V Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 9 febbraio 2020

Il linguaggio della fede, le parole dell’amore

Quanto è importante usare un linguaggio consono alla nostra fede, che rifuggendo ciò che è contrario alla scelta di seguire Cristo, sia un richiamo continuo a Lui, un annunciare Lui, con parole che profumano di Vangelo e che nascono da un cuore dove il suo Spirito ha posto la sua dimora.

Dalla prima Lettera di san Palo Apostolo ai Corinzi (2,1-5)
Vi annuncio il mistero di Cristo crocifisso
Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso.
Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

 

Riprendendo il cammino del Tempo Ordinario, dopo la festa della Presentazione al tempio di Gesù, celebrata la scorsa domenica, la liturgia ci dona di sostare sul monte delle beatitudini, leggendo la pagina del Vangelo (cf. 5,13-16), tratto dal discorso della montagna (cf. Mt 5-7). Dalle labbra del Signore apprendiamo la bellezza e la responsabilità della nostra vocazione battesimale. Sale delle terra e luce del mondo, ogni credente è chiamato ad esprimere nella vita la grazia dell’amicizia con Cristo, che ci affida il suo Spirito, per compiere la sua missione e costruire tra gli uomini il suo Regno di giustizia e di pace. Nella Prima Lettura, tratta dal libro di Isaia (cf. 58,7-10), il profeta rimprovera il popolo d’Israele, perché la pratica del digiuno non è accompagnata dall’impegno a tradurre nella vita e nelle relazioni con gli altri l’amore per Dio, che i comandamenti richiedono. “Infatti come il corpo senza lo spirito è morto – scriverà san Giacomo –, così la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26). Per questo il salmista proclama Felice l’uomo pietoso che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia […] Sicuro è il suo cuore, non teme, egli dona largamente ai poveri, la sua giustizia rimane per sempre, la sua fronte si innalza nella gloria” (Sal 12,4). Nella Seconda Lettura, invece, l’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinzi (cf. 1Cor 2,1-5), ricorda il suo primo annuncio: in quella comunità, la parola della croce di Gesù, la predicazione della sua Pasqua di morte e resurrezione ha suscitato la fede, per la potenza di Dio.
L’insegnamento della liturgia è chiaro: siamo chiamati a rendere ragione della speranza che è in noi, mettendo a bando ogni formalismo (Prima Lettura), per testimoniare nella storia la presenza dirompente della Pasqua del Signore (Seconda Lettura), perché la sua grazia risplenda in noi (Vangelo), cosicché i nostri fratelli “vedano le nostre opere buone e rendano gloria al Padre che è nei cieli” (Mt 5,16).

Bandire la verbosità, per donare Gesù Cristo, l’unica parola di salvezza

La Prima Lettera ai Corinzi è una delle due Epistole indirizzate da Paolo alla giovane comunità cristiana, da lui fondata alla fine del secondo viaggio missionario (cf. At 18,1-17). Stando al racconto degli Atti degli Apostoli, Paolo vi giunge, dopo l’evangelizzazione della Macedonia e, coadiuvato da Sila e Timoteo (cf. Ts 3,2), rimase in questa importante città greca circa un anno e mezzo e ripartire poi alla volta di Efeso. Per guidare le varie comunità da lui fondate, Paolo oltre ad inviare i suoi collaboratori, scrive delle Lettere che servono a consolidare nelle chiese la predicazione apostolica ricevuta oralmente, spronando i credenti a rispondere generosamente alle esigenze della vocazione cristiana. È quello che capita anche con i Corinzi, a cui l’Apostolo indirizza due lunghe lettere, nella quali cerca di risolvere i problemi emergenti nella comunità e di far crescere la comunione e l’unità tra i suoi membri.
Il brano liturgico odierno (cf. 1Cor 2,1-5) è tratto dalla prima sezione dell’epistola (capp. 1-4), in cui l’Apostolo, per chiarire alcune problematiche emergenti nella comunità, deve richiamare la centralità della Pasqua di Gesù Cristo, nella predicazione e nell’esperienza dei credenti. La nostra pericope segue proprio “il discorso della croce” (cf. 1,18-31), in cui Paolo ha indicato, senza mezze misure, come Cristo sovverta i criteri umani di giudizio e determini una conversione, nel nostro modo di vivere e vedere la storia personale comunitaria. Dal tono solenne, usato in precedenza (cf. 1,18-25), dopo aver richiamato l’esperienza, che stanno facendo in quanto credenti – “Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto” (1,26) – con un tono ancor più pacato, mostra come la sua venuta tra loro sia stata scandita da un unico desiderio: donare Cristo e Cristo crocifisso.

