
Il titolo più umile
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,52-59)
In quel tempo, i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao.
Il commento
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“Non è costui il figlio del falegname?” (13,55). Fra i numerosi titoli che il Vangelo attribuisce a Gesù, questo è sicuramente quello più umile. Il Vangelo ci riporta a Nazaret e ci fa intravedere la semplicità di una vita ritmata dalla preghiera, dal lavoro e dagli affetti. Mi piace oggi contemplare Gesù adolescente che lavora nella bottega di Giuseppe. A partire dalla testimonianza di san Giuseppe, la liturgia propone di rileggere la realtà del lavoro non solo come un elemento indispensabile del nostro vivere ma come un capitolo della spiritualità. Dal punto di vista sociale e politico il lavoro presenta non pochi problemi, resi ancora più acuti dalla generale crisi economica. Sono questioni di cui tener conto, la Chiesa si fa carico del disagio e del dramma che affligge non poche famiglie e ha perciò il dovere di chiedere alle istituzioni pubbliche di attuare una politica in cui la solidarietà venga effettivamente declinata in modo da non abbandonare i più deboli alla deriva. E tuttavia, la parola della Chiesa non può sottolineare solo la dimensione sociale ma deve illuminare il senso stesso del lavoro. L’attività umana non resta confinata nel fare ma si presenta come un’esperienza umanizzante, anzi diventa parte integrante dell’opera creatrice di Dio. Tutti sono precettati e nessuno deve tirarsi indietro. Non importa la tipologia del lavoro, manuale o intellettuale, non conta il ruolo sociale di talune professioni, nelle mani di Dio ogni mestiere diventa un’arte perché è una pagina della redenzione. È questa l’unica vera grandezza che dobbiamo sempre ricercare e perseguire. Questa coscienza riempie il cuore di gioia ma accresce anche la responsabilità. La fede ci chiede di vivere ogni attività con coscienza e competenza; e c’impegna a rivestirla di amore soprannaturale. Il lavoro ci rende collaboratori di Dio, non solo ci santifica ma offre anche la possibilità di testimoniare la nostra fede nei diversi ambiti della sociale. “Fate tutto per la gloria di Dio”, scrive l’apostolo Paolo (1Cor 10,31). Invochiamo l’intercessione di san Giuseppe per poter fare di queste parole una regola di vita.
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