Natale del Signore – Anno A – 25 dicembre 2019

È apparsa la grazia di Dio per tutti gli uomini.

Natale

La grazia, la bontà di Dio, il suo amore è potenza di trasformazione e di conversione. Come i santi Magi ritornano nel loro paese, per un’altra strada, così anche noi dobbiamo vedere che Dio opera in noi e noi siamo chiamati a farlo operare, in una vita santa, che diventa esplosione di carità di perdono ed accoglienza degli altri.

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito (2,11-14)

Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.

 

Siamo giunti alla meta del nostro cammino e, al pari dei pastori e dei Magi, contempliamo il divino Bambino, che ci è stato annunciato con il Salvatore del mondo, la sorgente della gioia per ogni uomo. Abbiamo vegliato e ora la nostra speranza si compie, in quel Bambino, che Maria stringe tra le sue mani, c’è la salvezza per noi, la gioia vera, perché Dio ha visitato il suo popolo, illuminando coloro che erano nelle tenebre e camminavano nella notte. La liturgia di questo giorno è ricchissima, come quella della notte di Pasqua. Sono ben tre i formulari che ci vengono offerti, senza contare quello della Messa vespertina della vigilia – per accogliere il mistero del Verbo della vita, che ci raggiunge, faccendoni uomo. Soffermandoci sulla liturgia della Messa della Notte, notiamo come la pagina evangelica descrive l’evento della nascita di Gesù a Betlemme, dove Maria e Giuseppe sono scesi, per il censimento voluto da Cesare Augusto (cf. Lc 2,1-14), la Prima Lettura, tratta dal libro del profeta Isaia (9,1-6), presenta il cammino del popolo d’Israele, perché possa passare dalle tenebre alla luce, grazie a quel Bambino, chiamato “Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”. Nella Seconda Lettura,invece, tratta dall’Epistola a Tito (2,11-14), l’Apostolo Paolo descrive la bontà di Dio che, attraverso Gesù Cristo, ci rigenera a vita nuova e ci dona salvezza. L’evento della nascita del Salvatore (Vangelo), realizzando le antiche profezie (Prima Lettura), ci offre la grazia della salvezza, che siamo chiamati a testimoniare in una vita santa (Seconda Lettura).

Raggiunti dalla grazia del Signore, nato a Betlemme per noi

Tra le Lettere, tradizionalmente attribuite all’apostolo Paolo, tre vengono definite Lettere Pastorali, perché indirizzate a due collaboratori di Paolo nell’annuncio del Vangelo. Si tratta delle due Lettere a Timoteo e della Lettera a Tito, entrambi menzionati più volta come compagni dell’Apostolo, nei suoi viaggi missionari. Mentre di Timoteo abbiamo maggiori notizie, sulla base dei racconti degli Atti degli Apostoli, veniamo informati su Tito e sul lavoro apostolico che egli compie nelle varie comunità cristiane delle origini, dallo stesso Paolo, che lo cita nelle sue lettere, per gli incarichi che volta per volta gli affida (cf. Gal 2,1-5; 2Cor 2,13; 7,6-16; 8,6. 23; 12,18). A lui è indirizzata anche una Lettera, nella quale, in tre capitoli, l’Apostolo offre delle concrete indicazioni perché la comunità di Creta a lui affidata (cf. Tt 1,5), rifuggendo i falsi dottori, trovi stabilità sia dottrinale sia organizzativa, così da testimoniare l’appartenenza a Cristo ed il radicamento nel suo Vangelo.
La pericope che la liturgia ci offre (cf. Tt 2,11-14) rappresenta la parte spiccatamente teologiche del capitolo, che motivano le sezioni esortative (cf. Tt 2,1-10), mostrando come la forza dell’argomentazione paolina sia la potenza della rivelazione di dio, nella storia. Se ci fermiamo a meditare, lasciando allo Spirito di guidarci, nelle insondabili ricchezze del Mistero di Cristo, che si riverbera nella sua Parola, ci rendiamo conto che la nostra fede è la risposta libera dell’uomo a Dio, che si manifesta nella nostra vita, secondo il mistero della sua volontà. Scrive l’autore “è apparsa la grazia di Dio” (2,4) e poi, ritornando sullo stesso concetto, rafforzato dalla ripresa del medesimo verbo, appunta “quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro e il suo amore per gli uomini” (3,4). L’uomo, sembra di poter leggere tra le righe, non può giungere a Dio con le sue forze – “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18) – e resta un mistero la sua natura ed il progetto della sua volontà. È Lui che, liberamente, si rivela, perché vuole rivelarsi – “Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso ed il mistero della sua volontà” scrive il Concilio in Dei Verbum 2 – desidera intrattenersi con gli uomini, “per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé”. E mentre il salmista può dire “se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28, 1), così ogni credente deve confessare il primato di Dio nella sua vita di fede. È Dio che, poiché “ci ha amati per primo” (1Gv 4,19), si è manifestato (cf. 1Gv 1,1). È questo che celebriamo oggi, la rivelazione di Dio nella nostra storia. Il Creatore che in antico aveva dato prova del suo amore e della sua fedeltà, dando fondo al suo amore, realizza la sua volontà e, per manifestarsi in modo definitivo, si fa uomo, inviando nel mondo il suo Figlio come salvatore. L’Incarnazione è il punto di arrivo di una dinamica rivelativa che Dio ha da sempre vissuto, entrando nella nostra storia e che continua a vivere sempre, per raggiungerci e donarci la salvezza. Non accadrà così anche per i discepoli, dopo la resurrezione? Impauriti e increduli, vedranno il Signore, passato attraverso la morte, perché sarà Lui a farsi vedere, nel mistero della sua bontà. L’Apostolo vuole che Tito e la sua comunità cresca nella consapevolezza che noi siamo nelle tenebre se Dio non ci illumina dall’alto come sole che sorge, noi siamo nel peccato, se la grazia divina non ci raggiunge e trasforma dal di dentro, rimaniamo nella morte, se la vita del Signore non ci comunica quell’amore, capace di strapparci dalle tenebre, per farci rivivere grazie a Lui e vivere in Lui.
È importante capire per esperienza che è sempre Dio a raggiungerci, a fare il primo passo, a prendere l’iniziativa, ad illuminare il nostro cuore e aprire la mente, come accadde ai discepoli di Emmaus, all’intelligenza delle Scritture. Come i pastori, dobbiamo riconoscere i segni che Dio lascia nella nostra vita, lasciando che la gloria di Dio ci avvolga di luce, dandoci la grazia di prendere il cammino verso la stalla di Betlemme. Dio si manifesta, sappiamo riconoscere la sua presenza? Il Signore si rivela, comprendiamo i segni del suo apparire? Tutto intorno a noi parla della bontà di Dio, viviamo ogni giorno nello stupore e nella gratitudine?