Scrive l’Apostolo: “Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza” (2,1). La prima cosa che notiamo, riflettendo sul testo, con l’ausilio dello Spirito e di quanto Paolo ha detto in precedenza, è il desiderio che anima il cuore dell’Apostolo e lo spinge alla missione. La sua determinazione, nel vivere ed impegnarsi con tutte le forze nella predicazione – “annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è per me una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo” (1Cor 9,16) scrive sempre ai Corinzi – nasce dalla consapevolezza di essere stato chiamato da Dio a questo specifico ministero – “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo” (1Cor 1,17) – “perché la parola del Signore corra e sia glorificata” (2Ts 3,1). Da questo comprendiamo che chi evangelizza – e nella Chiesa, per la grazia del battesimo, con impegno diverso, tutti siamo chiamati a predicare il Vangelo di Gesù Cristo, in parole ed opere – è chiamato a rivivere la stessa dinamica della ricreazione di Dio, anzi, entra egli stesso nel flusso dell’amore divino, che non attende, ma si fa prossimo a chi ama, per donargli la salvezza e la vita in abbondanza. Così Paolo, raggiunto dalla grazia, sulla via di Damasco, che da persecutore lo ha reso credente e missionario, arso dalla carità, che ha in Dio la sua sorgente, nel Figlio crocifisso e risorto la sua massima manifestazione nella storia, nello Spirito Santo, effuso nei cuori dei credenti la forza di annuncio e testimonianza, si mette alla scuola del Verbo, primo missionario del Padre e segue in tutto le sue orme. Come il Figlio di Dio, fatto uomo, non attende gli uomini, ma va loro incontro, così l’Apostolo inizia a viaggiare, si scomoda, esce dalle sue sicurezze, vince la tentazione del vivere una fede relegata alla sola sfera del personale e si fa prossimo, buon samaritano, per donare ai fratelli quella parola di Dio, che è Gesù Cristo, che lo ha profondamente sconvolto, illuminando gli occhi della sua mente, spingendo ad orientare diversamente il suo cuore. Chi incontra Gesù Cristo fa esperienza di una gioia dirompente, che trasborda dal cuore e l’annuncio, in parole ed opere, è un’esigenza naturale, una scelta che, pur se vissuta come un dovere, è plasmata dall’amore che seduce conquista, riempie e dona senso. Paolo diventa quindi uno straordinario esempio di cosa vuol dire vivere da missionario e lasciarsi portare dalla grazia, abitarsi dallo Spirito, lasciarsi portare da Dio, che vuole ciò che la sua forza in noi può compiere, solo se siamo docilissimi al suo impulso, abbandonati alla sua presenza, portati dal vento della sua azione misteriosa e potente. Per questo può dire “quando venni tra voi”, la grazia lo spinge a superare ogni confine – “L’amore di Cristo ci possiede” (2Cor 5,14) – a uscire da se stesso, a lasciarsi alle spalle il passato, per guardare sempre e solo il bene dei fratelli, secondo la volontà di Dio.

