Natale in Africa

La mia Betlemme tra le capanne africane…

di Valentina Cristiani

Qualcuno prima che partissi per l’Africa mi aveva detto: “Cosa vai a fare in quella terra dimenticata da Dio?”. No, Dio non si è dimenticato dell’Africa e anzi è lì che ho visto nascere Gesù Bambino.

Un lampo, un tuono assordante e le luci si spengono. Tutte tranne una: la fiamma di una candela. Si muove lenta, come se quel temporale lì fuori non fosse affar suo. È calda e morbida… sembra quasi stia danzando. Danza e fa danzare le ombre di tutto ciò che illumina. Non può spegnersi, ha una missione importante da svolgere: far luce a Gesù. Sono in Cappella, intenta a fissare quella fiammella tanto piccola e umile che ha il grande compito di fare luce a Colui che è la Luce.

Sono sempre stata attratta dalla luce. Ricordo che da bambina con cura e amore preparavo il presepe nei primi giorni dell’Avvento e, quando era tutto pronto, attendevo di restare sola per correre a spegnere la luce della stanza e contemplare quelle lucette bianche che vincevano il buio intorno. Brillavano come stelle. Sembrava che il tempo si fermasse. Sentivo un forte senso di pace. Ero sola, ma non mi sentivo affatto sola.

Passavo in rassegna ogni angolo del presepe, entravo in quella storia, come fossi stata uno dei pastori. Ogni tanto davo una sistemata a qualche pecorella che proprio non ne voleva sapere di tenersi in piedi sul muschio che avevo raccolto nei boschi con papà perché “Gesù potesse avere la Sua erba da calpestare”.

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Penso che se dovessi preparare adesso il presepe, non andrei alla ricerca del muschio, ma di un po’ di terra rossa: la terra africana. Mi è capitato spesso di pensare alla grotta di Betlemme mentre ero in Africa. Negli spostamenti da un paese all’altro spesso mi capitava di fermare lo sguardo tra le capanne che di rado occupavano quelle immense distese di territorio arido e vuoto.

Erano delle piccole casupole dal tetto di paglia davanti alle quali c’era una struttura di legno con sopra adagiate delle balle di fieno. Lì sotto era facile trovare asinelli e buoi intenti, non tanto a mangiare, quanto a ripararsi dal sole cocente.

Ogni volta quella vista mi riportava al luogo in cui è nato Gesù, facendomi entrare in tutta semplicità, ma anche con profondità, nel mistero del Natale. Come succede tante volte, certe cose puoi comprenderle meglio quando le vivi. Per quanto da bambina con stupore mi fermassi a fissare quella grotta che da lì a pochi giorni sarebbe diventata la dimora del Bambino Gesù, in Africa davanti a quel paesaggio ho potuto meditare (potrei dire contemplare) tutto l’amore di un Dio che sceglie di rinunciare alla Sua maestosità nascendo in un luogo tanto povero. L’umiltà di un Dio che si fa tanto piccolo fino a confondersi con l’umanità, per raggiungermi e salvarmi. Dio si è fatto uomo per rivestirmi della Sua divinità.

E proprio come la Vergine Maria ha imparato a conoscere il volto di Dio contemplando il Bambino che stringeva tra le braccia, così anche io ho avuto la grazia di poter scorgere il volto di Dio negli occhi degli africani. La visita ai villaggi è stata per me un intenso viaggio tra le pagine del Vangelo.

Nel buio delle condizioni di miseria ho potuto scorgere chiaramente la luce di Dio. Sconforto e tristezza non hanno avuto l’ultima parola… tornata a casa ero sconvolta da ciò che avevo visto, pensavo: “Come si può vivere così? Perché non ci impegniamo con tutte le nostre forze per aiutarli?”. Ma in fondo non era questo a rendere scomodo il mio cuscino durante la notte. Erano i loro sguardi che non mi facevano dormire, i loro sorrisi, la loro gioia. Dunque nel buio risplendeva una luce… la luce della speranza che gli africani manifestavano tutta nel momento della Celebrazione Eucaristica. Da quella speranza sgorgava la gioia, una gioia che nasce da Cristo e che in Lui solo trova pienezza. Gli africani non hanno altra abbondanza se non quella del cuore, ci insegnano a cogliere l’essenziale e a vivere di esso. Quella gente proprio perché spoglia di tutto può meglio riconoscere la presenza di Dio in mezzo a loro.

Qualcuno prima che partissi per l’Africa mi aveva detto: “Cosa vai a fare in quella terra dimenticata da Dio?!”. Se oggi penso al giorno in cui sono stata al villaggio, non penso che Dio si è dimenticato di quella terra, piuttosto penso a quanto, nella piccolezza, Dio sia immenso. Il Re dell’universo si è fatto povero proprio per entrare in quelle capanne. Io l’ho respirato, l’ho visto in tutto ciò che mi circondava. Era dovunque: nei piedi nudi e sporchi, negli abiti stracciati, nelle rughe che contornavano la dignità di quei volti dagli occhi tanto luminosi… occhi che erano riflesso di Dio.

Forse è questo il segreto: ricercare Dio nel volto dell’altro. Se davvero ci riuscissimo, sono convinta che il dolore e la miseria di questi fratelli ci ferirebbe al punto da spendere ogni nostra energia per sostenerli facendo ognuno la sua parte. Allora la beneficenza diventerebbe carità, quella carità che è prima di tutto amore. Intanto quella fiammella, che danza nel buio della cappella, mi sembra sempre più luminosa. Sorrido. Finché Gesù è con noi, le tenebre non vinceranno mai.




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