Presentazione di Gesù al Tempio – Anno A – 2 febbraio 2020

Il potere dell’amore, la festa della luce

shutterstock

Foto: ARZTSAMUI / shutterstock.com

Chi segue Gesù non solo non vive di egoismo e non è portato ad assecondare i desideri del suo cuore inquieto, quanto piuttosto a purificarli, ma desidera che l’altro abbia la vita e cresca nella gioia, anche se questo comporta morire, sull’esempio di Gesù. È questo che rende la famiglia lo spazio nel quale Cristo opera meraviglie, per mezzo della sua grazia, luogo Santo nel quale ciascuno si impegna, perché si condivide il medesimo orizzonte.

Dalla lettera agli Ebrei (2,14-18)
Doveva rendersi in tutto simile ai fratelli
Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.

 

La liturgia della IV Domenica del Tempo Ordinario lascia il posto quest’anno alla festa della Presentazione di Gesù al Tempio. L’introduzione al rito della benedizione delle candele, che sostituisce l’atto penitenziale, nella Celebrazione Eucaristica, ci offre di capire quanto descrive l’evangelista Luca, nella pagina odierna del Vangelo (cf. Lc 2,22-40): “sono passati quaranta giorni dalla solennità del Natale. Anche oggi la Chiesa è in festa, celebrando il giorno in cui Maria e Giuseppe presentarono Gesù al tempio. Con quel rito il Signore si assoggettava alle prescrizioni della legge antica, ma in realtà veniva incontro al suo popolo, che l’attendeva nella fede. Guidati dallo Spirito Santo, vennero nel tempio i santi vegliardi Simeone e Anna; illuminati dallo stesso Spirito riconobbero il Signore e pieni di gioia gli resero testimonianza. Anche noi qui riuniti dallo Spirito Santo andiamo incontro al Cristo nella casa di Dio, dove lo troveremo e lo riconosceremo nello spezzare il pane, nell’attesa che egli venga e si manifesti nella sua gloria”.
Queste parole, a ben vedere, divengono la sintesi di quanto i brani biblici ci offrono del mistero di Cristo, presentato a Gerusalemme, accolto tra le braccia di Simeone e riconosciuto come “luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele”. La Prima Lettera, tratta dal libro del profeta Malachia (3,1-4) descrive l’ingresso solenne del Signore nel suo tempio. Il Messia promesso, che viene a prendere possesso della sua casa, “purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”. La parola del profeta si realizza nell’evento che Luca descrive, nel Vangelo (cf. Lc 2,22-40), perché è Gesù, il Figlio di Dio, che Maria ha partorito nella povertà ad essere il Signore che visita il suo popolo per donare la salvezza a tutte le genti. La Seconda Lettura, invece, presenta un brano dell’Epistola agli Ebrei (cf. 2,14-18), in cui l’autore sottolinea la solidarietà di Cristo con gli uomini. È lui, infatti, il perfetto mediatore tra Dio Padre e noi, capace di ristabilire l’alleanza tra cielo e terra, dopo la disobbedienza di Adamo ed Eva.
L’insegnamento della liturgia, alla luce delle Scritture, diventa chiaro: Gesù Cristo è il Signore, che viene a visitare il suo popolo (Prima Lettura). È Lui che inaugura la nuova ed eterna alleanza, condividendo la nostra storia in tutto, eccetto che nel peccato (Seconda Lettura). Offrendosi a Dio Padre per noi (Vangelo), ci chiede di fare nostro l’atteggiamento di Maria e di Giuseppe, di Simeone ed Anna, per essere associati al suo mistero, vivendo l’amore oblativo e gratuiti nei riguardi dei fratelli.

