IV Domenica di Avvento – Anno A – 22 dicembre 2019

La grazia di essere apostoli di un Bambino

San Giuseppe

Il Natale del Signore è ormai alle porte e tutti siamo chiamati come Paolo a farci annunciatori della presenza di Dio, nella vita del mondo, vivendo il nostro cammino, per generare, con Giuseppe di Nazaret, la nostra obbedienza al progetto di Dio e vedere così che le antiche profezie si compiono, quando l’uomo docilmente si lascia portare dalla potenza di Dio.

Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (1,1-7)
Gesù Cristo, dal seme di Davide, figlio di Dio.
Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!

 

L’ultima tappa del nostro cammino di Avvento, incontro al Signore che viene, ci porta a contemplare come il Signore realizza la sua promessa ed invia nel mondo il suo Figlio, l’Emmanuele, il Dio con noi. Promessa e compimento è questo, infatti, il ritmo che la liturgia ci dona sperimentare, vedendo come Dio abbia a cuore la salvezza di tutti gli uomini. La Prima Lettura, che fa da sfondo alla liturgia odierna, presenta la profezia di Isaia, rivolta al re Acaz, che sente venir meno la sua speranza di non soccombere dinanzi agli Assiri. Quale segno di speranza Dio gli concede un figlio, perché impari a sperare in Lui e ad affidarsi completamente nelle sue mani. Il nome del fanciullo sarà, infatti, Emmanuele – Dio con noi – a ricordare che il Signore non abbandona i suoi e mantiene sempre la sua promessa. Nella pienezza dei tempi, la figura lascerà il posto alla realtà, perché la profezia si compirà in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, sarà Lui il vero segno dell’amore e della presenza di Dio tra gli uomini. Il Vangelo (cf. Mt 1,18-24) ci mostra proprio come le profezie, per compiersi, hanno bisogno della collaborazione fattiva dell’uomo e Giuseppe, lo sposo giusto di Maria, ci presenta il suo non semplice cammino, nell’accogliere ed obbedire alla volontà del Signore. Nella Seconda Lettura, invece, Paolo, scrivendo ai Romani (cf. 1,1-7), presenta la sua chiamata ad annunciare il Vangelo, “per suscitare l’obbedienza della fede” e donare ai fratelli la certezza della salvezza a tutti concessa, attraverso Gesù Cristo, il Dio con noi.
Il Natale del Signore è ormai alle porte e tutti siamo chiamati come Paolo a farci annunciatori della presenza di Dio, nella vita del mondo (Seconda Lettura), vivendo il nostro cammino, per generare, con Giuseppe di Nazaret (Vangelo), la nostra obbedienza al progetto di Dio e vedere così che le antiche profezie si compiono, quando l’uomo docilmente si lascia portare dalla potenza di Dio (Prima Lettura).

