Diario di un medico

Le mie giornate in Pronto Soccorso…

Stetoscopio

di F. C., medico

Cosa vive un medico in Pronto Soccorso? Quali sono le sue paure, le ansie? Come la malattia, il dolore e la morte cambia il rapporto con i pazienti e con se stessi? Da oggi il diario di bordo di un medico in prima linea nella lotta alla sofferenza umana.

1 maggio

Caro diario,

la giornata di oggi segna l’inizio ufficiale di questa avventura. Il lavoro al Pronto Soccorso comincia sotto il segno dell’umile Sposo di Maria, nel giorno battezzato come la “Festa dei lavoratori”. Sì, oggi lo sguardo è puntato sul mio lavoro, eppure non posso fare a meno di pensare che ho ricevuto tante grazie e tanti privilegi dal Buon Dio, soprattutto in questo campo, a cui ne conseguono altrettante responsabilità, alle quali ho paura di non corrispondere come Lui desidera. 

La mia vita è molto lontana dalla testimonianza dell’umile falegname di Nazaret, eppure, anche se “vi è molto da sgrossare e il legno è duro”, come diceva santa Zelia Guérin Martin, la mamma di santa Teresa di Gesù Bambino, penso che possa affidarmi ad un esperto del settore come san Giuseppe.

Oggi inizia una nuova avventura, ma devo fare i conti con la sofferenza dovuta alla lontananza dai miei genitori: da oggi infatti mi sono trasferita per proteggerli dal rischio contagio. Tuttavia, anche se sono fisicamente lontana da loro, il nuovo inizio mi ha permesso di stare “cuore a cuore” con il Padre Celeste, potendomi accostare all’Eucaristia nella Cappella del complesso ospedaliero.

Devo fare i conti con le umiliazioni dovute al fatto che sono la più piccola e timida del team (oltre che non adeguatamente competente), con l’ambiente caotico e frenetico del Pronto Soccorso, con i pazienti immaginari (che si recano al Pronto Soccorso per dei semplici dolori muscolari), con il sistema fatto di burocrazie e con i colleghi che, anche in questo momento, prestano il loro servizio non in nome della professione e della carità, ma in nome della convenienza e del guadagno. Che il Signore mi protegga da tali insidie dell’anima e custodisca in me un cuore semplice!

La mia aspirazione? Amare e servire il prossimo in nome di Dio. Desidero fare ciò non solo in ospedale, ma in ogni ambito della mia vita.

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In fondo guarire è sinonimo di amare, ma sempre più capisco che c’è una sola medicina che può guarire l’uomo ed è Gesù Cristo. 

Quando ho iniziato il turno stamattina alle otto, ho trovato una ragazzina di 16 anni arrivata stanotte. Aveva avuto un episodio psicotico acuto. Alla sua giovanissima età, è già regolarmente in cura con psicofarmaci, ma stanotte questi non erano stati sufficienti. Il volto basso e incollato al cellulare, era vestita “dark”, una di quelle mode adolescenziali che fanno sentire i ragazzi alternativi, ribelli e accettati dagli amici. Da quello che ho intuito nelle telefonate con la madre (in quanto i familiari non possono restare in ospedale per via delle norme di contenimento della pandemia Covid 19) esprime un disagio, di natura familiare, che ha voluto tamponare con quello che non è solo un abbigliamento ma uno stile di vita.

Ma ciò non ha fatto altro che confermare la malattia dell’anima che si è poi espressa con una vera e propria malattia psichiatrica. Noi siamo figli della luce ed è la luce di Cristo che guarisce il nostro cuore prima e il nostro corpo poi. Ho provato a trasmetterle quella luce sorridendole, ma il sorriso era nascosto dalla mascherina. Spero le sia arrivato il sorriso degli occhi, in caso contrario le invierò quello della Vergine Maria attraverso il Santo Rosario.

8 maggio

Caro diario,

è inutile prenderci in giro: al Pronto Soccorso, così come in tutti i reparti ospedalieri (oltre che in tutti gli ambiti della vita sociale), esiste una gerarchia. Alla base ci sono gli operatori sociosanitari, che si preoccupano non solo di tenere puliti gli ambienti e i pazienti, di prendere loro i parametri vitali, ma anche di trasportarli da un reparto all’altro o accompagnarli a fare gli esami. Ma le loro mansioni non sono solo queste… Li vedi correre in continuazione per tutto l’ospedale, sono le formichine laboriose e instancabili che popolano i reparti. Poi ci sono gli infermieri: sono il braccio destro dei medici. Non appena arriva un nuovo paziente si fiondano a reperire un accesso venoso, sono lì a somministrare terapie, fare prelievi arteriosi, medicazioni.

E, infine, ci sono i medici. Se è vero che il posto del medico è stare accanto al letto del malato, è anche vero che gran parte del lavoro non è quello. I medici per guarire i malati non usano le mani, ma il cervello. Sono lì tutto il giorno a ragionare sulle cause della malattia, su malattie già esistenti, esami di approfondimenti da fare, la terapia giusta, i dosaggi. Studiano, refertano, si confrontano, ragionano. Eppure, se il cervello è fondamentale, il cuore lo è molto di più. Sì, perché se il cuore non ha la certezza che lì non ci sono solo pazienti ma “immagini di Cristo”, come diceva san Giuseppe Moscati, non ci vuole nulla che il malato diventi da uomo sofferente un problema da risolvere. Un problema per i posti letto che non ci sono, per gli impicci medico-legali, etc…

Io sono una di loro, eppure ho capito che se voglio stare accanto ai malati, a volte devo essere un po’ infermiere, altre volte operatore sociosanitario.

“Codice rosso”: tuona l’altoparlante. Viene trasportato un senzatetto con convulsioni. Schiuma dalla bocca, impossibile reperire un accesso venoso per i movimenti. Mi avvicino per aiutare gli infermieri, guardo l’orologio: è mezzogiorno. 

O Augusta Regina delle Vittorie noi devoti figli tuoi effondiamo gli affetti del nostro cuore e con confidenza di figli ti esprimiamo le nostre miserie”.

Quest’ora è un’ora benedetta: tutto continua a correre ma so che la Vergine è con noi. Le affido tutti i pazienti del Pronto Soccorso.

La signora della Fibrillazione Atriale mi sembra preoccupata. “Sta funzionando la terapia?”

Signora, è mezzogiorno, può fare la Supplica alla Madonna di Pompei”.

E la preghiera allontana ogni timore.




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