Educazione affettiva e sessuale

Che male c’è a masturbarsi, scambiare il partner, fare sesso come si vuole…?

cuore

di Giovanna Abbagnara

Questa domanda: “Che male c’è?” che ritorna con frequenza nel dialogo con i giovani, rivela tutto un universo culturale di chi non cerca la verità ma si accontenta di rispondere ai bisogni del momento e mette a tacere quella coscienza che di per sé ci chiede sempre uno slancio oblativo, solo che bombardata e ignorata quasi sempre ha finito per essere rinchiusa nel fondo della nostra vita.

Se volessi dare una definizione del clima culturale che c’è in Italia e nel mondo, direi che “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (Mt 16,8). L’ammonimento che Gesù fa a conclusione della parabola dell’amministratore disonesto sembra imbarazzante. Il Maestro infatti non solo loda l’uomo disonesto ma chiede ai suoi di agire con altrettanta scaltrezza. Evidentemente non intende far riferimento alla palese ingiustizia del suo comportamento ma all’abilità con cui ha saputo affrontare una situazione che appariva ormai compromessa. Gesù chiede ai suoi discepoli di essere più determinati nel cercare il bene. Essere scaltri vuol dire non aver paura di entrare in gioco, cercare con tutte le forze di rispondere alla chiamata senza lasciarsi imbrigliare dalle difficoltà. Come educatori, genitori, catechisti, presbiteri dobbiamo riflettere sulla necessità impellente di tornare ad educare all’affettività e alla sessualità in famiglia, nei seminari, negli istituti di vita religiosa. 

Bisogna senza dubbio partire dalla necessità di un’attenta formazione personale. Evitare a tutti i costi il “secondo me, secondo quello che ho vissuto”. Questo atteggiamento è giustificabile in un amico, in un’amica. Noi non siamo gli amici nel senso del mondo, lo siamo nel significato evangelico. E nel significato evangelico gli amici sono quelli che ci sussurrano all’orecchio le cose di Dio. “Tutto quello che ho udito dal Padre mio, l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Ho a volte la sensazione che il registro comunicativo prevalga sul contenuto e finisca per prevalere sulla verità. Facciamo bene a trovare il modo migliore per comunicare con i giovani, ad usare il linguaggio più adatto ma il contenuto deve essere chiaro a noi stessi. I fondamenti sui quali si costruisce una sana educazione all’affettività e alla sessualità devono essere forti innanzitutto in noi. 

Il rischio è quello di lasciarci attirare nella trappola del “Che male c’è?”. Questa domanda che ritorna con frequenza nel dialogo con i giovani, rivela tutto un universo culturale di chi non cerca la verità ma si accontenta di rispondere ai bisogni del momento e mette a tacere quella coscienza che di per sé ci chiede sempre uno slancio oblativo, solo che bombardata e ignorata quasi sempre ha finito per essere rinchiusa nel fondo della nostra vita. 

Che male c’è? È una domanda che in sé contiene già una coscienza e cioè che il male esiste. Solo che la cultura di oggi ha capito che per vincere ha bisogno di normare e normalizzare questa affermazione. Per esempio, sento spesso dire dai ragazzi: “Che male c’è a masturbarsi?”. In queste sere ho visto un film che si intitola Quanto basta: è la storia di un ragazzo autistico amante della cucina e di un cuoco famoso che doveva scontare una pena riabilitativa per percosse. Si conoscono in una struttura di accoglienza e decidono di partecipare ad un concorso nazionale culinario. Nel viaggio che fanno verso la località preposta, il ragazzo confida all’adulto che i nonni con cui viveva, avevano attivato il parental control sul tablet e lui non poteva accedere più ai video a sfondo pornografico che guardava mentre si masturbava. Il cuoco, l’adulto, il responsabile, colui al quale il ragazzo era stato affidato dalla psicologa del Centro di accoglienza risponde: “Che tragedia, io sono un sostenitore convinto di questi video”. E così dalla masturbazione si passa al “che male c’è ad eccitarsi vedendo un contenuto pornografico in una coppia, che male c’è a scambiarsi il partner… etc.  Sopita la coscienza l’unico imperativo al quale si dovrà rispondere è: “Di cosa ho bisogno? Cosa vuoi? Afferralo, prendilo. È tuo”. 

Questo è il frutto maturo di una cultura che ha sganciato l’affettività dalla sessualità, la strategia dei figli delle tenebre: rendere buono ciò che buono non è, cambiare l’ordine etico della realtà, rivestire di un abito naturale ciò che naturale non è. Ricorderete certamente ciò che diceva lo scrittore inglese Chesterton: “Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade verranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo la incredibile virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, incredibile universo che ci fissa in volto”. Questa prospettiva che lo scrittore prefigurava, a mio avviso è stata superata da tempo. Perché? Perché gli scaltri seguaci dell’inquilino del piano di sotto hanno capito che per far passare un comportamento, un atteggiamento non bisogna essere violenti, bisogna che si invochi la libertà assoluta dell’individuo di disporre del suo corpo come vuole e infine bisogna legiferarla in modo da eliminare ogni possibilità di aprire termini di confronto.

Prendiamo in esame velocemente il Ddl presentato alla Camera sull’omotransfobia. Lo scopo del ddl Zan Scalfarotto è quello di modificare atteggiamenti culturali attraverso una legge esattamente come fu fatto 40 anni con la 194. All’epoca furono presentati casi di donne estremi e inadatti ma in grado di suscitare empatia ai fini dell’approvazione. La conseguenza è che l’aborto è diventato un diritto prima nella cultura che nell’ordine normativo con le conseguenze che conosciamo tutti. Allo stesso modo se qualcuno è avvezzo a seguire un po’ i giornali, Repubblica nei giorni precedenti alla presentazione del testo unico ha presentato la storia di Sarah Hegazi, un articolo del 2018, ripreso però dalla notizia del suicidio di Sarah chiaramente dovuto secondo il quotidiano al fatto che l’attivista Lgbt avesse subito violenze inaudite dagli estremisti islamici e anche altri fatti di cronaca. La tragedia della Hegazi è assurda e merita tutto il nostro rispetto tuttavia perché la redazione del noto quotidiano non ha dato spazio anche a quanti tra le persone con attrazione verso lo stesso sesso si oppongono a tale legge? 