La vita come servizio

Tra gli scritti dell’apostolo Paolo, l’Epistola ai Romani è una delle più importanti – è parte di quelle definite Lettere Maggiori – perché, in quindici capitoli, l’Autore sviluppa una riflessione teologica abbastanza completa e sistematica, sull’annuncio cristiano, chiarendo i cardini della fede nel Risorto ed affrontando le questioni più spinose dell’esistenza credente, nella giovane comunità della capitale dell’impero. Il brano liturgico odierno è formato dai primi sette versetti della lettera, dove il mittente, i destinatari ed i saluti iniziali, parte che possiamo considerare fissa, visto che è l’incipit di ogni epistola. Paolo, utilizzando una modalità comunicativa, quale l’epistola, ben attestata nel peridio greco-romano, la fa divenire veicolo dell’annuncio del Vangelo, per seguire le varie comunità, perché crescano nella fede e si sentano accompagnate nella traduzione della fede in scelte concrete di vita.
La prima parola dello scritto riguarda il suo autore, mostrando la consapevolezza che egli ha del ministero che Dio gli ha affidato. Si legge: “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (v. 1). Ad una lettura superficiale potrebbe sembrare una semplice presentazione, volta ad indicare chi è colui che scrive. In realtà, essa rivela molto di più, mostrando che l’identità dell’apostolo e la sua incisività nella vita della comunità credente deriva da Dio Padre e dal suo Cristo, nella forza dello Spirito. Paolo ha profonda consapevolezza di essere “servo di Cristo Gesù” e la sua parola non è uno sfoggio di umiltà, né tantomeno vuole ingraziarsi i Romani, perché lo accolgano con benevolenza, vista la poca considerazione che egli ha di se stesso. Definirsi in questo modo, non significa utilizzare un artifizio retorico, quanto, invece, testimoniare il suo cammino di assimilazione della vita di Cristo in lui. Il cammino di sequela che egli ha vissuto e vive, dopo l’incontro con il Risorto, sulla via di Damasco, lo ha condotto a mutare radicalmente prospettiva, per capire che non è la giustizia derivante dalla legge dei padri a giustificarlo, ma la Pasqua di Cristo che, accolta nella fede, dona la salvezza e concede di sperimentare la vita in pienezza. La relazione che egli vive con Cristo è in termini di servizio per il Vangelo, perché, incontrando il Signore, Paolo ha compreso che la vita può essere veramente vissuta, solo se diventa dono per i fratelli, in obbedienza a Dio e alla modalità scelta dal suo Cristo, nel perseguire la salvezza degli uomini. Come Cristo è servo, così anche i suoi sono chiamati a seguirlo nel servizio e nel dono di se stessi, senza riserve, perché la strada maestra che conduce al Golgota il Figlio di Dio fatto uomo è la medesima via che ogni discepolo è chiamato a percorrere, con lo stesso amore, la medesima passione, con uguale spirito di sacrificio e di offerta, ricchi dell’amore che il Padre riserva a chi vive nella sua volontà. Non c’è titolo che possa uguagliare questo per il cristiano, perché è il nome con cui Maria ha definito se stessa, nella relazione con Dio e la sua parola, mediata attraverso l’angelo – “Eccomi sono la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38) – ma è anche il nome con cui il Signore ha presentato se stesso ai suoi, che disputavano tra loro su chi dovesse essere considerato il più grande: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). In tal senso la vita diventa un servizio, un’offerta che nasce dalla gratuità sperimentata nella grazia concessa da Dio e che abilita il discepolo ad usare con gli altri la stessa gratuita misura di amore. Dio Padre riversa attraverso il mistero pasquale del suo Figlio la grazia del dono, in coloro che vengono rigenerati nel sangue del Crocifisso e partecipano alla dignità filiale che Egli gratuitamente offre. Il servizio lo vive come dono da partecipare ai fratelli, solo chi lo ha sperimentato da parte di Dio in prima persona. Così i discepoli, che nel cenacolo vedono il Maestro farsi loro schiavo, hanno da Lui appreso l’arte del servizio e, dopo la resurrezione del Signore, irrobustiti dalla grazia dello Spirito, hanno compreso che quel gesto compito dal Maestro era il modello di una vita spesa per gli altri, uno stile di vita da testimoniare e trasmettere, perché non mancasse nella Chiesa e nel mondo, vite che ripresentassero la medesima dinamica del dono gratuito e che vivessero lo stesso amore di obbedienza al Padre e di servizio amoroso agli altri. Se non apprendiamo da Gesù l’arte del servizio, se non apprendiamo da Lui l’umiltà nel farci servi, se non teniamo fisso lo sguardo su Colui, che non ha ricusato, per amore, la passione e la morte di croce, non potremo vivere il servizio come dono, ma, pur dicendo il contrario, come un potere da esercitare, una tirannia da imporre, un’autorità che ci mette sopra gli altri, non a livello dei loro piedi, come ha fatto Gesù.