Fare ciò che piace a Dio, sapere che il Signore ci vuole lì dove siamo è la radice della nostra pace, la sorgente della serenità della vita per il credente. Non andiamo continuamente in giro ad inventarci la vita, a darci programmi, che cambiamo a secondo delle mode, dei pensieri o delle passioni dominanti. La nostra vita è guidata da Dio, illuminata dalla sua Parola, sostenuta dalla sua grazia, nutrita dell’Eucaristia, rallegrata ed arricchita dalla presenza dei fratelli. Anche noi dobbiamo pensare la fede come una continua uscita, al pari di Abramo per realizzare la volontà di Dio, che è poi, a ben vedere, uscita dalla propria mentalità, dai preconcetti e dalle idee sbagliate, che ciascuno di noi ha di se stesso, di Dio e degli altri. L’Apostolo va, si mette in marcia. Non è forse questo il movimento che crea rapporti e consolida le relazioni? Non è forse uscendo da sé stessi che si riesce, raggiungendo gli altri, a vincere la ritrosia che l’egoismo fa crescere, per donare ciò che il Signore mette nelle nostre mani, come ricchezza da condividere con i fratelli?

Signore, donami la grazia di uscire da me stesso e di raggiungere i fratelli. È vero la mia vita è come la brocca che la donna di Samaria portò al pozzo, vuota, ma sei tu la mia acqua, la ricchezza che riempie di senso e di gioia i miei giorni. Rendimi ricco del tuo dono e della capacità di farmi dono, che ti ha portato a venire tra noi, per essere solidale con la nostra povertà e vincere il male con il bene. Concedimi di non aspettare gli altri, ma di andare loro incontro, di non lasciarmi prendere dalla superbia, ma di sapere gareggiare nel chiedere e donare perdono. Se tu sei con me, tutto mi sarà possibile e seguire le tue orme diverrà l’unico senso del mio andare.

Ricchi di una parola non nostra

Ricordando il primo annuncio del Vangelo, nella comunità di Corinto, l’Apostolo dice: “non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso” (2,1b-2). Paolo sta aprendo il suo cuore e sta dando ai suoi di comprendere le intenzioni che lo hanno spinto alla missione e come egli viva la predicazione apostolica. Si tratta di un significativo passaggio, che getta luce, se confrontato con altri passi dell’epistolario paolino, sulla consapevolezza della sua chiamata e dell’esigenza di rispondere a Cristo, con generosità totale e amore oblativo. Annunciare il Vangelo risponde ad una precisa “strategia missionaria”, ad un ben ponderato progetto di annuncio, con modalità chiare e contenuti fondanti e fondanti. Colui che scriverà in seguito “Io dunque corro, ma non come chi è senza meta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria” (1Cor 9,26) sa bene che non ci si improvvisa predicatori del Vangelo, banditori della buona novella tra le genti. È necessario avere una chiara coscienza della propria identità di missionario, che nasce e si consolida nella conoscenza e nell’esperienza della parola che si annuncia ai fratelli, nell’amicizia amorosa con Cristo, nello Spirito, che comunica al cuore la sua forza e la grazia della sua azione. Paolo potrà dire “Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù” (2Cor 4,5) e ancora “In nome di Cristo siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta” (2Cor 5,20), sapendo che il contenuto del suo annuncio è Gesù Cristo, è Lui la ricchezza che dona, la potenza che media, la vita divina che trasmette, la grazia della conversione che suscita, l’amore misericordioso che dispensa, la forza del perdono che semina a piene mani. Non si può essere missionari senza essere stati mandati da Dio, senza avere sulle labbra le sue parole, nel cuore i suoi sentimenti. L’evangelizzatore è la trasparenza della grazia, colui che rende visibili e fruibili i beni della salvezza.