Avvolti dalla grazia, al pari dei pastori

È apparsa” scrive Paolo ed il soggetto agente è costituito ora dalla grazia (2,11) o dalla bontà e dall’amore (3,4), termini tra loro interscambiabili, quasi a dire che il Signore, nel suo manifestarsi è mistero di gratuità, effusione di amore per necessità di essere – Dio non potrebbe essere diversamente da come è e da come mostra di essere – ci raggiunge con la sua benevolenza, nel suo Figlio Gesù, ci mostra il volto che Mosè non poté contemplare, pur volendolo, la sua bontà ed il suo amore di elezione. I concetti si arricchiscono a vicenda, è quasi una corsa ad esprimere, con parole umane, l’inesprimibile mistero della vita di Dio che si comunica in Cristo. Si dice una parola e poi l’altra, che verrà dopo la richiama, la colora di nuovo, vuol mostrare una profondità maggiore, una luce più chiara. Il desiderio dell’autore ispirato è lo stesso del credente, che vuole dare visibilità sempre maggiore alla potenza di Dio, cha abita il suo cuore, illumina la mente ed accende nell’animo suo il fuoco della presenza divina. Mai deve venire meno questo desiderio di correre nell’esprimere l’amore, di dargli vivacità di accenti, di accumulare parole diverse, pur di dargli voce – a patto che siano parole autenticamente dette e sapientemente cercate! – perché l’amore non può a lungo celarsi, né per sempre nascondersi. Paolo lascia che l’amore in lui esploda, che Gesù Cristo, incontrato sulla via di Damasco e, in seguito, sempre nuovamente cercato e trovato, perché Lui ci cerca e ci trova, scandisca il suo annuncio e motivi l’impegno pastorale. Se anche il nostro ministero, da presbiteri e genitori, fosse scandito dall’ansia di donare l’amore che ci portiamo nel cuore, dal desiderio di tradurre l’esperienza di fede, di trasmettere il Dio che ci ha parlato e ci è venuto a cercare! Noi dobbiamo sapere per esperienza – senza esperienza diretta, quello che diciamo non incide nella nostra vita e le parole che pronunciamo sono vuote, seminano vento e raccolgono tempesta – Dio è buono e fa il bene. Con il salmistra, solo allora potremo cantare “Paziente e misericordioso è il Signore, lento all’ira e ricco di grazia. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature” (Sal 144,8-9). Perché non riusciamo ogni giorno a trovare del tempo per contemplare la presenza di Gesù che nella nostra vita è grazia e bontà? Lui appare agli occhi del nostro cuore, brilla evidente nella mente che lo cerca, all’anima che lo attende, come le sentinelle l’aurora. Cristo non si fa aspettare e, se invocato, viene, se supplicato corre, se sa che un suo discepolo anela alla fonte della vera vita, si mostra, nello splendore della sua gloria e lo circonda della luce nuova del suo amore.