Dirsi servo significa affermare di non appartenersi più e di non volersi più appartenere, di non disporre liberamente di se stessi e della propria vita, ma di dipendere in tutto da colui al cui servizio si è stati introdotti. Il servizio di cui Paolo sta parlando non è una schiavitù imposta, ma un dono scelto, un ministero al quale si è stati chiamati, una grazia che Cristo stesso ha partecipato ai suoi. Si serve per amore, perché l’amore ci ha eletti e sedotti, nell’amore abbiamo scoperto la ragione della nostra vita e si serve perché è questo il linguaggio che l’amore conosce, cercare il bene degli altri, accogliendo il servizio del fratello, finanche ad offrire per lui la propria stessa vita. Essere servo di Gesù Cristo significa che è Gesù la sorgente del proprio servizio, sua è la forza e la gioia, nel farsi prossimi ai fratelli, nel vivere la compassione del buon samaritano. Al tempo stesso però dirsi servo di Gesù Cristo vuol dire anche che io servo Gesù negli altri, perché si realizzi quanto Egli stesso ha promesso: “tutto quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

Se riuscissimo a comprendere che essere servi è la nostra vera dignità, che nel servizio gratuito e totale abbiamo la sorgente della nostra gioia, la partecipazione alla vita di Gesù, la grazia di realizzare noi stessi, nel dono della nostra vita. Solo quando diremo, consapevolmente, che siamo servi inutili, potremo dire di iniziare a comprendere qualcosa del nostro essere discepoli di Gesù. La vita come servizio non è un gioco, in famiglia ed in comunità, ma un impegno impellente, che ci è chiesto di espletare, non nelle grandi occasioni, ma nelle feriali situazioni della vita, quando non veniamo apprezzati, né considerati dalle persone, dalla quali ci aspetteremmo un palese riconoscimento dell’amore che nutriamo. Solo l’amore genera il servizio, solo la fedeltà alla grazia della vocazione ci rende capaci di non vedere i torti subiti, ma di accogliere tutto, con gioia. Non c’è altra dignità nella Chiesa del servizio d’amore. Nel battesimo al Giordano, Gesù ha ricevuto l’unzione dello Spirito, che lo ha reso servo del Padre, totalmente proteso a fare della sua vita un dono ai fratelli, per rivelare l’amore divino in pienezza; come Lui, anche noi, unti di Spirito Santo, riceviamo la missione di essere servi e di partecipare alla salvezza del mondo, con la nostra stessa vita. Dobbiamo sempre chiedere al Signore la sua forza per vivere nel dono, perché come il serpente sedusse Eva, così anche noi possiamo essere colpiti dalla tentazione di vivere nell’egoismo, asservendo i nostri fratelli. Se Maria si è definita “serva del Signore” (Lc 1,38) e di Gesù è detto che, venendo nel mondo, ha pronunciato, rivolto al Padre: “Ecco io vengo […] per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7), anche noi siamo chiamati, al pari di Paolo, a percorrere la medesima strada, condotti per mano dallo Spirito, che non rifiuta la sua forza a chi confida in Lui.

Donami, o divino Bambino, nato per me a Betlemme, di imparare da te, la bellezza e la grazia dell’essere servo. Tu che sei venuto nel mondo per farci conoscere l’amore del Padre, concedi anche a me che l’amore è vero solo se ci porta a metterci al servizio dei nostri fratelli. Ci sono tante strade davanti a me, come ci furono nel deserto anche per te, odo la voce del tentatore, che, come sedusse Eva, così prova sempre a farci cadere, manda su di me il tuo Spirito Santo, perché mitighi le passioni, calmi le tempeste che l’egoismo e la superbia fanno sorgere, cosicché ci sia in me la bonaccia del tuo amore e la pace della tua presenza.

