
L’audacia della fede
di don Silvio Longobardi – s.longobardi@puntofamiglia.net
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 1,57-66)
In quei giorni, per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei. Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.
Il commento
“Volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne…” (1, 59-60). Fino a quel momento Elisabetta era rimasta nell’ombra, ora invece appare in piena luce e rivendica il diritto di dire la sua. Non è affatto scontato, anzi appare agli altri parenti come una plateale intrusione. Dove trova il coraggio di intervenire e di uscire dall’anonimato sociale in cui erano relegate le donne del suo tempo? La risposta è chiara: questa donna è sospinta dalla fede! Ma è una fede vivificata dalla luce e dalla forza che viene dallo Spirito Santo (1,42). L’incontro con Maria è stato contagioso, ha suscitato nel suo cuore un’audacia che non pensava di avere. Quel giorno Elisabetta è come sospinta dallo Spirito e trova il coraggio di parlare. La fede ci rende protagonisti, non ammette quell’atteggiamento rassegnato di chi resta nell’ombra per non rischiare nulla, ci fa uscire dall’ombra e ci chiede di stare in prima fila. Vale la pena ricordare che la donna non difende le sue opinioni ma custodisce fedelmente la parola che l’angelo aveva consegnato a Zaccaria (Lc 1,13). L’intervento di Elisabetta costringe anche il marito a prendere posizione. Fino a quel momento era rimasto a guardare, ora invece chiede una tavoletta e scrive: “Giovanni è il suo nome” (1,63). La donna precede e orienta le scelte dell’uomo. È questo il vero protagonismo femminile, quello che non cade nella trappola della rivendicazione individuale ma favorisce una comunione coniugale che si misura con la Parola di Dio.
Chiamandolo Giovanni i due sposi intendono fare memoria della grazia ricevuta e nello stesso tempo offrono a Dio quel bambino perché si compia in lui la Sua volontà. In genere chi riceve un dono dopo aver atteso tanto tempo, lo custodisce gelosamente. Elisabetta e Zaccaria invece non lo trattengono ma fin dall’inizio sono pronti a donare quello che hanno ricevuto in dono. Ogni forma di possesso avvolge di sterilità la nostra vita. La disponibilità a donare invece permette alla vita di fiorire come un albero a primavera. Più che chiedere doni, in questi giorni santi, domandiamo che la nostra vita sia un dono.
Nessun commento per “L’audacia della fede”