L’uomo che sperimenta l’apparire di Dio si ferma, estatico e cresce nella consapevolezza che Dio è grazia su grazia, che Lui è buono e fa il bene e più noi sperimentiamo ogni giorno i limiti e le difficoltà nostre e dei fratelli, maggiormente brilla in noi il mistero della sua luce. Dio non ha paura del nostro buio, anzi, lì dove il buio signoreggia e sembra prevalere, Lui appare come grazia che perdona e bontà che cura. Anche i pastori, nella notte santa del Natale del Signore sperimenteranno la gratuità dell’amore di Dio, che li raggiunge, attraverso l’angelo, vivranno lo stupore di essere stati prescelti, per camminare nella luce, attraversando la notte, di trovare nel Bambino Gesù, “avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia” la risposta ad ogni dubbio che il cuore dell’uomo sente. Dio appare, ci circonda con la sua grazia, ci riempie della sua forza, ma i nostri occhi devono riconoscere il suo apparire, devono aprirsi a riconoscere la sua presenza, a lasciarsi interpellare dalla sua azione. Non ci capiti di cadere, come Cleopa ed il suo compagno, sulla via da Gerusalemme ad Emmaus, di avere gli occhi incapaci di riconoscere la luce del Signore, il suo apparire potentemente nella nostra vita e, qualora questo dovesse capitare, chiediamo che i nostri occhi, come quelli di Tobi, unti con il farmaco della misericordia, con il collirio dell’amore, che solo Cristo può donare, si aprano a contemplare la bellezza della presenza luminosa di Cristo salvatore. L’amore di Dio e, di rimando, l’amore suo in noi che è Spirito effuso dal costato di Cristo, è mistero di gratuità e di benevolenza. Se il nostro affetto non ha queste caratteristiche, se cerchiamo il tornaconto e guardiamo all’interesse, se l’appropriazione si insinua nelle intenzioni più rette, nei pensieri più santi, nelle idee più alte, senza che noi iniziamo a guerreggiare contro il nostro egoismo, perché il rinnegamento lo estirpi, attraverso un serio cammino di conversione, dal nostro cuore, allora non possiamo dire che lo Spirito abita in noi, i nostri rapporti sono plasmati dalla sua grazia, i nostri sguardi e parole sono il riflesso della bontà di Dio. Questo perché – è lo stesso testo biblico ad indicarlo con chiarezza – siamo chiamati a scelte concrete e testimoniare nella vita la potenza di Dio che viene a visitarci dall’alto. La grazia, la bontà di Dio, il suo amore è potenza di trasformazione e di conversione. Come i santi Magi ritornano nel loro paese, per un’altra strada, così anche noi dobbiamo vedere che Dio opera in noi e noi siamo chiamati a farlo operare, in una vita santa, che diventa esplosione di carità di perdono ed accoglienza degli altri.

Scrive sempre l’Apostolo, “la grazia di Dio apporta salvezza”, la bontà e l’amore suo “ci salvò … per la sua misericordia”. Se lasciassimo a Dio di muoversi liberamente in noi e tra noi! Se la potenza della sua grazia, che è amore e bontà infinite, ponessero in noi la sua dimora, la nostra vita sarebbe come un granaio, dove tutti possono attingere per nutrirsi, come un alveare, nelle cui celle la dolcezza del miele non è calato, ma conserva tutto per dilettare, per rallegrare. Cristo porta salvezza. Che amore possiamo dire di avere per la persona che ci vive accanto, se non riusciamo, con il nostro affetto, con la cura e la presenza, a donargli la salvezza che spera, la liberazione che desidera? L’amore dona salvezza, perché riscatta il reo dalla sua schiavitù, strappa dalla polvere, in cui si raggira chi è caduto e non sa risollevarsi, perché soffre per il dolore dell’altro ed è disposto a dare la propria vita, perché l’amato viva. Non è forse quello che fa Gesù, giungendo al dono della sua vita, nel sacrificio della croce? L’amore deve operare la salvezza, la bontà deve mostrare che tutto è fatto come segno di misericordia. La nostra vita e la nostra famiglia e comunità, i rapporti che ci rallegrano, le amicizie che ci arricchiscono, anche le situazioni che ci spingono a metterci in gioco e a far fruttificare i talenti che ci sono stati dati, sono un segno della misericordia. Se riuscissimo a passare dal vivere, credendo che tutto ci è dovuto, al considerare che ogni realtà è un dono della misericordia divina, attraverso le persone che ci sono accanto. In tal caso, non saremo più soggetti alla pretesa, il cui giogo il nostro egoismo ci impone, ma vivremo nel dono e nello stupore, perché tutto è amore gratuito che il Signore mi manifesta. Se, invece, lascio che il tarlo del nemico mi porti a pensare che io faccio e gli altri non mi considerano, che io amo e l’altro non sa ricambiare l’affetto, né mostrarmi attenzione, cadrò nella trappola del tornaconto ed il mio amore non sarà il segno di ciò che Dio può operare nella vita docile del credente, rendendolo partecipe dell’amore crocifisso del suo Figlio. Paolo dice che “egli ci ha salvati, non per le opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia” (3,5). Solo l’amore ci salva, di Dio per noi e nostro nei riguardi dei fratelli. Non sono i progetti o le idee a salvarci, non i programmi pastorali o le dinamiche che attuiamo, dopo un attento studio delle situazioni. Senza amore, tutto è vano, senza misericordia, la cui fonte è resa sempre il Cuore del Risorto, non potremo, se non vivere soggetti alle passioni del nostro egoismo, mai spaziare nel cielo dell’amore che ci dona la libertà di non attendere il contraccambio. Amare non significa guardare a ciò che io faccio, se non per vedere cos’altro posso ancora attuare, perché l’altro abbia la vita; amare non significa credersi giusti, come i farisei, pronti a disprezzare o giudicare gli altri, perché sono diversi da noi e vivono, secondo una consapevolezza che, oltre ad essere diversa da noi, li porta a vivere di conseguenza; amare non vuol dire tenere l’occhio fisso su ciò che si fa o non si fa, pronti a misurare e pesare le azioni e le intenzioni. Amare significa coprire ogni realtà di misericordia, guardare con gli occhi di Dio che non tiene conto il male, l’errore ed il peccato, abbracciare di tenerezza ogni realtà, infondere fiducia in ogni situazione, perché è Cristo la nostra speranza e Lui non viene mai meno, sempre fedele all’amore che nutre per noi, sempre uguale all’amore che Egli è da sempre e per sempre.

