Le mie giornate in Pronto Soccorso

“Noi medici? Non siamo i padroni della vita”

medici

di F.C, medico

Qualche giorno in Pronto Soccorso e ti rendi conto subito Chi è che comanda sul serio. I pazienti mi passano davanti con il loro carico di dolore. Si affidano a me, ma io non sono il padrone della loro vita, posso solo aiutare e… pregare.

Caro diario,

le giornate trascorrono veloci, i ritmi incalzano e la vita al Pronto Soccorso si presenta giorno dopo giorno per quello che è. Oggi sono stata ai codici gialli-rossi. C’erano molti pazienti che mi preoccupavano: una signora anziana era in stato di shock, abbiamo poi scoperto che era causato da un tumore cerebrale che ormai aveva coinvolto gran parte del cervello. Mi sono avvicinata per l’emogasanalisi (ormai, anche se sono solo al primo anno, le influenze della specializzazione in Anestesia e Rianimazione si fanno sentire), cerco di idratarla, le controllo le pupille. La mia attenzione è catturata da lei: è in pessimo stato, non risponde neppure agli stimoli dolorosi.

C’è poi un’altra vecchina: ha avuto uno scompenso cardiaco acuto. La sua frequenza cardiaca non si normalizza, anche lei non appare in buono stato. Tuttavia con il passare delle ore sembra che la terapia cominci a fare effetto. Inizia a chiacchierare con la vicina di letto: ancora un’altra nonnina. Lei si chiama Anna. Anna invece non mi preoccupa per niente: ha la frequenza cardiaca un po’ bassa (un problema noto da tempo), è giunta in Pronto Soccorso per dolore al torace. L’ECG è buono, anche gli esami. Aspettiamo il risultato della TC torace. Sua figlia telefona al Pronto Soccorso e la tranquillizziamo: “Arrivati i risultati della TC, la dimettiamo”.

I pazienti si susseguono: un giovane tossicodipendente aggredisce l’infermiere di turno e gli sputa in faccia. Guardo l’infermiere e penso a come mi sarei sentita se ci fossi stata io al suo posto. È semplice amare i pazienti quando sono riconoscenti (anche se non è scontato neppure in questo caso), ma amarli quando ti maledicono, quando sono impazienti o aggressivi perché psichiatrici? Quando sono ingrati? Quando, soprattutto nel caso dei codici verdi, non vogliono attendere i tempi dei risultati degli esami?

È vero, il letto del malato è l’altare di Cristo, eppure anche il volto dell’infermiere riempito di sputi mi appare come il Volto Santo di Gesù. Lui, che in risposta agli sputi pensava a come salvarci dal peccato di cui siamo capaci e l’altro (l’infermiere), che agli sputi rispondeva tornando vicino al paziente e provando a curarlo. Mi sono chiesta se fossi capace di tanta carità, ma subito ho pensato di non averne le forze. Solo Gesù può aiutarmi ad amare fino a questo punto, o meglio, posso lasciare che sia Lui ad amare in me. Da sola, l’impresa non solo è ardua, ma oserei dire impossibile.

All’improvviso un monitor comincia a suonare insistentemente: è il monitor della signora Anna. La frequenza cardiaca cala di picco, insieme alla saturazione di ossigeno: arresto cardiaco. Subito iniziamo la Rianimazione cardio-polmonare: cicli di massaggio cardiaco, ventilazione, adrenalina. Oggi che ripenso a questo momento, mi vengono in mente tutte le giornate trascorse a studiare l’arresto cardiaco con i miei amici e colleghi. Le giornate di sole passate tra le mura domestiche o le aule studio dell’università. “Facciamo prima adrenalina o prima il massaggio? Quante volte si può dare l’adrenalina?” E poi l’ansia: “E se non massaggio bene?”.

Per la prima volta ho visto cosa succede nella realtà e ho scoperto che nella realtà la mente si illumina e tutta la procedura riesce alla perfezione, quasi magicamente. Tuttavia, ho anche scoperto che fare tutto alla perfezione non è sempre sufficiente. Mentre massaggiamo, arriva il referto della TC torace: “Tromboembolia polmonare diffusa”. I vasi sono totalmente chiusi: il cuore non ce la fa a lavorare contro un ostacolo più grande di lui. E nemmeno noi: perché noi medici non siamo i padroni della vita e della morte delle persone, ma dei semplici strumenti. 

Uno solo è il Padrone e Salvatore della nostra vita e noi possiamo solo “accettare generosamente la volontà del buon Dio, qualunque essa sia, giacché sarà sempre quello che vi può essere di meglio per noi”, come diceva santa Zelia Martin.

Leggi anche: Le mie giornate in Pronto Soccorso…

14 maggio

Caro diario,

quando la mattina mi alzo per andare a lavoro penso che quello che è accaduto non può essere che un piccolo miracolo: oltre ogni previsione e percorso ordinario mi trovo a lavorare come dirigente medico al Pronto Soccorso. Non sono passati nemmeno due anni dalla laurea. Se penso alla mia piccolezza e alla mia inesperienza rabbrividisco. Il Signore mi chiede di camminare sulle acque, cioè di fare ciò che le mie misere forze e conoscenze non potrebbero mai da sole.

Arrivo a lavoro e ci sono già i pazienti accettati dalla collega durante la notte. Un paziente ha bisogno di un emogasanalisi, mi avvicino. È un nonnino. “Come vi chiamate?”, gli domando. “Aniello” mi risponde. Il mio cuore si riempie di tenerezza. È il nome di mio nonno e in realtà l’anziano signore gli somiglia non poco. Mio nonno ha lasciato questa terra otto anni fa. Di lui ricordo la dolcezza e il suo essere un “uomo giusto”, dedito al lavoro, alla famiglia e all’Eucaristia domenicale. Aniello accusa un dolore al torace che fa sospettare una pericardite ma la TAC, oltre alla pericardite, evidenzia masse ai polmoni.

Come sempre il Pronto Soccorso si riempie di pazienti, ciascuno con la sua storia, la sua malattia, il suo sguardo, la sua vita. Le mogli attendono ore e ore noi medici che usciamo fuori a comunicare brevemente notizie dei loro mariti e così fanno anche i mariti quando sono le loro mogli ad essere malate. Non ho molto tempo per fermarmi a contemplarli, ma a contatto con quelle coppie penso alla grandezza del sacramento del matrimonio e a come l’amore si traduca ogni giorno in sacrificio.

Quando finisco il turno sono stremata come sempre, ma non posso evitare di recarmi nella Cappella dell’ospedale. Lì c’è sempre Qualcuno ad aspettarmi: Gesù. Lui sa cosa porto nel cuore, i miei bisogni, le attese, le aspettative. Mi dicono che non devo lasciarmi coinvolgere dalle storie dei pazienti, ma io non ci riesco. Non sono solo pazienti, sono persone, uomini, donne, mamme, papà, figli, mi passano sotto gli occhi con il loro carico di dolore. Sono un medico e combatto al loro fianco, ma c’è qualche altra cosa che posso fare per loro. Ogni giorno mi accosto all’altare nel silenzio della Cappella e depongo lì tutti i pazienti che ho incontrato durante il giorno. Oggi prima di andare si fa largo un ultimo pensiero: il mio futuro sposo. Conosce il mio dolore per non potermi accostare a Gesù ogni giorno e tutte le mattine si alza alle sei per andare da Gesù e portarmi nel cuore con sé.




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