La chiamata all’apostolato

La seconda sottolineatura che Paolo fa, nel presentarsi alla comunità di Roma, dopo essersi definito “servo di Gesù Cristo” è quella di “apostolo per chiamata”. Entrambi sono titoli che derivano dalla relazione con Cristo, che l’incontro di Damasco ha determinato, come una rottura con il passato. Cristo Gesù, il crocifisso risorto, ha portato il giovane Saulo ad un cambiamento totale della sua vita. Egli, sotto la luce della grazia, comprende che non sono le opere della legge che rendono giusto l’uomo, ma la grazia che Dio accorda gratuitamente ad ogni uomo, attraverso Gesù Cristo. Le opere non determinano il perdono da parte di Dio, ma vengono in seguito, segno di come l’amore sperimentato trasformi la vita di chi segue il Signore ed obbedisce alla sua parola. Saulo comprende che la sua identità non dipende da ciò che lui compie, ma da quello che Cristo gli affida, dall’amore che nutre per lui, dalla benevolenza che gli accorda, dalla grazia che copiosamente effonde. Ciò che sono, infatti, non dipende da quello che io penso o voglio, da quanto faccio e da come desidero che gli altri mi guardino e giudicano. “Quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più” insegna san Francesco di Assisi. Il servizio del Vangelo, che è puro dono di grazia da parte di Dio per il suo eletto, lo rende apostolo, cioè inviato, per la causa del Regno. In tal modo, se in passato era stato lui “che si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a quella Via” (At 9,1-2), ora, passato per il crogiolo della Pasqua del Signore lascia che sia Lui a dargli un compito e non arroga per sé nessun diritto, se non quello di obbedire in tutto a quanto gli viene indicato. Per questo qui può definirsi “apostolo per chiamata”, mentre, scrivendo ai Corinzi, afferma “Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo” (1Cor 1,17). Paolo comprende che tutto dipende da Dio, è Lui che chiama al servizio nella sua Chiesa e la sua chiamata determina nel prescelto la consapevolezza di vivere nel dono non meritato e di essere depositario ad amministrare la grazia della salvezza di cui nessuno si può dire la sorgente, al di fuori di Cristo Gesù. È la chiamata di Dio, la sua volontà, che rende Saulo apostolo del Vangelo, annunciatore della sua parola, messaggero del progetto divino, che si è realizzato in Gesù Cristo. Non è lui a darsi questo compito, ma lo ha ricevuto, nell’incontro con Cristo. Egli stesso lo dice ai Galati: “Quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciasse in mezzo alle genti …” (Gal 1,15-16).Paolo è profondamente compenetrato dalla consapevolezza di essere chiamato ad annunciare il Vangelo e sa che in Cristo ha ricevuto tale compito, che può dire “annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9,16). Per questo in seguito vi ritorna, mostrando come la grazia del ministero lo ha raggiunto, attraverso Gesù Cristo. Scrive, infatti, di seguito, a voler meglio spiegarsi: “per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome” (v. 5).

Essere apostolo, sperimentare lo sguardo di predilezione del Signore che ci consacra e ci manda, è, al tempo stesso, un dono e una responsabilità. Come Cristo che fu consacrato nel Giordano, con l’unzione dello Spirito Santo ed ha iniziato la predicazione del Regno, nella forza dell’amore che il Padre da sempre ha nutrito per Lui, Figlio diletto, anche noi siamo chiamati, consacrati ed inviati, per annunciare il Vangelo. Leggere di Paolo e della sua consapevolezza della grazia dell’apostolato deve spingere anche noi a diventare sempre più grati al Signore per la grazia che ci usa continuamente, chiamandoci ed inviandoci, dopo averci formati alla scuola del suo Figlio, perché i nostri fratelli, incontrando Gesù, conoscano la vita vera, sperimentino la gioia sovrabbondante del Risorto, vivano del suo amore. Dobbiamo riscoprire – Paolo, scrivendo a Timoteo, gli chiede di ravvivare (cf. 2Tm 1,6) – la grazia della vocazione cristiana, la chiamata a stare con Lui, che è il Maestro ed il Signore, per poi andare a predicare con la vita le grandi opere che Lui compie in noi e attraverso di noi, nella storia. Da un lato il credente è chiamato a contemplare le grandi opere che il Signore compie, dall’altro è invitato a dare a Dio la possibilità di operare in Lui meraviglie, così che, come la tela è nelle mani dell’artista, la nostra vita, nelle mani di Dio, diventi un capolavoro, non è forse accaduto questo nella vita di Maria e di Giuseppe, dei pastori e dei Magi di Simeone ed Anna? Il mondo ha bisogno di apostoli, di testimoni franchi e coraggiosi dell’amore di Cristo. Come la Vergine ha dato carne al Verbo, così noi siamo chiamati a dare carne al Risorto, perché il suo Spirito ci renda Chiesa, corpo suo, presente nella storia. Se tutti abbiamo ricevuto, con il battesimo, la grazia dell’apostolato, perché non metterla a frutto, perché nascondere la luce sotto il moggio, senza porla sopra il lucernario, perché possano vedere tutti coloro che sono nella casa? Senza la nostra presenza, il mondo manca della luce del Signore, nato a Betlemme, crocifisso a Gerusalemme, Risorto dal sepolcro. Egli è la luce che illumina ogni uomo, ma chiede anche a noi di renderlo presente, di far diventare la nostra vita manifestazione della sua grazia, riflesso del suo chiarore. Non possiamo né dobbiamo accogliere invano la grazia, ma è necessario che in noi splenda la presenza del Salvatore, perché il suo chiarore sia nel mondo luce di speranza e proposta di gioia per tutti.