È significativo vedere la consapevolezza che Paolo ha della sua vocazione apostolica. Sa di essere stato inviato ad annunciare il mistero di Dio, di cui Gesù Cristo è il mediatore massimo, il rivelatore definitivo, il volto visibile del Dio invisibile, ma sa che altrettanto importante è la modalità con cui si annuncia il Vangelo. Se in precedenza aveva scritto “Cristo mi ha mandato […] a predicare il Vangelo, ma non con sapienza di parole, perché non venga resa vana la croce di Cristo” (1Cor 1,17) ora il suo dire “non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza” ribadisce ancora una volta che, quando si predica Cristo, le parole, mai vuote e altisonanti, devono passare attraverso il costato trafitto di Gesù Cristo, imporporate del suo sangue, impreziosite dalla sua grazia, purificate da tutto ciò che potrebbe impedire di comprendere lo scandalo della croce come antilinguaggio di Dio rispetto al linguaggio che l’uomo usa come simbolo di ciò che non è verità ed amore, ma solo falsità ed egoismo. È quanto affermerà anche in seguito scrivendo: “La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza” (2,4). Le parole, sembra dire Paolo, invece di rivelare, possono nascondere e questo anche nei nostri rapporti il linguaggio, che dovrebbe creare e consolidare le relazioni e gli incontri, diviene, invece, veicolo di fraintendimenti, di mezze verità e, ancor peggio, di vere falsità. L’Apostolo desidera che, annunciando il Vangelo, la parola venga utilizzata nel modo più nobile, come veicolo di un contenuto più alto e più vero, che le parole trasmettano quell’unica parola che dona salvezza, Gesù Cristo. In tal modo, non solo chi annuncia non deve portare gli altri a guardare verso di Lui, ma anche le parole devono diventare trasparenza della grazia del Salvatore, che dona la vita divina. Le parole sono un segno convenzionale tra noi, misteriosamente contengono ciò che mediano, ma, quando si parla di annuncio del Vangelo, le parole dell’evangelizzatore creano la relazione con Cristo, nella grazia del suo Spirito, è Lui che si dona nella Parola e che si comunica attraverso chi annuncia.

Dove poi l’apostolo sembra raggiungere la capacità umana massima dell’espropriazione di sé, per far posto, nel suo annuncio e nella sua vita, a Gesù Cristo, così da donarlo nelle parole che rivolge ai fratelli è quando dice: “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso” (2,2). L’unica scienza che il discepolo di Gesù conosce è la croce del suo Maestro, una scienza questa che oscura ogni umana conoscenza, perché non è parziale né è appannaggio di pochi, ma svela il senso profondo dell’umana esistenza, apre la sofferenza al dono della vita, per il bene degli altri e mostra come l’amore possa trasformare il dolore della morte in luce nuova di resurrezione e di vita, senza fine. Per questo è importante la frequentazione continua della croce del Signore, la meditazione dei suoi dolori, la riflessione sull’amore che lo ha spinto al dono di tutto se stesso. Il Crocifisso deve essere ben piantato nel nostro cuore, come modello della donazione per amore, da vivere e del sacrificio della propria volontà da offrire agli altri. Non c’è ambito della nostra vita che non debba essere irrorato dalla sorgente di vita che sgorga dal Cuore di Gesù, tutto di noi deve essere imporporato del suo sangue, impreziosito dal suo sacrificio, arricchito della sua meritoria obbedienza, purificato nel fiume del perdono, rinnovellato nell’acqua cristallina di quel pozzo, di cui quello di Giacobbe era solo una prefigurazione. Paolo ha sperimentato, sulla via di Damasco, che ogni conoscenza umana, non finalizzata alla consegna di se stessi a Gesù Cristo, alla ricerca della sua volontà, per divenire apostoli del suo Vangelo, genera solo violenza e morte. Egli ha dovuto riconoscere in Gesù la risposta ad ogni umana ricerca di senso, la risposta di Dio Padre ad ogni nostra domanda e così la vita della fede è divenuta la via di una esistenza totalmente nuova, perché Cristo, afferrando la sua vita, lo ha reso ciò che il Padre si aspettava da Lui, profondo conoscitore delle insondabili ricchezze della Pasqua del suo Figlio. Per questo potrà confidare ai Filippesi: “ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui” (Fil 3,8-9a) e a i Galati, testimoniando la sua assimilazione al Risorto, per la grazia del suo Spirito: “non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
Fare tutto perché “io possa conoscere lui, la potenza della sua resurrezione” (Fil 3,10) e poi “perché io lo [Cristo] annunziassi in mezzo alle genti” (Gal 1,16) è il senso della nostra vita di discepoli di Gesù. Possiamo anche noi dire con l’Apostolo “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso”? Lo annunciamo, con convinzione? Testimoniamo con chiarezza il Vangelo? Abbiamo in Cristo l’unica scienza della vita, che trasmettiamo alle nuove generazioni, per alimentare gli ideali, nutrire i sogni, fortificare l’impegno, rendere coraggiose le scelte, dietro Gesù? Annunciamo la croce del Signore, che fiorisce in vita, con le nostre piccole e grandi difficoltà, accolte con l’amore di chi si lascia portare dalle mani di Dio? Chiediamo la grazia dello Spirito per sostenerci nella prova, così da fare ciò che a Dio piace, rifiutando ogni compromesso e decisione che potrebbe portarci ad essere nemici della croce del Signore?

