III Domenica di Avvento – Anno A – 15 dicembre 2019

Attendiamo con costanza e pazienza, senza lamentarci, la venuta del Signore

Come Dio si prende a cuore la sorte del suo popolo e guida i figli d’Israele verso la salvezza, così anche noi siamo chiamati a rendere visibile l’amore dello Spirito Santo, lasciandoci trasformare dalla sua presenza in noi. È Lui, infatti, il principio della nostra trasformazione e santità, è Lui che fa crescere il bene, “Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio che fa crescere” (1Cor 3,7)

Dalla Lettera di san Giacomo apostolo (5,7-10)
Rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina.
Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina.
Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore.

 

Siamo nella seconda metà del nostro cammino verso la luce del Natale e mentre il Vangelo (cf. Mt 11,2-11) ci dona la figura austera di Giovanni il Battista, che nel carcere, invia i suoi discepoli a Gesù, per capire se è veramente Lui il Messia promesso, dalle Scritture, nella Prima Lettura il profeta Isaia (cf. 35,1-6a.8a.10) incoraggia gli smarriti di cuore, il popolo che sperimenta l’esilio, perché, credendo nella potenza del Signore, “vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio”. La Seconda Lettura, questa domenica tratta dalla Lettera di Giacomo (cf. 5,7-10), è un monito alla costanza, perché ciascun discepolo, rinfrancando il proprio cuore, possa attendere con perseveranza la venuta del Redentore.
Gesù Cristo è il Messia promesso ed atteso (Vangelo), che realizza le antiche profezie e compie i segni affidati alla Scrittura (Prima Lettura). A noi è chiesta la pazienza (Seconda Lettura), nell’imparare a riconoscere la presenza del Signore e vivere nell’amorosa laboriosità la sua venuta, nel mistero del Natale, il suo ritorno alla fine della storia.

Chiedere il dono della costanza

Tra gli Scritti del Nuovo Testamento, la lettera di Giacomo è la prima delle lettere definite cattoliche. In essa l’autore, con un vocabolario ricco ed una struttura formale ben curata, saluta le “dodici tribù disperse nel mondo” (1,1), indirizzando loro un’opera letteraria – malgrado il prologo iniziale, non sembra appartenere al genere epistolare – con finalità chiaramente morali ed esortative. I cinque capitoli che formano lo scritto si possono considerare una raccolta, collegate insieme da un solo filo rosso: l’esigenza di tradurre la professione della fede in opere concrete, che testimoniano la propria appartenenza a Cristo, nel suo vero corpo che è la sua Chiesa. Il brano liturgico è tratto dall’ultima sezione della lettera (cf. Gc 4,13-5,20), che riguarda gli orientamenti di vita comunitaria ed in particolare la costanza che il cristiano deve dimostrare, nell’attesa del Signore. Leggiamo nella liturgia odierna quattro (vv. 7-10), dei cinque versetti (vv. 7-11), che compongono l’intero brano, dove l’imperativo, proprio dell’esortazione (“siate costanti … Guardate l’agricoltore … siate costanti anche voi … non lamentatevi … prendete a modello”) è accompagnato da esempi concreti, quali l’agricoltore (v. 7), i profeti (v. 10) e, indirettamente Giobbe (v. 11). Proprio da questa fitta rete argomentativa, fatta di esortazione e di esempio, si sviluppa la comunicazione che Giacomo rivolge ai suoi, perché scandiscano l’attesa con la pazienza e si facciamo compagni della schiera numerosa di quanti hanno fatto della costanza la virtù che gli ha permesso di non venir meno, nella testimonianza del Signore.

