Scuola

di Piero Del Bene

“Ho preso un brutto voto! E ora? Chi lo dice a mamma e a papà?”

12 Dicembre 2019

Sbagliatoio

Tutto è perfettibile anche i nostri ragazzi. Il voto? È solo una prova che giudica la prestazione non la persona. Ma questi sono concetti poco chiari innanzitutto per noi genitori ed insegnati.

Dalla cattedra può capitare di imbattersi nelle grandissime delusioni che colpiscono gli studenti, certe volte piccolissimi. Può succedere anche che tu stesso ne sia la causa. In una prima media, arriva il momento del primo compito in classe. Sono volutamente cattivello perché voglio saggiare i ragazzi, devo ancora capire bene chi ho davanti, come ragionano questi studenti, a quali risorse attingono. Già durante la prova, girando per i banchi, scorgo qualcosa che mi impensierisce: alcuni alunni sono presi da uno sconforto che vela i loro occhi di una preoccupazione mai incontrata prima. Consegnano perplessi e con le spalle curve: “Prof, non ho saputo svolgerlo tutto. Eppure alle elementari ero bravissimo in matematica!”. Accolgo questa resa con un sorriso, ma non sono sicuro che sia capito. Arriva il giorno dei voti e scoprono che avevano ragione: non è andata bene. Allora me ne accorgo: è giunto il momento d’intavolare una discussione che diventa ogni anno sempre più necessaria. “Non c’è da preoccuparsi! È solo il primo compito! C’è tutto il tempo per recuperare”. Forse ne sono anche coscienti, ma c’è qualche altro pensiero che li turba: “Chi lo dirà ai miei? Si arrabbieranno tantissimo!”.

Nella mia prima ho chiesto di cosa fossero più preoccupati: del fatto che il compito fosse andato male o della reazione dei genitori? È la seconda cosa che li preoccupa. Allora bisogna insistere: “Avete fatto tutto ciò che era nelle vostre possibilità?”. “Certo prof, mamma (oppure la signora delle ripetizioni, sempre più diffusa) mi ha tenuto fino a sera a ripetere sempre gli stessi esercizi!”. “E allora state sereni!”. “E come si fa, quelli non vogliono sentire ragioni!”. “Quindi non vi preoccupano gli errori, ma la reazione dei vostri!”. E allora incalzo: “Cosa significa il voto?”. Tardano un poco a capire la domanda. Cerco di spiegare loro che il voto è solo un messaggio in codice sul loro modo di studiare. Qualcuno capisce e reagisce: “Mamma dice che se non prendo un voto alto, non sono buono!”. Il momento è caldo: “Quindi uno che prende 10 è migliore di uno che prende 7?”. “Certamente! E se prendo meno di 8 i miei mi dicono che sono un asino!”. I lettori più attenti avranno colto il doppio binario della chiacchierata: il voto, che deve giudicare solo un modo di studiare, diventa un giudizio sull’intera persona. Rifletto sul fatto che, forse, è proprio questo che fa arrabbiare molti genitori che pretendono per i figli voti altissimi, perché così questi valgono di più e quindi anche essi come genitori, di riflesso, vedranno la loro valutazione lievitare. Ma non è così. Provo a dirlo ai ragazzi: “Perché venite a scuola?”. “Per imparare!”. “Questo vuol dire che c’è qualcosa che non conoscete. Non sapete tutto! Dunque ignorate delle cose?”. Qualcuno ridendo, succede spesso, dice: “Siamo ignoranti”. Risata generale. “Bene, insisto, siamo ignoranti! Veniamo a scuola perché siamo ignoranti”. La cosa li convince, ma non del tutto: aspettano che da un momento all’altro arrivi una fregatura da qualche parte. Li vedi dietro i banchi, pronti al “Chi è là!”. 

