Cultura

Una poesia per tutte le mogli

scrivere

di Gianni Mussini

In Umberto Saba tutta la verità esistenziale dell’uomo moderno con le sue ansie e paure. Una domestica solennità che si esprime in modo particolare attraverso il componimento dedicato alla moglie Lina.

Il triestino Umberto Saba (1883-1957) è forse il più autentico poeta del nostro Novecento. Con versi limpidi e apparentemente semplici, ispirati dalla miglior tradizione lirica italiana (Petrarca, Tasso, Leopardi), canta l’animo umano e la “calda vita” in cui gli piace immergersi, per esempio quella della Città vecchia nella quale – tra merci, “detriti di uomini”, prostitute e marinai – ritrova “l’infinito nell’umiltà”, con la chiosa: “Sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore”. C’è qui subito un esempio della particolare religiosità di Saba, da intendersi non in senso proprio ma piuttosto come sentimento di comunione con il creato. Quanto allo stile, si vede subito sin da queste minime campionature che il poeta usa parole normali, ben lontane da ogni sperimentalismo novecentesco. Lo confessa egli stesso, candidamente, in un altro testo, in cui – vera dichiarazione di poetica – afferma di avere sempre amato “trite parole” (cioè parole usate e abusate) lasciandosi incantare dalla scontata rima “fiore-amore”, con l’avvertenza che essa è in realtà “la più antica, difficile del mondo”: ci vuole infatti vera classe per trasformare materiali così poveri in veri e propri diamanti.

Queste “trite parole” non sono infatti fini a se stesse, ma servono a esprimere con grande precisione la complessa “verità che giace al fondo”: la verità esistenziale dell’uomo moderno con le sue ansie e paure. Nel caso di Saba la complessità era anche personale, privata: suo padre, Ugo Poli, abbandonò la moglie incinta e così il “piccolo Berto” (come veniva chiamato) fu affidato alla nascita a una contadina slava, l’amatissima Peppa, che gli fece da balia per tre anni. Si aggiunga che il ritorno a casa non fu felice per il bambino, già “orfano” del padre e ora strappato a quella che sentiva come l’autentica madre: ciò è all’origine della nevrosi che travaglierà il poeta per tutta la vita, tanto da indurlo a scegliere lo pseudonimo “Saba” proprio in polemica con il cognome paterno (è incerto se tale pseudonimo sia omaggio al cognome della balia, Sabaz, o alla tradizione ebraica del ramo femminile della propria famiglia). Per curare tale nevrosi si sottoporrà a una terapia di psicanalisi, disciplina che Sigmund Freud aveva “inventato” da pochi anni e che lascerà tracce importanti nella poesia di Saba.

Tra i brani che compongono la raccolta dei suoi componimenti, intitolata Canzoniere in ossequio a quello del gran Petrarca, vi propongo qui A mia moglie, ispirata appunto dalla moglie del poeta, Lina. Eccone l’inizio:

Tu sei come una giovane 
una bianca pollastra. 
Le si arruffano al vento 
le piume, il collo china 
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento 
tuo passo di regina, 
ed incede sull’erba 
pettoruta e superba. 
È migliore del maschio.
È come sono tutte 
le femmine di tutti 
i sereni animali 
che avvicinano a Dio… 

Il poeta celebra qui la moglie nella sua femminilità profonda, paragonandola alle “femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio”: la donna è cioè intimamente legata, in quanto madre, all’origine della vita e partecipa perciò della sua divinità (ecco un nuovo esempio della “religiosità” sabiana).

La lirica prosegue poi cambiando animale, si tratta ora di una mucca, ma ritrovando anche in questa una profonda affinità con la moglie del poeta, nel suo indicibile segreto di donna:

Tu sei come una gravida
giovenca; 
libera ancora e senza 
gravezza, anzi festosa; 
che, se la lisci, il collo 
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne. 
se l’incontri e muggire 
l’odi, tanto è quel suono 
lamentoso, che l’erba 
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono 
t’offro quando sei triste. 

È poi la volta addirittura di una “lunga cagna”, che ha sempre “tanta dolcezza negli occhi / e ferocia nel cuore”: ecco, nell’antitesi, la complessità psicologica a cui facevo riferimento prima. Antitesi che si replica subito dopo, dove riferendosi sempre alla cagna, il poeta spiega: 

Ai tuoi piedi una santa 
sembra, che d’un fervore 
indomabile arda, 
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore. 
Quando in casa o per via 
segue, a chi solo tenti 
avvicinarsi, i denti 
candidissimi scopre. 

Con la conclusione, sempre psicologicamente mossa:

Ed il suo amore soffre  
di gelosia. 

Ma femminilità è anche tenerezza inerme e spaurita, quella della “pavida coniglia” che:

Entro l’angusta 
gabbia ritta al vederti 
s’alza,
e verso te gli orecchi 
alti protende e fermi; 
che la crusca e i radicchi 
tu le porti, di cui 
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui. 

Di qui la commozione del poeta, che si scioglie nell’ultimo verso della strofa:

Chi potrebbe quel cibo 
ritoglierle? chi il pelo 
che si strappa di dosso, 
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire? 
Chi mai farti soffrire? 

Non può mancare l’accostamento della moglie alla rondine primaverile che, con le sue “movenze leggere”, sembra ricordare al poeta che nell’amore non si invecchia:

Tu questo hai della rondine: 
le movenze leggere: 
questo che a me, che mi sentiva ed era 
vecchio, annunciavi un’altra primavera. 

Tocca poi alla “provvida formica”, la cui immagine suscita un minimo quadro di grande poesia, quasi un Leopardi redivivo:

Di lei, quando 
escono alla campagna, 
parla al bimbo la nonna 
che l’accompagna.