Scrive l’Autore: “Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore” (v. 7). L’esortazione, ripresa anche in seguito, in modo più diretto – “Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori” (v. 8) – pone i credenti dinanzi ad una esigenza, che risulta essenziale, in vista della venuta del Signore. Può sembrare anacronistica la parola dell’Apostolo, oggi, che si è così immersi nella fretta e nell’ansia di fare tutto, in brevissimo tempo, eppure, a ben pensarci, il problema forse non è tanto la pazienza, ma l’attesa e la volontà di aspettare sul serio qualcosa e, soprattutto, Qualcuno. Non siamo, infatti, più abituati ad attendere, perché vogliamo tutto e subito o forse non siamo più capaci di amare sul serio, perché solo chi ama, di un amore che non conosce l’egoismo, sa pazientare e, pur vivendo la trepidazione, trasforma il tempo, perché diventi preparazione per colui che sta per venire. Solo l’amore, come quello di Maria di Magdala presso il sepolcro di Gesù, la mattina di Pasqua, sa aspettare il tempo della rivelazione del Signore e si apre alla ricerca del Diletto, perché l’anima ne sente la mancanza ed il cuore si strugge al ricordo di Lui. Dobbiamo imparare a divenire maturi nell’amore, adulti nel dono, pronti alla veglia, se vogliamo veramente aspettare il Signore; è necessario addestrare il nostro animo a sapere attendere, a pazientare, non nella inattività, ma nella veglia operosa che è propria di chi prepara le ultime cose, tiene la lampada accesa e non si lascia sopraffare dal sonno.

Quanto abbiamo bisogno di imparare a pazientare, a vegliare, ad aspettare, in una parola, ad amare sul serio! Ogni donna, come Maria, attende con pazienza la nascita di un figlio ed il tempo scorre, nel costante pensiero a colui che nascerà, al colore dei suoi occhi, ai suoi capelli, alla forza delle sue labbra. La gravidanza può essere anche faticosa, comportare delle complicazioni, imporre una sosta forzata, ma è pur sempre l’amore che rende una madre pronta ad ogni sacrificio, per colui che cresce in lei come un prodigio. Se riuscissimo ad amare e ad amare, senza egoismo, a donarci, senza risparmio, a scarificarci, senza rinfacciare, a fare silenzio, pregando, senza guardare il limite o la debolezza, l’imperfezione o la difficoltà dell’altro, se non per usare la misericordia e la cura, la grazia del perdono e la parola che guarisce e ogni cosa risana. Nessuno nasce già maturo e forte, capace di fronteggiare le difficoltà della vita e di non lasciarsi abbattere dai problemi che si presentano, volta per volta. Come il Signore viene, nel mistero del suo Natale, così viene il bene, se lo cerchiamo, la grazia se la chiediamo, la fiducia, se la costruiamo, la stima, se l’alimentiamo. La costanza a cui ci esorta l’Apostolo indica la capacità di non fissare lo sguardo all’oggi, ma di lasciarsi determinare, nella corsa e nel sacrificio, dalla meta da raggiungere, dal traguardo verso cui si procede, dall’arrivo, da tagliare, non senza aver corso, con impegno, così da raggiungere e meritare il premio.

Pazientare come l’agricoltore

Perché l’esortazione risulti più incisiva, l’apostolo Giacomo aggiunge, al suo argomentare: “Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge” (v. 7b). L’esempio rende più plastica e diretta la parola, offre una figura con cui confrontarsi, un modello al quale conformarsi. In tal modo, il lettore è portato a uscire dal rapporto tra autore e lettore, mediato dal testo, per farsi guidare dall’autore, nel riflettere sulla realtà proposta. La parola di Giacomo conduce i suoi a figurarsi dinanzi alla mente non solo l’agricoltore, ma, con lui, tutte le attività che scandiscono, nelle diverse stagioni, la sua opera. Egli “aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge”. Nella sua opera c’è un prima ed un dopo, la sua è un’attesa paziente sì, ma al tempo stesso operosa. Lavora la terra, da cui aspetta il prezioso frutto, sapendo che non tutto dipende da lui, ma dal cielo viene la pioggia, come dalla sua opera, la capacità che la terra ha di sviluppare le capacità che il lavoro dell’uomo e la pioggia suscitano. L’agricoltore lavora in sinergia ed il tempo gli ha insegnato a fidarsi ora della terra ora del cielo. Da solo non può far nulla, se la pioggia non dona l’acqua necessaria, al tempo opportuno, come entrambi, senza la terra, non possono far nulla. È un lavoro di squadra, quello dell’agricoltore, che richiede umiltà, lo stesso che attende anche noi. Desideriamo, al pari del contadino, “il prezioso frutto”, che sia questo la maturità di un rapporto, la realizzazione di un figlio, la gioia di una comunità che vive e testimonia il Vangelo, ma se non impariamo a lavorare insieme, a saper far corpo, non raggiungeremo nulla. Il frutto è la conseguenza di fattori che insieme si combinano – lavoro umano e natura – la somma di realtà che collaborano – cielo e terra – la sinergia di azioni che hanno la medesima meta. Quante volte capita che in famiglia o anche in comunità, si lavora, ma non insieme, ci si sacrifica, ma senza dialogare sul da farsi e così tutti si danno da fare, manca però la capacità di polarizzare le forze e darsi un motivo comune, un’azione unitaria, un intento che accomuni tutti.

