Fidanzamento

Senza legami non guadagniamo più libertà ma più solitudine

coppia

di Francesco Belletti

La cultura del provvisorio e dello scarto possono spesso avvelenare i progetti di vita insieme dei giovani e degli adulti, spaventati dall’impegno “per sempre” e intenzionati a sfruttare l’altro per sé, anziché donarsi all’altro.

Le relazioni familiari stanno attraversando un potente processo di trasformazione, che a volte travolge il significato stesso delle parole. Una delle parole maggiormente usurate nel nostro Paese, in questi decenni, è certamente “fidanzamento”. Raramente una coppia di giovani innamorati si presenta come “fidanzati”: in genere stanno insieme, l’altro/a è “il mio compagno/la mia compagna”, o anche il partner. Un classico esempio, quest’ultimo, di come nel nostro Paese si utilizza l’inglese quando si è in difficoltà con la delimitazione precisa di un concetto – o quando si cerca di nascondere, magari, il vero significato di un concetto o di una azione (molto meglio dire spending review che “taglio delle spese”). Forse l’unico contesto in cui la parola fidanzato/fidanzata è ancora alla moda (trendy) è nelle situazioni post-separazione, quando sembra più leggero e spiritoso, soprattutto per persone di una certa età, dire “la fidanzata di mio padre”, o “il mio nuovo fidanzato”. Certamente due ragazzi di vent’anni che si definiscono e si presentano ai propri amici o ai propri coetanei come “fidanzati” sembrano figli di altri tempi: antichi…

Il “logoramento” della parola diventa così segnale efficace della crisi della fase di vita così definita: parlare di fidanzamento è sempre più difficile perché il fidanzamento stesso sembra essere scomparso dalle traiettorie esistenziali delle persone. In effetti, come ricorda anche l’Amoris laetitia quando osserva e giudica il contesto socio-culturale odierno (un capitolo prezioso e forse troppo trascurato), è proprio l’idea di coppia e di progetto di vita che diventano difficili, una vera e propria corsa ad ostacoli, davanti ai quali è sempre più facile “abbandonare la corsa”, figli delle «[…]attuali tendenze culturali che sembrano imporre un’affettività senza limiti, […] un’affettività narcisistica, instabile e mutevole che non aiuta sempre i soggetti a raggiungere una maggiore maturità». (AL 41) «[…] mentre i vincoli rimangono abbandonati alla precarietà volubile dei desideri e delle circostanze. In fondo, oggi è facile confondere la genuina libertà con l’idea che ognuno giudica come gli pare, come se al di là degli individui non ci fossero verità, valori, principi che ci orientino, come se tutto fosse uguale e si dovesse permettere qualsiasi cosa […] Si teme la solitudine, si desidera uno spazio di protezione e di fedeltà, ma nello stesso tempo cresce il timore di essere catturati da una relazione che possa rimandare il soddisfacimento delle aspirazioni personali» (AL 33-34).

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Fede, fiducia, fedeltà… servono davvero per essere felici?

La cultura del provvisorio e dello scarto possono spesso avvelenare i progetti di vita insieme dei giovani e degli adulti, spaventati dall’impegno “per sempre” e intenzionati a sfruttare l’altro per sé, anziché donarsi all’altro. Sono i «[…] sintomi della “cultura del provvisorio”. Mi riferisco, per esempio, alla rapidità con cui le persone passano da una relazione affettiva ad un’altra. Credono che l’amore, come nelle reti sociali, si possa connettere o disconnettere a piacimento del consumatore e anche bloccare velocemente. Penso anche al timore che suscita la prospettiva di un impegno permanente, all’ossessione per il tempo libero, alle relazioni che calcolano costi e benefici e si mantengono unicamente se sono un mezzo per rimediare alla solitudine, per avere protezione o per ricevere qualche servizio. Si trasferisce alle relazioni affettive quello che accade con gli oggetti e con l’ambiente: tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio» (AL 39). 

Questa riduzione consumistica delle relazioni le rende fragili, e genera una grande paura verso il futuro, che invece è l’orizzonte irrinunciabile di ogni progetto di vita familiare. Questa paura raramente trova protezione dal contesto sociale, sempre più insicuro e incerto. «A rischio di banalizzare, potremmo dire che viviamo in una cultura che spinge i giovani a non formare una famiglia, perché mancano loro possibilità per il futuro. Ma questa stessa cultura presenta ad altri così tante opzioni che anch’essi sono dissuasi dal formare una famiglia. In alcuni paesi, molti giovani spesso sono indotti a rimandare le nozze per problemi di tipo economico, lavorativo o di studio». (AL 40). 

Del resto, a fronte delle realistiche paure dei giovani, il contesto sociale non offre concreti argomenti e sostegni per poterle vincere, ma anzi, pare gratificare una vita di coppia e matrimoniale la più “liquida” e reversibile possibile, fino ad arrivare ad una vera e propria “decostruzione giuridica” della famiglia come istituzione, per relegarla a pura sfera affettiva ed emotiva, totalmente privatizzata, senza alcune rilevanza pubblica e sociale. «In molti contesti, e non solo occidentali, si va diffondendo ampiamente la prassi della convivenza che precede il matrimonio o anche quella di convivenze non orientate ad assumere la forma di un vincolo istituzionale. In diversi paesi la legislazione facilita lo sviluppo di una molteplicità di alternative, così che un matrimonio connotato da esclusività, indissolubilità e apertura alla vita finisce per apparire una proposta antiquata tra molte altre. Avanza in molti paesi una decostruzione giuridica della famiglia che tende ad adottare forme basate quasi esclusivamente sul paradigma dell’autonomia della volontà». (AL 53. 