(Sino a quando ci sarà una nonna che “esce alla campagna” con il nipotino e gli parla della “provvida formica”, ci sarà una speranza per il mondo!). Il finale della lirica ricorda prima la pecchia, cioè l’ape, per poi riprendere, simmetricamente, gli ultimi versi della prima strofa: 

E così nella pecchia 
ti ritrovo, ed in tutte 
le femmine di tutti 
i sereni animali 
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna. 

La religiosità, naturale e forse panteistica, che ispira questa poesia determina un andamento litanico, scandito dalla ripetizione Tu sei come… A tale cadenza si connettono pure le frequenti anafore e ripetizioni e anche quel caratteristico procedere per coppie o per antitesi: giovanebianca (vv. 1-2), pettoruta e superba (v. 9), soave e triste (v. 23), dolcezza…ferocia (vv. 40-41), amore…gelosia (vv. 51-52), ecc. Come si vede da questi esempi, prevale un’intonazione ossimorica, che del resto permea di sé un po’ tutta la lirica: a definire la complessità profonda dell’animo femminile, indotto dall’istinto materno ad amare con assolutezza e con assolutezza a difendere gli oggetti del proprio amore. 

Una notazione sul ritmo. L’attacco delle strofe è, cinque volte su sei, sdrucciolo, come nella tradizione dei medievali inni cristiani (ripresa per esempio dal Manzoni degli Inni sacri): ciò che determina quel particolare “allungamento” melodico, corale, proprio appunto delle preghiere. 

Per il resto, il discorso fluisce assecondando l’ispirazione del poeta, ma i versi brevi (quasi tutti settenari) lo “interrompono” quasi sistematicamente, obbligando in un certo senso il lettore a soffermarsi sulle singole parole: le quali acquistano così in densità e significato (ancora una volta, come nelle preghiere). La partitura musicale è molto fitta, scandita da numerose rime e assonanze, ma non assume mai una vivacità eccessiva, da canzonetta: la stessa elevata frequenza di rime baciate ha più la funzione di ribadire il ritmo litanico, scandito per coppie, che non quella di ravvivare fonicamente il discorso poetico.

Ho già detto che Saba ama le parole semplici: più che mai in questa poesia il lessico è piano, colloquiale. È semmai la sintassi a innalzare i toni: per esempio con le inversioni (“il collo china”; “muggire l’odi”, ecc.) che conferiscono al testo una domestica solennità. 

Per finire, l’occasione di questa poesia è raccontata dall’autore in una delle pagine più belle di Storia e cronistoria del Canzoniere, libro magnifico in cui Saba racconta appunto – in terza persona – la genesi delle sue liriche. Ecco come è nata questa poesia, e come la moglie del poeta ha reagito:

Un pomeriggio d’estate mia moglie era uscita per recarsi in città. Rimasto solo, sedetti, ad attenderne il ritorno, sui gradini della scala che conduceva al solaio. Non avevo voglia di leggere; a tutto pensavo fuori che a scrivere una poesia. Ma una cagna, la “lunga cagna” della terza strofa, mi si fece vicino, e mi pose il muso sulle ginocchia, guardandomi con occhi nei quali si leggeva tanta dolcezza e tanta ferocia. Quando, poche ore dopo, mia moglie ritornò a casa, la poesia era fatta: completa, prima ancora di essere scritta, nella mia memoria. Devo averla composta in uno stato di quasi incoscienza, perché io, che quasi tutto ricordo delle mie poesie, poco ricordo della sua gestazione. Ricordo solo che, di quando in quando, avevo come dei brividi. Né la poesia ebbe mai bisogno di ritocchi o varianti. S’intende che, appena ritornata la Lina, stanca della lunga salita (si abitava a Montebello, una collina sopra Trieste) e carica di pacchi e di pacchetti, io pretesi subito da lei che, senza nemmeno riposarsi, ascoltasse la poesia che avevo composta durante la sua assenza. Mi aspettavo un ringraziamento ed un elogio; con mia grande meraviglia, non ricevetti né una cosa né l’altra. Era invece rimasta male, molto male; mancò poco litigasse con me. Ma è anche vero che poca fatica durai a persuaderla che nessuna offesa ne veniva alla sua persona, che era “la mia più bella poesia”, e che la dovevo a lei. “A mia moglie” è la prima grande poesia alla quale si imbatte chi legga per la prima volta il Canzoniere […]. E, se un’antologia di Saba fosse possibile e desiderabile, nessuno potrebbe pensare ad ometterla. Diremo di più: se di questo poeta si dovesse conservare una sola poesia, noi conserveremmo questa. Altre più belle poesie egli scrisse, più complesse, più seducenti, forse anche più perfette; ma in nessuna – crediamo – la nativa spontaneità della sua vena zampillò da una sorgente più profonda. Giacomo Debenedetti parla della «sensualità quasi animalesca» colla quale sono portati i paragoni. Non si tratta di sensualità animalesca, forse nemmeno di sensualità, in nessun caso di sola sensualità (ma quando il Debenedetti scrisse il suo primo saggio sul Nostro era vergognosamente giovane: aveva 22 o 23 anni). La poesia fa pensare piuttosto ad un improvviso ritorno all’infanzia; un ritorno però che non esclude la contemporanea presenza dell’uomo. […] Il poeta, come il fanciullo, ama gli animali, che, per la semplicità e nudità della loro vita, ben più degli uomini, obbligati da necessità sociali a continui infingimenti, «avvicinano a Dio», alle verità cioè che si possono leggere nel libro aperto della creazione.




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