Uomo come noi

La Lettera agli Ebrei, per lungo tempo considerata opera di san Paolo, è uno scritto del Nuovo Testamento che, pur se definito e considerato solitamente una lettera, del genere epistolare sembra avere ben poco. Manca, infatti, la struttura classica di mittente, destinatari e saluti iniziali, anche se, in chiusura, si nota l’epilogo finale (cf. 13,22-25), che ha portato alcuni studiosi a crederla unalettera vera e propria. Oggi, la maggior parte degli studiosi la considera un’omelia, inviata per lettera, che ha i suoi temi cardini in Cristo, sommo ed eterno sacerdote e sul suo sacrificio esistenziale che culmina nel mistero pasquale, causa di salvezza eterna per quanti credono in Lui. L’esegesi tradizionale divideva i suoi tredici capitoli in due sezioni (parte dogmatica, cf. Eb 1-10 e parte morale, cf. Eb 11-13), ma oggi si preferisce dividerla seguendo i diversi temi che l’autore ispirato sviluppa. Ad una comunità che proviene in larga parte dalla cultura ebraica, ben radicata nelle tradizioni dell’Antico Testamento, l’autore indirizza una lunga catechesi per rileggere la realtà dell’economia salvifica antica, polarizzata su tempio, sacerdozio e sacrifici. Egli mostra che tutte le figure antiche si sono realizzate in Cristo. È Lui a donarci la possibilità di accedere al Padre, nella forza del suo Spirito.
Il brano liturgico odierno attinge dal secondo capitolo della Lettera, costituito da un’accorata esortazione a perseverare nella vita di fede. “Bisogna che ci dedichiamo con maggiore impegno alle cose che abbiamo ascoltato, per non andare fuori rotta” egli scrive (Eb 2,1), tenendo fisso lo sguardo su Cristo, che ora “vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto” (Eb 1,9). Il sacerdozio che Gesù esercita non lo porta ad essere estraneo alla sorte degli uomini, ma lo conduce a vivere il mistero della compassionevole solidarietà con noi, dalla greppia di Betlemme fino alla croce. Proprio su tale dinamica l’autore si sofferma, scrivendo “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è diventato partecipe” (v. 14). Riflettere sul mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio significa entrare consapevolmente nella sua scelta di entrare nel tessuto della nostra storia. La ragione del suo farsi uomo è l’amore, amore del Padre, che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio (cf. Gv 3,16), amore del Figlio che si consegna alla morte per noi (cf. Gv 15,13). Ciò che vediamo nel mistero della croce è il dispiegarsi della dinamica dell’amore che diventa solidarietà e partecipazione alla vita della persona amata. Il mistero del Verbo fatto uomo, della sua discesa del cielo, del suo “impastarsi” con la carne ed il sangue della nostra natura umana è il segno eloquente di cosa significhi amare, un segno questo che si perpetua nell’Eucaristia, dove Dio continua ad essere per noi presenza di salvezza e motivo di gioia vera per il mondo. Egli non ricusa di prendere la carne ed il sangue, di assumere la nostra natura, proprio come ogni figlio. Quello che però in noi è un naturale ed inconsapevole evento – nascere è un dono, di cui diveniamo coscienti solo in seguito – per il Verbo è una scelta consapevole, una decisione voluta, amata, accolta, in obbedienza al Padre, per la salvezza dell’umanità. Quanto è importante meditare il mistero dell’Incarnazione e fermare l’occhio della mente e del cuore a considerare l’amore che ha spinto Dio a farsi uomo. Il linguaggio dell’autore