
La tristezza che salva
di don Silvio Longobardi – s.longobardi@puntofamiglia.net
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,11-18)
In quel tempo, Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». Maria di Màgdala andò subito ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto.
Il commento
“Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva” (20,11). Il racconto è tutto avvolto dalla tristezza, quattro volte risuona il verbo piangere. La tristezza di Maria è immagine di quell’umanità che non può trovare la gioia senza Cristo. Il pianto è determinato unicamente dall’assenza del Signore, la forzata separazione genera un incontenibile dolore. Quel pianto prolungato e inconsolabile esprime, meglio di tante parole, la coscienza di non poter vivere senza il Signore. Il racconto evangelico prosegue fino alla gioia dell’incontro (20,16), conferma della promessa fatta da Gesù: “Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia” (Gv 16,20). Prima di arrivare all’abbraccio finale, vi chiedo di sostare sulla prima parte. Il dolore è la misura dell’amore. Amare qualcuno significa firmare un cambiale al dolore che, prima o poi, verrà a richiedere la parte che gli spetta. Il nostro amore per Gesù, se è autentico, sperimenta anche la tristezza. Quando ci accorgiamo di non averlo amato come Lui desidera. Quando ci rendiamo conto di averlo stupidamente offeso a causa del peccato. Quando si nasconde al nostro sguardo per invitarci a cercarlo con maggiore intensità. E quando, come accade in questo tempo di pandemia, non è possibile accostarsi alla mensa eucaristica per vivere quello che Teresa di Lisieux chiama un “bacio d’amore”. La gioia della fede non è l’allegria scanzonata e incosciente di chi non sente e non si lascia toccare dal dolore altrui. Ma c’è una tristezza più grande, quella che Maria di Magdala esprime con queste parole: “Hanno portato via il mio Signore” (20,13). Non dice che hanno rubato il corpo, parla di Gesù come una persona sottratta con violenza all’affetto dei discepoli, nelle sue parole s’intravede il dramma della croce.
Oggi chiediamo la grazia di imparare e custodire la tristezza di Maria come una sentinella che ci impedisce di trovare gioia nelle cose effimere e allontana con decisione tutto quello che impedisce al Signore di parlare al cuore. Chiediamo la grazia di vivere la privazione eucaristica come un dolore grande che prepara la gioia dell’incontro.
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