72,27). Paolo trasmette la sua esperienza, nella sua carne ci sono i segni vivi della Passione di Gesù, sente nel suo cuore i sentimenti del Crocifisso, riversati dallo Spirito, che lo interiormente lo trasforma, lo fortifica e lo sostiene nell’annuncio del Vangelo. Solo una vita crocifissa può annunciare ai fratelli Cristo povero e crocifisso. Paolo può dire “guai a me, se non annuncio il Vangelo” (1Cor 9,16), perché sa che Dio ha voluto dimostrare in lui per primo tutta la sua misericordiae se interviene con determinazione nella vita dei suoi cristiani, dicendo “Divenite miei imitatori”, subito aggiunge “come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1), perché si comprenda che Gesù Cristo è il Signore e tutti noi “siamo ambasciatori, per mezzo nostro è Dio stesso che esorta: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,19-20).

Donare per amore

Vivere la croce di Cristo, partecipare alla potenza della sua Pasqua, significa vivere nella propria carne la dinamica della morte e della resurrezione di Gesù Cristo, sentire nel dolore tutto l’amore e nella sofferenza la forza di Dio che misteriosamente sostiene e libera i suoi eletti. Per questo Paolo può aggiungere: “Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna” (v. 10). Egli si sente in catene come un malfattore, ma avverte la libertà della parola che annuncia e di buon grado è capace di offrire la sua sofferenza per gli altri. Chi entra nelle piaghe del Crocifisso, è irrorato dalla forza del suo Spirito ed offre, come Gesù sulla croce, la sua vita per i fratelli, perché “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i fratelli” (Gv 15,13). La parola che Paolo annuncia è degna di fede, perché viene da Dio, ma è la sua vita che mostra come vivere in Cristo e come la Pasqua del Signore può trasfigurare la nostra esistenza.
Le nostre famiglie sono il luogo in cui l’amore dello Spirito del Risorto è riversato in abbondanza, per vivere d’amore e donare sempre tutto per amore. È questo l’unico senso della nostra vita. Alla scuola di Paolo anche noi, come Timoteo, siamo chiamati a rendere vita l’ascolto e a lasciarci portare da coloro che prima di noi, hanno incontrato, amato e servito il Signore, investiti dalla forza del suo amore, che ci rende capaci, in ogni morte, di vedere nascere, sempre nuova, la vita.




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