della Lettera agli Ebrei è diretto, fuori di metafore egli parla di partecipazione di Dio alla nostra umanità. Non c’è nessuno scandalo, nel parlarne, ma unicamente una chiara visione di ciò che ha fatto Dio per noi. “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è diventato partecipe” (v. 14). San Francesco d’Assisi, nel descrivere questo mistero, dice che il Verbo eterno “ha preso la carne della nostra umanità e fragilità”. Gesù è il Dio con noi, ma, nel farsi uno di noi, nel partecipare alla nostra stessa vita, ha in comune tutto di noi, eccetto il peccato. Da questo mistero di amorosa solidarietà apprendiamo che non c’è salvezza dall’esterno, non si può risollevare l’altro, senza condividere la sua vita, guardando i suoi drammi, senza farsene carico, dirsi solidali, se poi, dopo aver visto, non si interviene con determinazione, rimboccandosi le maniche. Amare significa partecipare a ciò che l’altro vive, entrare nella sua esistenza, non con la presunzione di chi vuol comandare, ma con l’umiltà di chi desidera mettersi al suo servizio. Cristo, per liberarci dal peccato, scrive Paolo, si è fatto Egli stesso peccato (cf. 2Cor 5,21) ha condiviso la nostra sorte, si è fatto carico del peso dei nostri peccati, sul legno della croce, dove ha portato la nostra ribellione e ci ha fatto graditi al cospetto del Padre.
Se vogliamo vivere l’amore dobbiamo tenere fisso lo sguardo sul mistero del Dio fatto uomo, per imparare da Cristo a vivere la sua stessa dinamica del farci carne e sangue della vita dell’altro, per entrare nelle gioie e nei dolori che vive, per condividere quanto si porta nel cuore. Non c’è amore vero senza partecipazione a quello che il fratello vive, non si può dire che si ama sul serio, se non ci si sporca le mani e si porta sulle proprie spalle il fardello che grava sulla persona che ci vive accanto. Quanto abbiamo da imparare da Gesù, riguardo all’amore! Alla luce dei raggi che escono dal suo Cuore quello che noi definiamo amore, affetto, bene autentico è come un metallo che dell’oro ha solo lo smalto, non la caratura, la preziosità e la lucentezza. Se noi definiamo amore l’egoismo e dono la ricerca del tornaconto, cosa dovremo dire davanti al mistero dell’amore divino, che in Cristo Gesù ha dato tutto, senza riserve? Potrò mai chiamare affetto, un sentimento che usa l’altro, senza averne rispetto, mortificandone i doni, umiliandone, velatamente la sensibilità?
Signore Gesù, tu che ti sei fatto uomo per donarci la salvezza, concedi alla nostra famiglia la grazia e la forza di vivere l’amore che non si nasconde e non fa sconti, ma che si incarna quotidianamente nelle gioie e nelle difficoltà dell’altro, sapendo che solo se si accoglie la vita, pur se piena di contraddizioni, si potrà ottenere in abbondanza la gioia. Spesso anche noi come i discepoli, davanti alla salita del Golgota, siamo portati a scappare, ad indietreggiare, per non vivere il dono fino in fondo, come hai fatto tu. Donaci di comprendere che solo se ci sporchiamo le mani saremo in grado di chiamare amore il sentimento che portiamo dentro, solo portando su di noi il peso che grava sulle spalle del fratello, saremo in grado di dirci veramente tuoi discepoli. E se ci capita di scappare, perché incarnarci fa orrore e veniamo meno al pensiero di assumere tutto dell’altro, visitaci sulla strada della nostra fuga e, come ai due di Emmaus, donaci il fuoco vivo della tua presenza per riprendere il cammino della maturità nella tua sequela.

