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L’aborto non lascia mai in pace la donna, Selvaggia Lucarelli docet…

bambino embrione

di Gabriele Soliani

«Ho abortito. Volontariamente. Sono fatti miei». Così Selvaggia Lucarelli in risposta a Matteo Salvini. Altro che emancipazione e consapevolezza, in questa affermazione tutto il dolore della donna che abortisce.

«Ho abortito. Volontariamente. Più di una volta. Due o cinquanta, sono fatti miei, e in realtà anche quello che nella vita ho deciso di fare del mio corpo erano fatti miei, finché ho sentito che non lo erano più». Questa è la prima parte della piccata risposta di Selvaggia Lucarelli, su Tpi, comparsa sulla rassegna stampa del Corriere, in risposta alle parole del leader della Lega Matteo Salvini a proposito delle interruzioni volontarie di gravidanza («Il pronto soccorso non è la soluzione a stili di vita incivili» aveva detto tra le altre cose).

Salvini si riferiva forse al fatto che, spesso di notte, al pronto soccorso viene erogata la “pillola del giorno dopo” ed anche la pillola dei “cinque giorni dopo”, definite contraccettivi d’emergenza ma che in realtà impediscono l’annidamento (se l’ovulo è stato fecondato) e la prosecuzione dell’impianto in utero e, quindi, sono aborti precocissimi. La risposta della Lucarelli rivela quello che non si vuole mai dire e cioè che l’aborto non lascia mai in pace la donna. Basta toccare questo argomento che subito arrivano le risposte di autodifesa. Infatti per rendere plausibile la scelta abortiva la donna deve trovare una giustificazione e crederci fermamente altrimenti arriva l’angoscia per un gesto che si può definire innaturale.

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«Abbiamo esercitato un nostro diritto, un diritto che non si misura nella quantità e che non si misura nei giudizi regalati a un microfono. Io e così le altre donne. Tutte» scrive Lucarelli. E ancora: «Potrei raccontarti di aver fatto file in un giorno di inverno in un padiglione squallido, di cosa sia la pillola abortiva e di cosa succeda se non funziona come dovrebbe. Potrei raccontarti di una ragazza che piangeva in un letto d’ospedale e di una che ha preso veloce la sua borsa ed è scappata via sollevata. Di me che ho sofferto o che sono stata fredda, senza mai dimenticare, qualunque fosse il mio stato emotivo, che stavo decidendo per me, che stavo decidendo io, che nessuno poteva e doveva farlo al posto mio».  Decido io, decido per me, è un diritto, sono fatti miei, decido del mio corpo. Mai una parola sul piccolo embrione umano eliminato. Infatti non si può nominare l’embrione perché allora la donna andrebbe ancor più in crisi.

Chi si occupa di queste tematiche da anni sa che la Legge diventa “cultura”. Così è stato per la legge 194 del 1978, passata al senato con soli 12 voti di differenza e votata anche dai cattolici democratici, i quali la sostengono anche oggigiorno come legge “di civiltà” e la “migliore d’Europa”. Ma alla donna non si guarda mai. Le viene solo detto che è un suo diritto e che lo può esercitare anche più e più volte. Noi continuiamo a difendere il piccolo embrione, che non ha chiesto di esistere ma che cresce nel ventre materno, perché difendendo lui in realtà difendiamo realmente la donna e la sua vita.




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