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Potrei continuare a lungo nel riportare questo ed altri dialoghi simili, ma quanto detto può bastare come introduzione ad una riflessione che si potrebbe intitolare così: quanto pretendiamo che siano già ora perfetti i nostri figli? In altre parole, quanta libertà di errore diamo loro in questa che è per essi, a tutti gli effetti, l’età della formazione? Un insegnante una volta mi disse, mentre discutevamo proprio di questo argomento: “Non sono preoccupato dei ragazzi che usciranno col 10 alla fine dei tre anni. Mi preoccupano quelli che entrano già con la missione del 10!”. Fu una riflessione paradossale, ovviamente. Essa serve, tuttavia, ad introdurci un altro tema che è una leggera variazione del precedente o, se volete, lo stesso ma preso da un altro punto di vista: quanta pressione hanno addosso, già a quest’età, questi cuccioli d’uomo? Quante aspettative carichiamo sulle loro fragili spalle come genitori e come docenti? Siamo sicuri che riusciranno a gestirle? La questione è più seria di quel che può sembrare. È persino antropologica o sociale e s’intreccia con la scarsa propensione ad accettare gli errori degli uomini che, in fondo, sono fallaci, imperfetti, limitati. Noi adulti, come società, abbiamo smarrito questa autoconsapevolezza e riversiamo il peso di un’impossibile perfezione sulle piccole spalle dei nostri giovani che, invece, avrebbero bisogno di più spazio per sbagliare e mettersi alla prova, in un ambiente protetto. La Scuola, ma anche il campo di calcio o la palestra, diventano già alla loro età un banco di prova. Le prove, sia chiaro, ci vogliono perché aiutano nella propria autoconoscenza e autoconsapevolezza, sono una buona palestra. Per esempio, personalmente, reintrodurrei un piccolo esamino alla fine delle elementari. Ma non bisogna esagerare. 

C’è un fenomeno relativamente nuovo, comparso in Giappone qualche decennio fa, che tuttavia si sta diffondendo anche da noi in Occidente: sono i cosiddetti hikikomori, termine giapponese usato per riferirsi a coloro, soprattutto giovani, che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento. Tra i fattori che inducono a fare queste scelte radicali, in letteratura, si annovera un’assenza abbastanza accentuata del padre, che in Giappone lavora per la maggior parte del tempo a causa della produttività estrema a cui si è votati in quella nazione. Una certa iper-protettività della madre è indicata come un secondo fattore scatenante. Si pensa, tuttavia che la grande pressione della società giapponese verso autorealizzazione e successo personale, cui l’individuo viene sottoposto fin dall’adolescenza, sia l’elemento centrale. Non è più solo un problema giapponese se è vero che esiste un’associazione italiana hikikomori che stima che in Italia siano quasi 100 mila. Il fenomeno andrebbe studiato, ma a noi interessa, in questa sede sottolineare la pressione sociale della realizzazione dalla quale cercano in tutti i modi di fuggire. Tutto questo porta ad una crescente difficoltà e demotivazione del ragazzo nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa. Come ne possiamo uscire? Ai miei studenti ho ricordato che essi sono perfettibili, che possono sbagliare, anzi che, proprio in questo periodo della loro vita, essi devono sbagliare per farlo il meno possibile quando saranno impegnati, da adulti, nelle loro opere sociali. Ho ricordato loro un grande pensiero di Niels Bohr secondo il quale un esperimento fallito è comunque un esperimento che ha qualcosa da insegnarci e quindi possiede qualche grado di riuscita. Per dirla con un motto dell’associazione sportiva di una delle nostre figlie: Io non perdo mai. O vinco. O imparo. È il processo che ci deve interessare. Il prodotto sarà una conseguenza. Per rasserenarli ho allora pensato di trovare un nome alla nostra aula. Due di loro hanno realizzato il cartellone che potrebbe essere posto sulla sua porta di ingresso: lo Sbagliatolo. Sogno che l’aula sia considerata un posto dove si può sbagliare in maniera controllata e non pericolosa allo scopo di farlo il meno possibile quando la scuola sarà finita.




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1 risposta su ““Ho preso un brutto voto! E ora? Chi lo dice a mamma e a papà?””

Io ho una lunga esperienza come professore universitario di Fisica Teorica e mi sono convinto che per insegnare è necessario non solo conoscere gli argomenti del corso, ma comprendere che esiste la necessità di rendere interessante l’argomento della lezione. In fondo insegnare è recitare la parte del professore, individuare i problemi che hanno fatto nascere un certo argomento. Ad esempio rifacendosi allo sviluppo storico della matematica.Il teorema di Pitagora, per fare un esempio semplice, è stato un gigantesco passo in avanti: è in fondo il primo teorema che appare nella didattica delle scuole medie. Gli assiro-babilonesi avevano liste di terne di numeri che soddisfacevano la relazione pitagorica, ma non avevano il teorema, cioè non disponevano di una sintesi che soddisfaceva qualsiasi triangolo pitagorico.
Mostrare il senso del concetto di teorema come sintesi di infinite realtà possibili è fondamentale. In parole semplici prima di dare un teorema, forse il primo (almeno per gli studenti) è un passaggio critico

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