Il potere dell’amore

L’autore della Lettera agli Ebrei non solo parla di cosa Dio ha fatto e di come, facendosi uomo, ha partecipato alla nostra stessa vita, esprimendo il mistero della sua compassione, ma, nel suo scrivere, mostra anche il fine che Dio vuol raggiungere, prendendo la nostra natura, senza per questo lasciare la sua. Cristo Gesù è, infatti, Dio e uomo insieme e proprio per questo riesce ad essere il mediatore perfetto ed il sacerdote unico, che riconcilia nella sua croce ogni creatura con il Padre. Dio ha un progetto e lo realizza attraverso Gesù Cristo. Il suo farsi uno di noi non è fine a se stesso, ma ha come senso e meta la nostra salvezza, il voler riallacciare l’alleanza tra noi e Dio. L’autore dice che Dio si è fatto uomo “per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (v. 15). Agire con un fine, aver ben in mente un progetto, lasciare che i propri atti vengano determinati da una finalità da raggiungere rappresenta ciò che Dio fa nella vita di Gesù Cristo, suo Figlio. L’amore vero ha sempre come fine del proprio agire il bene della persona amata, pensa ed opera perché nella sua vita ci sia la gioia, il male scompaia e le tenebre si diradino. Così Dio Padre desidera la nostra vita e la nostra felicità, vuole che il male non regni e non abbia su di noi potere ed e questo che rappresenta il fine di ogni suo intervento, la nostra salvezza il motore di ogni suo pensiero.
Se riuscissimo anche noi ad agire, avendo un progetto di bene per le persone che amiamo. Questo non vuol dire pianificare tutto ed organizzare ogni cosa, ma avere un orizzonte nel quale muoversi e per il quale operare, non vivere alla giornata, ma, pur nell’abbandono a ciò che il Signore ci dona, pensare al bene, cercare il meglio, desiderare la vita dell’altro, la sua gioia maggiore, la sua realizzazione secondo Dio. Chi segue Gesù non solo non vive di egoismo e non è portato ad assecondare i desideri del suo cuore inquieto, quanto piuttosto a purificarli, ma desidera che l’altro abbia la vita e cresca nella gioia, anche se questo comporta morire, sull’esempio di Gesù. È questo che rende la famiglia lo spazio nel quale Cristo opera meraviglie, per mezzo della sua grazia, luogo Santo nel quale ciascuno si impegna, perché si condivide il medesimo orizzonte. L’uomo e la donna si uniscono in matrimonio, avendo il medesimo progetto, gli stessi sogni e lavorando insieme perché, con la grazia di Cristo, si realizzino. Se non si condivide il medesimo orizzonte, se non si guarda verso la stessa meta, se, nell’educazione dei figli, non si nutrono le stesse idee, frutto di un discernimento fatto insieme davanti a Dio, non si può dire di permettere all’amore di fare frutto. Fare le cose e farle sempre per il bene degli altri è questo che Dio sempre opera. Anche su questo dobbiamo maggiormente fermarci, chiedendoci: ciò che faccio lo compio con amore, guardando non a me e ad un personale tornaconto, ma al vero bene delle persone che amo? Posso dire di ricercare sempre, ad ogni costo, il meglio di chi mi sta accanto oppure, sommessamente, c’è sempre il mio esigiamo, che fa passare come bene altrui ciò che è solo gratificazione personale? Nell’Eucaristia io incontro questo amore altruistico di Cristo, questa sua capacità di non tenere in nessun conto se stesso e la sua vita, ma di vivere nel dono ed io, nutrendomi di Lui, vivo della sua stessa vita? Nei rapporti in famiglia, chiedo all’altro di accontentarmi o di aiutarmi a vincere il mio egoismo, scavando le radici di ogni superbia?
Gesù Cristo “per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (v. 15). A ben riflettere su quanto l’autore ispirato scrive, sembra che Gesù utilizzi un modo alquanto inusuale di vincere, che è quello del perdere. Per liberarci dal potere del demonio e ridurlo all’impotenza, Cristo utilizza la stessa morte di cui il suo Nemico ha il potere. In tal modo, salendo sulla croce, se agli occhi di molti è perdente, all’alba del giorno dopo il sabato, presentandosi vivo ai suoi discepoli, dimostra di essere il solo vittorioso, sulla morte e sugli inferi, per la potenza dell’amore del Padre. Vincere morendo sembra assurdo, ma in realtà è quanto accade, nella vita di fede. Non si vince la violenza, con la violenza, né la cattiveria può essere neutralizzata da una forza uguale, per natura, ma di intensità maggiore. Per questo l’Apostolo insegna: “Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. […] se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rm 12,17-19a. 20-21). L’amore esercita il suo potere soprattutto quando si viene a trovare davanti ad una forza contraria. Allora, invece di ritrarsi, la sua forza diventa inarrestabile e la sua dolcezza si oppone risolutamente alla violenza del ferro e all’arroganza che nasce dall’odio. Chi può resiste all’amore? Apparentemente sembra che esso sia perdente, ma è lui sempre, il solo vittorioso. Il demonio credeva di aver fatto tacere la Verità ed invece ha dovuto ricredersi e si è trovato vinto proprio quando pensava che di aver sconfitto il suo avversario. È questa il senso del martirio di Cristo e di quanti, dietro Lui, non hanno paura di consegnarsi totalmente, per vivere in eterno, in Dio.
La frequentazione del mistero pasquale del Signore porta ogni discepolo ad interiorizzare la dinamica del chicco di grano, che deve morire, perché in abbondanza porti frutto (Gv 12,24). È questo il paradosso della nostra vita di sequela, la strada tracciata da Cristo che diviene via di salvezza anche per chi sceglie di accogliere la sua chiamata e di seguirlo lungo il Golgota. Per questo il Maestro insegnerà ai suoi discepoli: “chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25). Il cristiano, facendo propria, la via di Gesù, sa che è chiamato a vivere, morendo e a vincere perdendo. Il potere dell’amore, che ha nella croce del Signore la sua manifestazione piena, può sembrare assurdo ed invece rappresenta l’unica nostra salvezza, la cui ragionevolezza l’uomo può comprenderla soltanto guardando verso Gesù e lasciandosi condurre dalla sua mano.
Abbiamo bisogno nelle nostre famiglie e comunità della potenza umile e dolce, decisa ed invincibile dell’amore. Non serve la violenza e l’odio per combattere il male. Nulla è più aberrante della violenza, ma solo l’amore umile la disarma e ne annulla la forza presunta. Se riuscissimo a lasciarci vincere dall’amore! Se non limitassimo in noi la grazia della trasformazione delle spade in vomeri e delle lance in falci! Se mettessimo ogni nostro impegno perché Dio trovasse nel cuore nostro il terreno fecondo perché regni in noi e, attraverso di noi, nel mondo, la sua pace. Dobbiamo credere all’amore, lasciare che l’amore di Cristo regni in noi e, attraverso di noi, porti nel mondo il suo amore.

