
Le attese di Dio
di don Silvio Longobardi – s.longobardi@puntofamiglia.net
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 26,14-25)
In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariòta, andò dai capi dei sacerdoti e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù. Il primo giorno degli Ázzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Ed egli rispose: «Andate tin città, da un tale, e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”». I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!». Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».
Il commento
“Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?” (26,15). Non conosciamo le motivazioni più profonde ma non possiamo ridurre tutto a una questione di denaro. Peraltro, trenta monete non rappresentano una somma rilevante. Giuda non è un ladruncolo di quattro soldi e neppure uno dei tanti discepoli: è uno dei Dodici, uno di quelli che hanno condiviso l’avventura del Nazareno. Il suo tradimento pesa come un macigno ed è per tutti una permanente provocazione. “Uno di voi mi tradirà” (26,21): questa parola che spezza il clima festoso della cena pasquale deve risuonare in modo incalzante e sollecitare una verifica sincera della vita personale, familiare ed ecclesiale. La tragica vicenda di Giuda ci interpella molto da vicino. È vero, non abbiamo abbandonato il Signore eppure, se leggiamo onestamente, se per un attimo togliamo la mascherina dagli occhi, se mettiamo da parte il consueto elenco delle scuse, ci accorgiamo che la nostra vita non è priva di tradimenti. A volte si tratta di singole cadute, frutto della congenita debolezza; altre volte dobbiamo registrare uno stile di vita non troppo conforme al Vangelo o non adeguato alla specifica vocazione ricevuta. Tante volte siamo costretti a riconoscere di non aver risposto alle attese di Dio. Anche noi possiamo tradire per inseguire un successo professionale o per avere maggiore consenso o, più banalmente, per custodire una vita più comoda. Possiamo tradire quando evitiamo di assumere altri impegni, trovando la scusa di non avere tempo o capacità. Quante volte abbiamo ceduto alla tentazione di interpretare la Parola di Dio nella forma più comoda e più conveniente ai nostri gusti. Gesù ha atteso la cena pasquale per dare l’annuncio, nel momento della convivialità ricorda che la comunione fraterna è stata gravemente ferita. Questo contesto fa pensare alla celebrazione eucaristica e, più in generale, alla vita ecclesiale. Ogni tradimento non solo delude le attese di Dio ma inquina la vita ecclesiale. Ci prepariamo ad entrare nel Triduo pasquale con la coscienza della fragilità ma anche con la certezza che l’amore del Crocifisso risana e ridona vita.
Nessun commento per “Le attese di Dio”