Guardare l’agricoltore significa imparare la pazienza. Non tutti i terreni sono uguali e neppure la stessa acqua ha il medesimo effetto, anche su uno stesso terreno, in stagioni differenti, può sortire effetti contrari. Così siamo anche noi. Non siamo tutti uguali, pur avendo lo stesso ideale da realizzare e la medesima felicità da raggiungere. Non possiamo pretendere “il prezioso frutto”, senza lavorare con impegno, né aspettare che il terreno lo produca, senza la nostra collaborazione. Dobbiamo dare tempo a noi stessi e alle persone che ci sono accanto. Dio non fa così anche con noi concedendoci la sua grazia, al tempo opportuno, sollecitando, mai provocando la nostra risposta. Non è forse Dio il vero agricoltore, se l’evangelista Giovanni attesta che Gesù, nella sera del tradimento, confidò ai suoi: “Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto” (Gv 15,1-2). È, infatti, Dio il vero agricoltore, per questo dobbiamo farci suoi imitatori, se vogliamo veramente prenderci cura degli altri, coltivare il campo della loro vita, lavorare, con alacrità ed impegno, perché producano frutti, permettendo ai talenti ricevuti in dono di svilupparsi al meglio. Per questo l’apostolo Paolo dirà: “Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,1-2). Imitare Dio, che è vero agricoltore della nostra vita, significa vedere come Lui si comporta con noi, per fare con gli altri quanto Egli compie con noi. Non è forse questo il modello che lo stesso Gesù ci ha lasciato, dicendoci: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Come Dio si prende a cuore la sorte del suo popolo e guida i figli d’Israele verso la salvezza, così anche noi siamo chiamati a rendere visibile l’amore dello Spirito Santo, lasciandoci trasformare dalla sua presenza in noi. È Lui, infatti, il principio della nostra trasformazione e santità, è Lui che fa crescere il bene, “Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio che fa crescere” (1Cor 3,7). Il “Guardate l’agricoltore” di san Giacomo significa non solo tenere fisso lo sguardo ad un modello ideale, proposto nell’argomentazione,quale esemplificazione della pazienza da attuare, nella vita, nell’attesa del Signore, ma, alla luce della Scrittura, può significare considerare il comportamento di Dio con noi, la misericordia del Padre, la pazienza del Cristo, fino alla morte di croce, la disponibilità dello Spirito, che accompagna il cammino della nostra crescita e cerca di guidarci, quando gli prestiamo la nostra docile obbedienza, a collaborare al suo progetto di salvezza e di gioia. Essere “immagine e somiglianza di Dio” (Gen 1,26) significa riflettere, nel rapporto con i nostri fratelli, l’amore che Dio vive con noi. Questo comporta che noi siamo i collaboratori della gioia degli altri, i coltivatori del bene delle persone che ci sono accanto. Nessuno, infatti, può dire, come Caino, di non essere il custode del proprio fratello (cf. Gen 4,9), perché il Signore proprio questo ci chiede, di saperci prendere cura gli uni degli altri, così da vivere il suo amore, nei nostri rapporti.