Signore Gesù, tu hai fatto dell’amore verso Dio e verso noi uomini il senso della tua esistenza, dona anche a noi, che seguiamo il tuo esempio e crediamo nella potenza salvifica della tu Pasqua di essere illuminati dalla tua grazia a vivere con te, guidati dall’ardente e dolce forza del tuo amore. Non permettere che confidiamo nella potenza dell’odio, che la violenza ci illuda di avere in noi la meglio, come mezzo per ottenere la pace. Sradica in noi ogni pretesa di vincere sui fratelli, fidando nell’egoismo, assecondando l’arroganza, facendo delle nostre idee la spada con cui colpire chi la pensa diversamente da noi. Rendici discepoli della tua ferma dolcezza, del desiderio di servirci vicendevolmente, di vincere perdendo, di regnare servendo. Solo così entreremo nelle dimore eterne del tuo regno e vi dimoreremo per sempre.

Dio si prende cura di noi

Oggi è la festa della luce, il giorno dell’incontro – così era definita questa festa in Oriente – ed è bene chiedere per le nostre famiglie e comunità il dono di un amore maturo che diventa carne della vita dell’altro, luce per i suoi passi, mediando la potenza ed il chiarore di Dio, che non ci lascia camminare nel buio. Per partecipare alla vita della persona che si ama è necessario prendersi a cuore tutto di lei – “Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura” (v. 16) – perché si crei il dialogo e lo scambio faccia crescere la relazione e l’incontro tra noi. Alla scuola di Gesù possiamo imparare ad amare e a fare della cura della persona che ci vive accanto l’impegno della nostra vita.

SCOPRI TUTTI I LIBRI DI FRA VINCENZO IPPOLITO QUI!




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



ANNUNCIO

ANNUNCIO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.