“Se non possono nulla i prof, a chi dobbiamo rivolgerci?”

DIsagio

Storia di S. raccontata da Ida Giangrande

Avevo appena 15 anni, non sapevo difendermi dai bulli. Nessuno ha saputo difendermi né i miei genitori né gli insegnanti. Oggi sono adulto e sono padre e ho deciso di denunciare perché la Scuola torni ad essere il luogo di accoglienza per eccellenza.

Qualche volta succede ancora oggi. Sono passati anni, ero solo un ragazzino di appena 15 anni, oggi sono un uomo eppure mi capita di guardarmi allo specchio e di avvertire quella sensazione claustrofobica che percepivo spesso quando mi alzavo di mattina per andare a scuola. Erano sempre tutti presenti i miei compagni. Sembrava che venissero in classe volentieri anche se studiavano poco e il migliore di loro aveva sette note di disciplinari e qualche sufficienza stentata. I miei genitori ci tenevano che andassi bene a scuola, ma i miei voti alti non piacevano ai miei compagni. Ero il perfettino, quello da sfruttare quando serve e da schernire quando vuoi. Vivere le ore di lezione, pian piano, divenne un peso insopportabile per me. Il pensiero di dover affrontare un’altra giornata nel chiuso di quell’aula mi metteva ansia. 

Il prof mi interrogava e loro sghignazzavano se rispondevo esattamente, mi deridevano perché non fumavo, perché non mi piaceva imbrattare le pareti dei bagni con scritte stupide e disegnini osceni, perché non dicevo parolacce, non avevo foto porno sul cellulare e non mi piaceva fare continui riferimenti al sesso. Per me questa si chiamava buona educazione, per loro si chiamava noia, stupidità.

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Non riuscivano a capire quanto facevano male le loro paroline stupide dette fra i denti alle mie spalle, poi le scritte sul mio banco, le stesse che non volevo fare sulle pareti dei bagni, infine i piccoli furti, qualche matita, un temperino e…l’orologio che mio padre mi aveva fatto trovare sotto l’albero, acquistato con i risparmi che i miei genitori erano riusciti a salvare dalle bollette, le spese e tutto il resto. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi arrabbiai, urlai, minacciai di andare a parlare con la referente di classe, in tutta risposta loro minacciarono di rompermi l’osso del collo. Erano solo parole ma facevano paura. Tutti sapevano, anche chi non apparteneva a quel gruppetto ristretto, ma ciascuno fingeva di non vedere e di non sentire. Non era un problema loro. Io non ero amico di nessuno. 

Non so dove ma trovai il coraggio di dirlo all’insegnante, la prof di Italiano, giovane ma di vecchio stampo. Lei ebbe colloqui con ciascuno di loro singolarmente e li convinse a chiedermi scusa. Successe durante un’assemblea di classe, mi chiesero scusa, ma lo fecero con quel ghigno caustico sulle labbra che mi incusse più timore che altro. Quando i miei genitori vennero a parlarne a scuola, la referente, con le spalle curve disse: “Lo so che non dovrei dirlo, ma per il bene di vostro figlio è meglio che lo portate via”. Papà e mamma non se lo fecero ripetere due volte. Mi iscrissero in un’altra scuola, lontana dal piccolo paese in cui vivevamo e da quel momento è calato il silenzio. I miei genitori erano due persone molto umili, avevano potuto studiare poco e avevano sempre lavorato nella vita, papà era carpentiere, mamma faceva la sarta. Non si posero il problema di quanto mi avesse segnato quella storia. Mi chiesero di non parlarne mai con nessuno, come se ci fosse qualcosa di cui vergognarmi. Io obbedii. Non ne parlai mai più ma dentro di me rimestavo quella faccenda all’infinito. Solo ora che sono un uomo trovo il coraggio di denunciare.   

Sono passati anni ma ricordo il volto di ciascuno di loro, il modo con cui mi deridevano, quel senso di frustrazione interiore nel non riuscire a difendermi, il peso dell’umiliazione, della solitudine, dell’indifferenza. Non sono momenti che se ne vanno, ma ferite che restano sulla pelle, insieme al ricordo dell’espressione della referente di classe che alzando le spalle disse a mio padre: “È meglio che ve lo portate via”. Come a dire: “Non possiamo fare nulla. Hanno vinto”. 

Loro avevano vinto perché io sono andato via da quella scuola e forse con il tempo avranno creduto che per togliersi qualcuno dalle scatole è necessario deriderlo e umiliarlo fino allo sfinimento. Nessuno ha saputo difendermi all’epoca e ancora oggi mi domando: “Se non possono nulla i prof, a chi dobbiamo rivolgerci?”.




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1 risposta su ““Se non possono nulla i prof, a chi dobbiamo rivolgerci?””

Il racconto realistico e veritiero mi ha fatto riflettere molto su ciò che è successo a lui e su ciò che è successo ad un ragazzino che frequentava il catechismo adolescenti, una quindicina di anni fà. Parlo da catechista. Una quindicina di anni fà, c’era un giovane ragazzino, molto sveglio, che disturbava l’ora del catechismo. Un giorno, consultando la mia collega catechista, abbiamo deciso di svolgere il catechismo davanti il tabernacolo della chiesa. Lui continuava a disturbare e dire parole insensate verso il Signore e alla Chiesa. Allora mi presi d’animo e gli dissi: sai, carissimo, quello che tu fai non è giusto per i tuoi compagni e nemmeno con noi catechisti; sai che dietro al catechista ci sta una persona? E quella persona, io, guardacaso è un uomo, potrei portarti fuori e farti vedere l’uomo che c’è in me, ma non lo faccio per amore del Signore e per l’amore che nutro per te. Un giorno, però, potrai trovare persone che non hanno gli stessi sentimenti che provo io per te. Sono passati cinque/sei anni da quella volta, e mi trovai al cimitero per fare visita ad un parente morto e vidi una lapide con la foto di un giovane sul cavallo e il nome e cognome di quel giovane; era il giovane che io volevo salvare avvertendolo che le persone non siamo tutti uguali. C’era lì sua madre e gli chiesi se si ricordava di me, mi disse che non ricordava. Io le dissi , sono stato il catechista di suo figlio, e mi dispiace molto per la sua morte. Mi ha detto la madre grazie. Quel giovane, purtroppo era stato ucciso dalla mafia. Non aveva compiuto nemmeno i venti anni di età. Fare i sbruffoni, nella vita, è perdere la propria dignità di persona. Pace e bene.

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