Aborto

Costretta ad abortire perché disabile

gravidanza

di Ida Giangrande

La ragazza di circa vent’anni con handicap cognitivo, subirà un aborto chirurgico nel suo “migliore interesse”. Qual è il “migliore interesse” del bambino invece?

Londra – La scorsa settimana L’Alta Corte britannica ha stabilito che una ragazza di circa vent’anni, con grave deficit cognitivo e incinta di dodici settimane, debba interrompere la gravidanza nel suo “miglior interesse”. Il giudice, David Basil Williams, conferma il giudizio già espresso in merito dalla Court of Protection, il tribunale britannico che gestisce le controversie per cittadini incapaci di intendere e di volere. L’ospedale a cui la ragazza era stata indirizzata da medico e servizi sociali ha dunque l’autorizzazione a procedere con l’aborto. 

L’aborto chirurgico è auspicato anche dalla famiglia adottiva con cui la giovane madre, originaria dell’Inghilterra del nord, ha vissuto gran parte della sua vita prima di essere affidata ai servizi sociali.

Stando alle motivazioni del giudice Williams, lasciare che la ragazza porti avanti una gravidanza sarebbe dannoso e pericoloso, considerata l’aggressività che, sembra, abbia manifestato da quando è rimasta incinta. La donna, viene sottolineato, non potrebbe mai prendersi cura del nascituro, ma magari qualcun altro sì, aggiungerei io. Si chiama adozione e fino a un po’ di tempo fa rappresentava la risposta alle famiglie che non possono generare la vita. In questo caso, sarebbe stata anche la possibilità per questo bambino di nascere e crescere come tutti gli altri bambini.  

Poco chiare risultano inoltre le circostanze in cui è avvenuto il concepimento e chi possa essere il padre del bambino. Si potrebbe trattare di un altro disabile, ma gli investigatori non escludono la pista della violenza sessuale.

Non dovremmo più stupirci di sentenze come questa. A Londra il “migliore interesse” delle persone sembra coincidere sempre più spesso con la morte del più debole. Mi auguro che questo non diventi il modello di riferimento anche di altri Stati, ma questo ennesimo caso di cronaca mi permette di vedere in trasparenza la rarefazione di una capacità umana di grande valore: l’accoglienza. I figli infatti non sono o non dovrebbero essere, un fatto privato, che riguarda la famiglia in cui è inserito e basta. I più piccoli dovrebbero essere accolti e sostenuti dall’intero sistema oltre che dalla mamma e il papà. In questo caso, se davvero la madre non può prendersi cura del figlioletto, è sbagliato dire che il “migliore interesse” di quel bambino sarebbe stato nascere e crescere in un contesto sociale e statale che lo accoglie e si preoccupa di creare tutte le condizioni perché possa esercitare il suo diritto alla vita? Davvero non ci sono famiglie disposte ad adottarlo? Davvero l’unica soluzione è impedirgli di nascere? Ma in fondo mi domando: esiste ancora il diritto alla vita?




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