Permeati dalla grazia divina

Paolo, nell’indicarci l’amore di Dio che libera e salva e “ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà” (2,12), offre un’immagine significativa, nel giorno in cui celebriamo il Battesimo di Gesù. La salvezza, frutto della grazia, della bontà e dell’amore, ci ha arricchiti “con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro” (3,5). Non si parla direttamente del battesimo, ma è chiaro il riferimento al sacramento – si pensi al termine lavacro, reso in italiano, nella traduzione CEI 2008, con acqua – che ci rende figli di Dio, eredi con Cristo del Regno e fratelli fra noi, per il dono dello Spirito. È l’acqua del fonte che ha la forza del Consolatore per rigenerare e rinnovare. È questo il miracolo, la trasformazione che Dio Padre opera in Cristo, attraverso la forza del suo amore, per mezzo dello Spirito che ci è stato dato. Nella Pasqua di Cristo, dal suo costato trafitto, è sgorgata su tutta la comunità dei credenti, la Chiesa, l’acqua dello Spirito che fa zampillare in noi la vita divina. Il battesimo è lavacro di rigenerazione e rinascita. In esso rinasciamo figli e veniamo rigenerati, per iniziare un’esistenza scandita dall’amore che Cristo ha nutrito per noi. Siamo chiamati a gettare le opere delle tenebre e a rivestirci delle armi della luce, a camminare in pieno giorno, sapendo che siamo portatori della luce di Dio, e che in noi lo Spirito è forza continua di rigenerazione e di rinascita. Difatti, se un giorno abbiamo ricevuto il sacramento del Battesimo, gli effetti, la presenza dello Spirito di Cristo risorto e la sua azione, sono sempre con noi. La vita cristiana rappresenta, quindi, una continua esperienza spirituale di illuminazione interiore, di rigenerazione nella misericordia, di rinnovamento del proprio egoismo, nel dono accolto e concesso agli altri.

Vivere il mistero del Natale significa decidersi per Cristo, lasciando che il suo amore in noi operi secondo la volontà del Padre. Raggiunti dalla luce del Signore, purificati nella potenza del suo amore, siamo chiamati a rispondere all’amore con l’amore e a deciderci per una vita nuova e vera. Non ha senso celebrare il Natale, senza gettare le opere delle tenebre, non serve deporre una statuetta del Bambino Gesù nel presepe, senza “rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà”. Vivere da salvati, vivere nella luce del Cristo che nasce a Betlemme, vivere nello stupore di sapere che Dio ci ama di un amore che per noi, per quanto vogliamo impegnarci a comprenderlo, rimarrà sempre un mistero, vivere, sapendo di donare ai fratelli, il chiarore della gloria del Signore, attraverso la bontà dei nostri gesti e della grazia delle nostre parole: è questo il senso del Natale.
Che il Signore ci conceda la luce della sua visita e la grazia di vivere nella luce della presenza di amore e di gioia, di pace e di concordia, di bontà e di vita, senza fine.

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