CORRISPONDENZA FAMILIARE

di don Silvio Longobardi

Natalità in calo. Risparmiateci le lacrime di coccodrillo

17 Febbraio 2020

nascita

La lettura antropologica della sessualità che oggi prevale, esalta la dimensione affettiva ed erotica e finisce per mettere in ombra (se non proprio per escludere) la naturale dimensione procreativa. Siamo all’opposto di quella visione umanamente piena della sessualità proposta dall’Humanae vitae, l’enciclica di Paolo VI e intanto l’Italia invecchia sempre di più. Da dove ripartire?

I dati Istat sono più che preoccupanti: nel 2019 sono nati in Italia 435mila bambini. Il numero più basso mai registrato nell’ultimo secolo, più basso anche di quello censito durante gli anni della guerra mondiale. Da notare che la somma comprende anche 85mila bambini nati da madre straniera. Se consideriamo che i decessi sono stati 647mila abbiamo un saldo negativo di 212mila. È facile fare i conti ed è facile anche fare fosche previsioni sulle ricadute socio-economiche.

Questi dati non sono nuovi, semmai rappresentano l’ennesima conferma di una tendenza che ormai ha radici profonde nel tessuto culturale del nostro Paese. La denatalità è iniziata a metà degli anni ’60, gli anni del boom economico ma nell’ultimo decennio ha raggiunto e superato quei livelli che determinano o dovrebbero farlo un’allerta sociale. Commentando questi numeri il Presidente Mattarella ha detto che “il tessuto del nostro Paese si indebolisce e va assunta ogni iniziativa per contrastare questo fenomeno”. Parole sante ma non mi pare che di questo oggi discute la politica, come sempre affaccendata in altri problemi. D’altra parta, negli ultimi quarant’anni nulla è stato fatto per contrastare questo fenomeno. 

Una sociologa vede nella drastica diminuzione delle nascite un sintomo della crescente paura. Forse voleva dare una stoccata a qualche politico ben noto. A me sembra frutto di un a priori ideologico. Nessuno si domanda come mai negli anni della seconda guerra mondiale – in cui di paura ce n’era davvero tanta – nascevano più bambini rispetto ai nostri giorni. Quando l’ideologia sale in cattedra tutto fa brodo. Sarebbe più onesto fare una sana autocritica: “Vi chiediamo scusa, ci siamo sbagliati, il modello di società che abbiamo proposto aumenta il benessere materiale ma diminuisce la fiducia nella vita e la capacità di progettare il futuro”. Il catastrofismo climatico contribuisce a rendere più inquietante l’orizzonte e di fatto indebolisce ulteriormente il tasso di speranza. In un tale contesto, come pensare di mettere al mondo altri figli? 

Uno che ci vedeva bene era Giovanni Paolo II che nella Familiaris consortio – pubblicata nell’ormai 1981 – denunciava “una mentalità contro la vita” frutto di “un certo panico derivato dagli studi degli ecologi e dei futurologi sulla demografia, che a volte esagerano il pericolo dell’incremento demografico per la qualità della vita” (n. 30). Qualcuno ha pensato che fosse solo un profeta di sventura e/o ha visto la sua denuncia solo come una scontata accusa contro la cultura della libertà sessuale. 

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Alcuni anni fa Piero Angela, un autore non sospetto di simpatie clericali, ha pubblicato un libro dal titolo eloquente: Perché dobbiamo fare più figli (2008). Con lo stile divulgativo del giornalista ha saputo affrontare una questione molto complessa che riguarda tutto l’Occidente ma colpisce in modo particolare proprio l’Italia che da parecchi anni occupa l’ultimo posto nella lista mondiale della demografia. Ovviamente la problematica viene affrontata secondo una prospettiva rigorosamente sociale. La denatalità, infatti, comporta non pochi problemi per la società, basti pensare all’aumento esponenziale della spesa pensionistica e della spesa sociale per far fronte al numero sempre più elevato di anziani. Non è stato il primo a lanciare questo allarme, anzi la sua analisi era fondata su studi di settore significativi e imparziali. E tuttavia, nonostante la sua oggettiva importanza, questo tema non riesce a bucare lo schermo, nel migliore dei casi resta confinato nelle pagine culturali dei nostri quotidiani. 

Negli ultimi vent’anni la Chiesa italiana, attraverso il Forum Nazionale delle Associazioni familiari, ha chiesto con insistenza un diverso trattamento fiscale a partire dal riconoscimento che i figli sono un valore da difendere e custodire. Sono battaglie doverose, oltre che necessarie; non poche famiglie, infatti, limitano l’accoglienza dei figli perché ritengono di non avere le possibilità di prendersi cura di loro. E tuttavia c’è il rischio di dare eccessiva importanza alla dimensione economica, dimenticando che altre e più profonde sono le motivazioni che inducono a congelare l’apertura alla vita. 

La lettura antropologica della sessualità che oggi prevale, esalta la dimensione affettiva ed erotica e finisce per mettere in ombra (se non proprio per escludere) la naturale dimensione procreativa. Siamo all’opposto di quella visione umanamente piena della sessualità proposta dall’Humanae vitae – l’enciclica di Paolo VI che alcuni vorrebbero mandare in soffitta – che chiede di intrecciare la finalità unitiva con quella procreativa. La fecondità oggi non appare più come la naturale espressione dell’amore e come il frutto maturo di una storia d’amore. Una volta le favole trovavano la loro conclusione con una morale che intrecciava la felicità con i figli: “E vissero felici e contenti ed ebbero tanti figli”. Oggi anche questo fa paura. 

Una trentina di anni fa con sapiente lungimiranza, il sociologo Giorgio Campanini, attento osservatore della problematica familiare, scriveva che la vera domanda non riguarda tanto il numero dei figli ma il senso stesso del procreare. Aveva ragione. E aggiungo che la domanda sul perché generare un figlio, nasce e resta sospesa ad un’altra domanda: Perché viviamo? Una domanda coraggiosa e scomoda. Se la ricerca della felicità trova la sua prevalente realizzazione nella linea del benessere individuale, un figlio rappresenta un oggettivo impedimento. E dunque, meno figli più felicità. Per quanto possa sembrare drastica e approssimativa, questa equazione è una sintesi fedele della cultura occidentale. 

La denatalità non fa paura perché fa più paura perdere l’appuntamento con quella (apparente) felicità misurata con i canoni della cultura mondana. Se invece, ricominciamo a pensare che la felicità è tutta racchiusa nell’amore, allora forse ritroveremo il gusto di metterci a servizio della vita. I figli non saranno un problema in più ma una risorsa, la via quotidiana della gioia. Ai credenti, se sono davvero tali, il compito di tracciare la strada.




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