Insomma, in questo clima culturale il fidanzamento sembra prima di tutto tradire la sua stessa radice semantica, la sua etimologia, che era radicata nella “fede”, e che si concretizzava in un processo progressivo di esplorazione e rafforzamento della fiducia e della fedeltà tra i due fidanzati. Fede, fiducia e fedeltà sembrano oggi sempre meno possibili, e soprattutto sempre meno interessanti: “affidare” la propria felicità alla promessa di legarsi con un’altra persona non sembra più ragionevole: meglio vivere no limits, liberi da ogni vincolo. Così l’uomo contemporaneo si illude di diventare felice perché non ha legami. E non si accorge che invece l’uomo senza legami non guadagna più libertà, ma solo più solitudine.

Una società che non sa più aspettare

Esiste peraltro un’altra dinamica culturale nella contemporaneità, per certi versi diametralmente opposta a questa “fuga dal legame”, che modifica ed indebolisce il fidanzamento (o meglio, il periodo di vita che “prima” così veniva chiamato e definito), attraverso un processo paradossale, che potremmo definire di “sovraccarico di rilevanza”. In questa dinamica anche il periodo iniziale dell’innamoramento e dell’amore si riempie di valenze sempre più importanti, di pretese di senso e di pienezza prima non presenti, e proprio per questo si svuota del proprio significato specifico. In effetti il fidanzamento trova (trovava?) la propria ragion d’essere nel suo essere un “già e non ancora”: è un periodo di verifica, di progressiva esplorazione reciproca, di approfondimento del legame nel corso del tempo, alla ricerca della verità e della pienezza della relazione, che non è raggiungibile subito, ma è invece costruita (a volte faticosamente) nel corso del tempo. 

Insomma, il tempo del fidanzamento è un tempo propizio, in cui ogni istante aggiunge un piccolo mattoncino ad una costruzione che dovrà arrivare alla sua pienezza al termine del percorso, con la decisione finale – magari con il gesto socialmente riconosciuto (rito) del matrimonio. Invece anche per il fidanzamento oggi si innesca il meccanismo del “tutto subito”: non sono disposto ad aspettare, e da subito questa relazione deve essere piena, completa, perfetta… E nella pretesa (e nell’illusione) di una perfezione immediata, quasi magicamente ottenuta senza fatica, senza lavoro, senza attesa, il periodo del fidanzamento – o meglio, quel tempo che prima così si chiamava – perde la sua natura di percorso, di apprendistato, di educazione dell’amore. Ma così le delusioni sono all’ordine del giorno, perché manca quel “desiderio di futuro” che costruisce la vita, manca quella “terra inesplorata” da conoscere un po’ per volta, manca quel “sentimento dell’attesa” che la volpe pretendeva dal Piccolo Principe. Volere tutto subito è una pretesa che non corrisponde agli imprevedibili e spesso faticosi processi della conoscenza del mistero dell’altro: e proprio per questo delude. Qui sta il paradosso: per volere tutto subito, si finisce per non ottenere niente.

In questo senso la modalità con cui la sessualità oggi viene vissuta dalla stragrande maggioranza dei giovani può essere considerata un’efficace metafora di questa incapacità di attesa, in un duplice senso: da un lato nessuno è più disposto ad “aspettare oggi” per una maggiore pienezza domani; dall’altro, spesso il percorso di esplorazione dell’altro viene percorso “all’incontrario”. Una volta i due fidanzati procedevano in una progressiva esplorazione e comunione reciproca. Prima gli sguardi, poi qualche parola (in alcune culture popolari due ragazzi che cominciano a stare insieme “si parlano”…), poi le mani intrecciate, qualche bacio, le mani, le carezze e gli abbracci sempre più audaci… per rimandare alla pienezza del matrimonio la pienezza dall’atto sessuale. Oggi la conoscenza tra adolescenti per molti “inizia dalla fine”, in una banalizzazione della sessualità che la rende insipida e senza valore: per essere estremi (e con tutte le cautele del caso), ci si incontra e si fa sesso, e poi ci si dà un appuntamento per parlarsi. 

Così, anche nel modo in cui entra in gioco la concreta dimensione corporea, carnale, erotica e sessuale, viene totalmente cancellata l’idea stessa di un fidanzamento come tempo propizio dell’attesa, della verifica e della costruzione del progetto, perché si vuole stringere fin dall’inizio in modo completo l’oggetto (la persona) del desiderio. Ma a forza di stringere, non rimane più niente in mano. Al termine di queste brevi riflessioni, abbozzate senza pretesa di sistematicità, per tentare di rispondere alla domanda del titolo (si può parlare di fidanzamento?) forse sarebbe utile ricordare che al di là dei radicali mutamenti socio-culturali della contemporaneità, forse irreversibili, la parola “fidanzamento” racchiude in sé un tesoro prezioso, che anche oggi potrebbe rivelarsi decisivo per la ricerca della felicità degli uomini e delle donne nel nostro tempo, soprattutto per le nuove generazioni: l’idea – o meglio, l’esperienza – che nella vita la verità e la bellezza sono doni discreti, spesso nascosti, che per essere trovati chiedono pazienza, fatica, fiducia e compagni di viaggio. In fondo il fidanzamento voleva e doveva essere questo (e per molto probabilmente lo è ancora): un tempo di attesa fiduciosa, di verifica sincera e radicale, di scommessa sull’altro e sul futuro: e forse di queste virtù relazionali gli uomini e le donne di oggi hanno davvero bisogno, se vogliono diventare felici.




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