Tante volte credo che la missione riguardi gli altri e che annunciare il Vangelo sia un’attività da santi, nulla di più sbagliato, ma solo ora me ne rendo conto. Tu che hai detto “Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto”, puoi guidarmi a fare del mio meglio perché in me il tuo Vangelo risuoni e progressivamente la tua grazia mi trasformi. Concedimi di comprendere che l’amore rende evangelizzazione ogni gesto della mia vita, che l’amore lascia quel profumo di te che i fratelli percepiscono, solo l’amore disinteressato, gratuito totale, pronto al perdono e al sacrificio, è segno di quella trasformazione che attende ogni uomo. Dona alla mia famiglia e alla mia comunità di evangelizzare amando, perché la luce della tua nascita avvolga della tua gioia ogni uomo.

Tutti siamo amati da Dio

Non è semplice talvolta leggere gli scritti di Paolo, per il suo periodare, assai ricco e articolato, ma non per questo risulta impossibile comprendere quando egli scrive, quando è lo Spirito Santo a guidarci. I primi versetti dell’Epistola ai Romani ne sono un esempio, con il grande inciso dei vv. 2-6, che chiariscono la comprensione della salvezza, operata da Gesù Cristo e sottolineano ulteriormente il ministero affidato a Paolo, perché tutte le genti conoscano la verità e si aprano alla grazia della fede: “… il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo” . Come ci mostra oggi la pagina evangelica, con la descrizione della vocazione di Giuseppe di Nazaret, chiamato da Dio ad essere il padre legale del Redentore, il Figlio di Dio è “nato dal seme di Davide secondo la carne”. È questo il mistero al quale ci prepariamo, ma colui che Maria partorisce, nella povertà del presepe, è il Signore, “costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità”. Nella resurrezione il Padre manifesta l’identità divina del suo Figlio diletto e lo addita alle genti come mediatore della grazia e modello dell’uomo nuovo. L’attenzione dell’Apostolo è quindi tutta su Gesù Cristo, è Lui che annuncia, perché è Lui la salvezza, la grazia e la pace per ogni uomo. In Cristo poi Paolo sperimenta quell’amore che investe ogni uomo, lo raggiunge come misericordia, lo libera dalla schiavitù, donandogli la gioia di vivere di Lui, per sempre. I Romani, infatti, sono “amati da Dio e santi per chiamata” (v. 7).

Il significato del Natale è proprio nella scoperta dell’amore, nell’esperienza dell’amore, nel sentirsi raggiunti da Dio ed amati. Quando una persona si sente amata, realizza la sua vita e comprende di aver raggiunto la pace del cuore, perché solo nell’amore di Dio, noi uomini possiamo dire che la vita ha veramente senso. Paolo annuncia l’amore che il Padre ha rivelato a noi, attraverso Gesù. Egli spinge i Romani a crescere nella consapevolezza che, in Cristo, l’amore li raggiunge, la tenerezza li avvolge, la bontà li seduce, la grazia li circonda, la santità li attende, per vivere della stessa vita di Dio. L’Apostolo mostra anche a noi la strada dell’amare e del sentirsi amati, come l’unica che ci spinge ad essere santi e a vivere nella gioia che la presenza di Gesù Cristo continuamente ci dona.

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