In questo modo, legiferata l’impossibilità a dichiarare per esempio la superiorità della famiglia fondata sull’unione di un uomo e di una donna o il diritto di un bambino ad una genitorialità maschile e femminile, io non posso esprimere un’idea, non posso parlare, non c’è confronto. Perché il confronto porterebbe ad ammettere alcune verità naturali. Sono certa che il bene risplende di luce propria che spesso non dobbiamo scomodare nemmeno le leggi morali per comprenderlo ma dobbiamo anche riconoscere che nel momento in cui io assottiglio o rendo inesistente il terreno di confronto è fatta. La vittoria è in pugno.

Per non lasciarsi catturare dalle maglie del male che sottilmente avvolgono il nostro pensiero, è necessario, restare ancorati alla verità senza compromessi. Non si può scendere a patti con il male. Questa è un’illusione molto diffusa anche tra i genitori, tra gli educatori, tra i media, nel mondo dell’Associazionismo. Trovo secondo la mia sensibilità, inammissibile la dichiarazione che Luciano Moia ha fatto in questi giorni su Avvenire circa il ddl Zan Scalfarotto quando scrive e cito: “E quindi la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia; la strategia nazionale contro la violenza di genere; i centri contro le discriminazioni; il fondo nazionale per le vittime. Tutte iniziative ad alto tasso di rischio ideologico che sarebbe però sbagliato bollare subito come propaganda lgbt a senso unico. Con una gestione equilibrata e senza estremismi potrebbero rivelarsi anche ottime occasioni educative”. Non voglio entrare nelle intenzioni di Moia ma secondo la mia sensibilità questo è un modo di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno che non porta a nulla di buono. Quando cercano di mettere in difficoltà Gesù con la domanda circa il ripudio: «È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?», Gesù non si sottrae alla sfida, ma lui non è un semplice mercante di parole. Lui ha scelto la verità non la fama e non cade nel tranello, invita l’uomo a guardarsi dentro e a non fermarsi al fallimento ma a credere al sogno di Dio su ogni coppia di sposi. 

Pochi mesi fa è uscito per Mondadori un testo indirizzato ai bambini di dieci anni: “Tutto quello che non hai mai osato chiedere ai tuoi genitori…men che meno ai professori”. Un testo tradotto in una mostra presentata all’Expo di Parigi. Il libro affronta temi come far l’amore, la nascita di un figlio, i pericoli di fare sesso senza precauzioni. Ebbene alla mostra su due manichini i bambini potevano divertirsi a provocare l’erezione o a simulare il movimento della lingua durante il bacio. Il sito dell’Expo si chiede: “Non è geniale tutto questo?”. Non lo trovo geniale, è agghiacciante e credo che ogni bambino con in mano questo libretto si sentirebbe molto in imbarazzo. La sessualità è ridicolizzata al massimo grado. Qual è il fine di questo libretto? Normalizzare alcuni atteggiamenti, emozioni. Quali emozioni? Quello che il corpo che ti dà. È la sensazione che dirige anche il pensiero.

Siamo immersi in una cultura iper-sessualizzata e iper-erotizzata. Film, pubblicità, libri, canzoni, serie televisive su fiction sottolineano sempre e soltanto il diritto al piacere, al godimento, alla ricerca del proprio piacere. Ci ritroviamo spesso a dover seguire itinerari di preparazione al matrimonio e di fronte a noi abbiamo fidanzati che usano il preservativo, il contraccettivo, la pillola del giorno dopo, ormai da così tanto tempo che la contraccezione non è più solo un modo per evitare una gravidanza. È il modo per cambiare la grammatica dell’amore, per stravolgere l’amore tra due persone. Per capovolgere anche il modo di fare l’amore. Il contraccettivo si insinua e divide l’amore dal corpo. Nessuno parla per esempio dei metodi naturali che non sono l’alternativa naturale alla contraccezione ma uno stile di amarsi perché aiutano la coppia a ricomporre quell’unità che la cultura tende a dividere.  

Tirando le somme, credo che siamo tutti d’accordo nel ritenere, le donne di più rispetto agli uomini ma questo fa parte delle differenze di cui il Signore ci ha ricolmato, che una vita affettiva soddisfacente piena coincida con una vita sessuale piena ma non possiamo certamente affermare il contrario. Una vita sessuale soddisfacente e ricca non automaticamente produce una relazione affettiva piena. E questo è un dato di fatto acclarato da moltissimi studi psicologici. Tanto che alcuni affermano che le donne passano da una relazione sessuale all’altra perché sentono il bisogno di essere amate e protette, alla ricerca dell’uomo che li custodisca mentre gli uomini lo fanno più spinti dall’istinto e per vantarsi con i propri amici ma che spesso tutto questo non riesce a colmare il vuoto affettivo che si portano dentro. 

La regola secondo cui una vita affettiva soddisfacente coincide anche con quella sessuale non vale solo per gli sposi ma anche per i fidanzati, i consacrati e i presbiteri. I fidanzati chiamati a una continenza transeunte, gli altri a una continenza permanente ma tutti chiamati a vivere il rapporto con il proprio corpo e la propria sessualità con un grande slancio oblativo, di amore cioè donato interamente anima e corpo.




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