Ora che il lockdown è finito come riconnettere i nostri amici con disabilità alla vita reale?

tablet

di Margherita Lampitelli, insegnante

La frequentazione assidua del mondo virtuale durante la quarantena può essere diventata, per una persona con disabilità, una nuova gabbia. Il mondo virtuale appare allettante, positivo e gratificante, ma non aiuta a compiere lo sforzo di decentrarsi dal proprio io ed aprirsi agli altri. Come aiutare queste persone a tornare alla realtà?

La crisi causata dal Covid che abbiamo vissuto negli ultimi mesi ha imposto una ridefinizione dei modi di essere gruppo all’interno di un rigido protocollo sanitario, e ha portato ciascuno all’isolamento, non solo fisico ma sociale. In questa situazione la presenza del digitale e della rete è stata, o meglio è sembrata, miracolosa, capace di riallacciare amicizie, di riattivare legami tra le persone anche se in modo virtuale. La stessa Scuola, con quella che ormai è nota a tutti come DAD (didattica a distanza), ha imposto ad ogni alunno di essere sempre connesso per poter essere partecipe alle attività didattiche che, da accompagnamento nel lockdown per gli alunni, poi si sono rivelate un nuovo modello educativo, con tanto di etichetta per il comportamento in rete.

Ma pur essendo continuamente connesse, le persone con disabilità hanno vissuto una condizione di ulteriore isolamento, sia quelli in età scolare che gli adulti, sia quelli con difficoltà di tipo relazionale che gli altri con altri tipi di disabilità. Tutti si sono ritrovati catapultati in un “mondo fuori dal mondo”, un surrogato in cui non hanno potuto sperimentare quei gesti, quegli sguardi, quel tono di voce che li avevano accompagnati e accarezzati più di tante parole.

A mio avviso il problema non è stato, unicamente, legato al momento contingente del lockdown, ma al suo dopo. Infatti l’aver consentito, anzi posto come una necessità, il continuo essere in rete, ha rinforzato l’abitudine dei ragazzi e dei bambini a relazionarsi con gli altri non più faccia a faccia, ma attraverso uno strumento digitale. E questo, una volta finito il lockdown (ma non le precauzioni anti-assembramento) è apparso un ulteriore colpo inferto all’inclusione sociale delle persone diversamente abili. La relazione con lo schermo che per i normotipici era un modo per stare in contatto, per le persone più fragili è stato l’inizio di una nuova dipendenza, quella dalle innumerevoli risorse (soprattutto video) proposte dalla rete. Oggi che ci è data la possibilità di uscire, i nostri ragazzi continuano a rapportarsi tra loro, più di prima, online.

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Inutile porre regole sui tempi di utilizzo degli strumenti digitali connessi in rete. Ci siamo accorti che la regola, anche con bambini o adolescenti più ligi, non serve a nulla: quando il tempo finisce è sempre una tragedia. Qualcuno potrebbe obiettare che nel XXI secolo i codici comunicativi si sono arricchiti della dimensione digitale e che sia coerente con i tempi questo comportamento… Ecco la parola da cui voglio partire: codice comunicativo “arricchito” dal digitale, che è diverso da codice comunicativo “diventato rigorosamente” digitale, che cioè si sposta totalmente dalla vita reale alla dimensione virtuale. Cioè quello che noi osserviamo oggi. 

Questa frequentazione così assidua del mondo virtuale, difficile da sostituire con cose più allettanti, diventa per una persona con disabilità, adulto, ragazzo o bambino che sia, una nuova gabbia. Gabbia perché il mondo virtuale appare allettante, positivo e gratificante, ma non aiuta la persona a compiere lo sforzo di decentrarsi dal proprio io ed aprirsi agli altri. Presentandosi come un mondo in cui va sempre tutto bene, senza impegno o applicazione, la persona che già fa fatica a mettersi in gioco con gli altri ed è timoroso di non essere accettato, non cerca più il confronto con la realtà. Insomma la socializzazione vera, che rende le persone migliori, non si vede neanche in lontananza. O meglio, il rischio è proprio questo, senza l’intervento della famiglia, della Scuola, degli esperti che lo seguono. 

Questi timori che ho appena espresso potrebbero apparire il frutto di una visione della realtà un po’ pessimistica, se non venissero confermati dall’esperienza di studio di alcuni esimi studiosi. In particolare, il rapporto tra individuo-digitale, soprattutto se la persona in oggetto è un soggetto fragile (ragazzo, bambino o portatore di disabilità) si pone non nell’ottica di divieti o regole rigide, ma di presa di coscienza delle possibilità che si aprono e di eventuali pericoli che comporta. Bisogna rendere le persone consapevoli. Perché un figlio sia consapevole è necessario che lo sia innanzitutto il genitore, in primo luogo sul potere che questo strumento può esercitare sulla mente umana, proprio in termini di potenzialità e di rischio. Una persona con fragilità, lasciata sola nella rete, è come un bambino lasciato solo per strada, non sa da cosa difendersi, in una realtà in cui tutto è facilmente falsificabile.

Quindi innanzitutto è necessario spiegare ai genitori e ai ragazzi che, nel caso del digitale, i rischi vanno dagli effetti dello schermo blu sulla capacità visiva, all’alterazione del ritmo sonno veglia, alla presenza di relazioni interpersonali spesso violente e denigranti (come per il cyberbullismo) perché il contesto di community è il prolungamento della realtà, con un grande potere sulla persona in termini emotivi.

Non si tratta di demonizzare, ma di guidare e indirizzare ad una gestione dello strumento che rispetti e valorizzi la persona. La prof.ssa Lucangeli dell’Università di Padova spiega, nelle sue pubblicazioni, come spesso il digitale abbia avuto il compito di sostituire funzioni che sono proprie delle figure di riferimento di un bambino. Le madri mettono bambini piccolissimi davanti al tablet per avere un momento di pace. Con un effetto immediato: mai ciuccio fu più efficace! E con un figlio con disabilità il rischio della tata elettronica è anche maggiore… Ma quel momento di pace ha un costo altissimo. Si attiva il cosiddetto circuito della dopamina, cioè il circuito della ricompensa, innescando un rinforzo e una motivazione sempre maggiori. Una vera dipendenza. Ecco spiegati il perché, tolto il cellulare ad una persona, non la si isola solo da un mondo complesso e allargato, ma la si priva del rinforzo della dopamina, con conseguente ansia, stress e bisogno di essere sempre connessi.

Ciò è ancor più vero se ci riferiamo a persone con fragilità legate a una disabilità. Le difficoltà nell’affrontare e nell’accogliere un cambiamento, nell’adattarsi, così come la gestione della frustrazione diventano altre buone ragioni per spingere una persona con disabilità a chiudersi al mondo, disabituandosi al rapporto con gli altri. Il nostro amico con disabilità rischia di accumulare uno svantaggio nella relazione che può essergli dannosissimo. Il rischio è di non sapersi più rapportare con le persone reali, di non saper più distinguere reale-virtuale, ma di vivere in una realtà solo virtuale. Come per i bambini molto piccoli, si sconsiglia la precoce esposizione al mondo virtuale e per tempi prolungati, sia per i danni connessi ai campi elettromagnetici sia per i danni derivanti dal sostituire input naturali ad input virtuali. Accompagnare una persona con disabilità oggi è molto delicato perché si è chiamati a considerare una stessa situazione da vari punti di vista. Il digitale può essere uno strumento potente di affermazione della propria persona, così come può diventare una giungla pericolosa. L’informazione e il buon senso possono essere sicuramente la chiave di lettura di questo delicato tema, croce e delizia della nostra società.




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