Coltivatori sono i genitori nei riguardi dei figli, quando li guidano, mettendo a frutto le capacità che il Signore ha loro elargito, senza mai esasperarli, ma facendoli crescere “nella disciplina e nell’insegnamento del Signore” (Ef 6,4); anche gli sposi, nella reciproca relazione, santificata dal sacramento e corroborata dalla grazia nuziale, sono chiamati alla cura dell’altro/a, prestando ogni cura, perché il rapporto cresca e si sviluppi e non muoia, con il passare del tempo, per la cattiva volontà nel coltivare il campo, abbandonandolo all’incuria; coltiva il campo di Dio poi ogni presbitero, nella sua comunità e più si sacrifica per essa, nella dimensione sponsale che caratterizza il suo donarsi per la Chiesa, sposa di Cristo, e maggior frutto produce il suo ministero ed i fedeli affidate alle sue cure in Lui vedono riflessa la figura del buon Pastore, che è Gesù, e del vero Agricoltore, che è il Padre, nella grazia dello Spirito, che sempre lo sostiene; ogni fedele, poi, nel terreno del mondo, è chiamato da Dio a lavorare, senza risparmiarsi, perché il Regno di Dio porti frutto nella storia ed ogni azione collabori al bene della comunità umana. Perché imporre agli altri una marcia che noi per primi non possono sopportare? Perché mai pretendere che l’altro/a faccia frutti, se sta vivendo la stagione dell’inverno o che si riposi e proceda con calma, se attraverso il tempo del raccolto, che richiede la fretta ed il sacrificio di accogliere quanto è stato prodotto? Essere agricoltori significa imparare ad essere pazienti, guardare sempre i tempi dell’altro, sollecitando l’opera, mai imponendola. Pazientare non significa, infatti, non far nulla, ma discernere la strada migliore perché l’altro realizzi il progetto di Dio e metta a frutto la sua grazia. Non serve a nulla arrabbiarsi davanti alle altrui lentezze, ma bisogna vedere se sono frutto di cattiva volontà oppure è quello il ritmo che scandisce la vita del fratello. Solo l’amore è paziente, per questo unicamente Dio ci può donare quest’arte, che risplende nella vita di Gesù Cristo. Il suo venire a noi, nel mistero del Natale, ci indica la sua volontà di coltivare il suo rapporto con noi, mostrandoci che anche Lui si darà tempo – questo significa avere pazienza, darsi tempo – per imparare ad essere uomo ed insegnare agli uomini la strada verso il Cielo.

Cosa fare nell’attesa?

Una delle cose più difficili, durante l’attesa, è non perdere tempo, lasciando che la lingua proceda senza che ne venga moderato l’uso, con le briglie dell’intelligenza e della volontà. Capita a tutti, infatti, di dover ingannare il tempo, durante l’attesa, dimenticando che il tempo non va ingannato, ma fatto fruttificare, perché un’attesa che non è operosa significa sciupare un bene prezioso, che il Signore benevolmente ci concede. Per questo san Giacomo, rivolgendosi ai suoi, dice: “Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati” (v. 9). L’attesa potrebbe far crescere l’insoddisfazione e la stanchezza, alimentando la loquacità, che facilmente può divenire mormorazione. Già prima l’apostolo aveva detto: “Se uno non pecca nel parlare, costui è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo. […] la lingua nessuno la può domare, è un male ribelle e piena di veleno mortale” (Gc 3,2.8). Perché l’attesa non degeneri nel vizio (cf. Mt 25,448-49) è importante esortare alla custodia della lingua. Proprio perché “con la misura con cui misurate sarà misurato a voi”, l’Apostolo ammonisce: “Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati” (v. 9). Non è semplice per noi frenare la lingua. Sembra che ci sia in noi una tendenza incontrollabile nel sindacare su tutto e su tutti. Nessuna cosa è buona e, soprattutto quando ci troviamo con altri, cadiamo spesso nella mormorazione e nel giudizio azzardato, quando siamo indotti oppure inducendo noi gli altri a lasciarsi andare in discorsi che non edificano la comunione, ma che, anzi, creano un abisso di diffidenza e di omertà. Quanto male fa la lamentela! Essa nasce da una profonda insoddisfazione e da uno sguardo capace di vedere sempre e solo il male, allenato a tal punto da scorgerlo, anche quando non c’è. Chi si lamenta, è vittima di se stesso e non si accorge che non solo appesantisce il proprio cuore, ma che esaspera anche i rapporti. Colui che si lamenta non riconosce il bello della vita, il bene delle relazioni, la grazia che Dio effonde, la forza che concede per combattere il male, con l’amore dello spirito, che con noi ci sostiene nel combattimento quotidiano. Il lamentoso è sempre triste, insoddisfatto di tutto, pago solo di esaltare se stesso e mai contento, se non gli si brucia dinanzi l’incenso della lode, che di buon grado accetta. È vero, il male c’è nel mondo, tante situazioni di palese ingiustizia angosciano la nostra società ed impediscono la vita serena di tutti gli uomini, le guerre ci affliggono e la violenza, fisica e verbale, ancora è un’arma da più parti invocata ed usata. Il credente, invece, sa che la creazione è buona e che quanto è uscito dalle mani di Dio, ha da Lui ricevuto la grazia della bellezza e la bontà del suo Autore. C’è tanto bene nella nostra vita, tanta grazia nei rapporti che rallegrano la nostra vita. Perché non accorgersi del bene ed essere pronti sempre e solo a lamentarci del male? Perché è così difficile scorgere il bene e rallegrarsi dei piccoli passi che si fanno, per crescere e divenire capaci di mettere a frutto la grazia del Signore?

