
Trascinato in tribunale
di don Silvio Longobardi – s.longobardi@puntofamiglia.net
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 5,31-47)
In quel tempo, Gesù disse ai Giudei: «Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera. Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce. Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. Ma voi non volete venire a me per avere vita. Io non ricevo gloria dagli uomini. Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».
Il commento
“Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera” (5,31). Abbiamo l’impressione di stare in tribunale: da una parte il Pubblico Ministero, rappresentato dai Giudei, e dall’altra Gesù che deve difendersi dalle accuse più infamanti. Tutto è partito dalla guarigione del paralitico alla piscina di Betzatà. Questo fatto, avvenuto di sabato, offre ai Giudei l’occasione per accusare Gesù di infrangere la Legge e, cosa ancora più grave, di farsi uguale a Dio (5,18). Il Nazareno è dunque costretto a giustificare il suo comportamento. La difesa diventa un annuncio della sua identità. Dio agisce con sovrana libertà, non deve dar conto a nessuno. E tuttavia, facendosi uomo, Dio si sottomette al giudizio degli uomini. È il paradosso dell’incarnazione. Gesù non si nasconde e non rifiuta di presentare le sue credenziali. Così facendo cerca di abbattere il muro dell’ostinata incredulità: “Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati” (5,34). Non difende se stesso ma la sua missione, non accusa nessuno ma vuole dare la luce. A tutti, anche ai suoi più accaniti oppositori.
Come avviene nei tribunali, Gesù chiama tre testimoni a sua difesa: Giovanni Battista, i miracoli che egli ha compiuto e, infine, Dio stesso. Possiamo notare un graduale passaggio: dapprima chiama un uomo, da tutti riconosciuto come un profeta; in seconda battuta ricorda i miracoli, segni straordinari che confermano ad abundantiam l’origine divina della sua autorità; e infine chiama in causa Dio stesso. In questa difesa c’è un mirabile intreccio tra la terra e il cielo: Giovanni Battista è stato inviato da Dio; i miracoli sono i segni eloquenti che è Dio che agisce nella persona di Gesù; e infine Dio stesso interviene con autorevolezza: “Anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me” (5,37). L’evangelista non spiega a quale evento fa riferimento. Possiamo pensare all’esperienza del battesimo o a quella del Tabor. Nella nostra vita Dio ha seminato segni e parole fin troppo eloquenti. Eppure, tante volte prevale ancora la paura di dirci cristiani.
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