
Bisognosi del perdono
di don Silvio Longobardi
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Il commento
“Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo” (18,13). Al tempo di Gesù i pubblicani erano agenti del fisco. Per la gente erano gli odiosi funzionari dell’impero romano e perciò venivano guardati con disprezzo. Nella parabola odierna il fariseo mette il pubblicano assieme a coloro che sono “ladri, ingiusti, adùlteri” (18,11), cioè pubblici e gravi peccatori. Gesù non si ferma alle apparenze, tra gli apostoli vi è uno di loro, un certo Levi di Cafarnao (Lc 5,27). Di lì a poco, passando per Gerico, porterà la luce di Dio nella casa di Zaccheo, uno dei capi di questa detestata consorteria (Lc 19, 1-10). La parabola mette in scena due uomini che salirono al Tempio, il fariseo che si riteneva giusto e il pubblicano che sapeva di essere un povero peccatore. Solo quest’ultimo fu perdonato (18,14). È bene dunque osservarlo più da vicino per comprendere qual è la via della salvezza.
È un uomo che conosce assai bene i suoi peccati. Anzi, non solo li conosce ma li ri-conosce come peccati. Per questo non invoca attenuanti, non cerca giustificazioni né si rifugia in quelle auto-assoluzioni che oggi vanno di moda nel mondo ecclesiale. Sa bene di non essere degno e tuttavia si reca nel luogo santo proprio perché ha la segreta speranza di ottenere il perdono. La preghiera che formula è, al tempo stesso, semplice ed audace: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (18,13). Come se dicesse: “Signore, non guardare i miei peccati ma le mie intenzioni, non alcun merito per chiedere la salvezza ma conto sulla tua misericordia”. Non solo riconosce di aver peccato ma si riconosce anche bisognoso del perdono di Dio. Questo passaggio oggi non sempre avviene. Il pubblicano diventa così l’immagine del discepolo che, alla luce della Parola, comprende e riconosce di non aver risposto alle attese di Dio. E tuttavia non si ripiega triste e scoraggiato né cade mai nella comoda arrendevolezza, ma è pronto a ricominciare. Non solo si batte il petto con umiltà ma invoca e accoglie quella grazia che gli permette di uscire dalla prigione che lui stesso ha costruito.
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