Quante lamentele inclinano i nostri rapporti! Tra marito e moglie, in un gruppo ecclesiale, come anche in comunità, si è sempre pronti a vedere ciò che manca, l’offesa ricevuta, ciò che l’altro ha fatto o che non ha fatto, senza rendersi conto che, se c’è qualcosa o qualcun che non va, siamo noi ed il nostro modo sbagliato di riconoscere il bene e farlo crescere. La lamentela nasce nel cuore che non conosce la lode, che non si stupisce davanti ad un nuovo giorno che sorge, nell’animo di chi, sempre scontento, cerca la pagliuzza nell’occhio dell’altro, perdendo tempo nell’osservare le minuzie, quanto ci sarebbero tante cose belle da contemplare, stupiti. Il lamentoso è fondamentalmente un insoddisfatto, della vita e di se stesso, che riversa sugli altri la sua non accettazione dei limiti e difetti che caratterizzano la sua vita. Chi, invece, è riconciliato con se stesso, sereno della sua vita, pacificato con la sua storia, che di buon grado ha visto le luci e le ombre che il suo passato nasconde, non teme nulla ed è pronto a lasciare che Dio operi in lui e guarda con altrettanta serenità la vita degli altri. Se riuscissimo a canalizzare le energie che sprechiamo, lamentandoci, nel bene che il Signore ci chiede e si attende da noi! A che serve sindacare su una situazione o su un errore, quando, invece, la cosa migliore è coprire con il manto della misericordia il peccato e donare possibilità nuove per riprendersi. Mentre la lamentela ed il giudizio sprezzate modifica il fratello, umiliandolo, oppure lo porta ad indurire il cuore, barricandosi in se stesso, la carità non solo non giudica, ma “è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia di orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità” (1Cor 13,4-7).

Seguire gli esempi positivi

La struttura della pericope liturgica, tratta dalla Lettera di Giacomo è semplice, ad una prima esortazione (v. 7) segue l’esempio dell’agricoltore (v. 7b), con una nuova esortazione conclusiva; mentre ad una seconda esortazione, questa volta sulla necessità di non lamentarsi (v. 9), succede come un nuovo modello, quello dei profeti (v. 10), offerto alle comunità cristiane, perché vivano la sopportazione e la costanza, nel bene. Le parole devono essere accompagnate da fatti e, quando parliamo, dobbiamo sapere che noi per primi siamo chiamati a vivere ciò che proponiamo alle persone che ci sono accanto. Questo non significa che può parlare solo chi è ineccepibile e perfetto, ma che dobbiamo mostrare il nostro desiderio di vivere il bene e di impegnarci nel crescere in esso. Nel mistero del Natale, verso cui camminiamo, contempliamo proprio Gesù Cristo, il Verbo eterno, che vive, dalla greppia, il Vangelo che lo condurrà alla croce, lasciando che la sua vita sia quella pagina della Scrittura, scritta dal dito dello Spirito, su cui tutti possono leggere la parola del Padre per ogni uomo.
Preparandoci ad accogliere il Signore che viene, impariamo da Lui a non lamentarci del male e delle difficoltà che vediamo sorgere intorno a noi, ma chiediamo la grazia di vivere ogni umana contraddizione, assumendola in prima persona e lasciando che in essa riverberi l’amore di Dio, che tutto vivifica trasforma.

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