Quanto abbiamo bisogno, nella Chiesa e nelle nostre famiglie e comunità, di sapere che, attraverso la nostra vita ed il nostro annuncio, Gesù Cristo raggiunge i cuori e parla a quanti ci sono accanto! Quanto è importante usare un linguaggio consono alla nostra fede, che rifuggendo ciò che è contrario alla scelta di seguire Cristo, sia un richiamo continuo a Lui, un annunciare Lui, con parole che profumano di Vangelo e che nascono da un cuore dove il suo Spirito ha posto la sua dimora. Dobbiamo chiedere al Signore la grazia di parole vere, prive di ogni artificio, che siano lo specchio dell’anima, trasparenza del cuore nostro, da donare agli altri! Quanto è importante, in famiglia, come anche in ogni rapporto, bandire “l’eccellenza della parola o della sapienza”, ovvero quel ricercare l’apparenza e la vuota formalità, far vedere ciò che non c’è, mistificare la realtà, mutarla, nasconderla, impedendo alla verità che risplendendo, visto che solo la verità ci fa veramente liberi (cf. Gv 8,32).

Signore, dona alla tua Chiesa la grazia di annunciare con franchezza il Vangelo, ai tuoi ministri di essere totalmente espropriati del proprio io, così da essere trasparenza di Cristo, come un vetro che lascia passare i raggi di sole, solo quando è ben chiaro. Rendi le nostre famiglie luoghi dove si cura il linguaggio, perché risponda alla gentilezza e all’amore, alla ricerca della pace e alla comunicazione sincera e pacata, che fa crescere la comunione. Le nostre siano parole vere, prive di supponenza e di superbia, che generano il bene e lo fanno crescere in tutti. Tu, che sei il Figlio di Dio fatto uomo per noi, Parola del Padre, converti le nostre parole e, con esse, le modalità che spesso utilizziamo. Riempile di te, del tuo amore e rendile manifestazione di un bene e di un amore che sempre crescente.

Solo la potenza di Cristo Risorto salva il mondo

La parola che Paolo indirizza ai Corinzi riporta anche noi all’essenziale della nostra vita di fede, permettendoci di focalizzare, con sempre maggiore consapevolezza, quanto sia importante, in un tempo nel quale i media fanno opinione, l’annuncio del Vangelo, nella fedeltà al vero rivelarsi di Dio in Cristo. Se l’Apostolo ha evangelizzato nei modi allora possibili, non ritraendosi davanti alla sfida di utilizzare ogni mezzo, perché Cristo venisse annunciato dovunque ed ogni uomo potesse essere raggiunto dalla parola di salvezza, oggi è quanto mai necessario il medesimo impegno, perché il Vangelo continui a risuonare nel mondo, come la ricchezza di quanti credono in Lui, per ottenere la vita, nel suo nome. Dobbiamo annunciare Cristo e Cristo crocifisso, in ogni dove deve giungere il suo nome e la potenza della sua croce, che dona vita e salvezza. Non siamo forse anche noi chiamati, al pari di Paolo, a permettere al Vangelo di essere ancora oggi annunciato, conosciuto, vissuto e testimoniato, con la forza dello Spirito Santo? È la nuova sfida, dinanzi alla quale non dobbiamo nasconderci. Se Paolo fosse vissuto oggi non si sarebbe dato pace. Non gusta neppure a noi quella sua santa inquietudine, perché il nome di Gesù venga da tutti ascoltato, conosciuto e amato, visto che “non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4,12).

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