eutanasia

Non aiuterò mai chi vuole morire perché sono cattolica

di Giovanna Abbagnara

Lettera aperta a Mina Welby, co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni che insieme a Marco Cappato, sono stati sollevati lunedì 27 luglio dall’accusa di istigazione e aiuto al suicidio.

Cara signora Welby,
le confesso che la foto che la ritrae esultante insieme a Marco Cappato per la sentenza con cui lunedì 27 luglio siete stati assolti dalla Corte di Assise di Massa dall’accusa di istigazione e aiuto al suicidio per la morte di Davide Trentini, mi lascia molto perplessa e preoccupata.

La morte di due persone, quella di Trentini e quella di Fabiano Antoniani non può essere motivo di gioia e di esultanza né possiamo affermare, come ha fatto lei, che “è stato fatto un altro piccolo passo in avanti”. Le vorrei chiedere: ma nel suo cuore ha ricevuto attraverso queste sentenze un sollievo al suo dolore? Il modo in cui è morto suo marito le appare più giusto? Rispetto i suoi sentimenti e immagino lo strazio di una moglie che vedeva soffrire suo marito. Credo che l’amore ci spinga a voler proteggere e sollevare chi amiamo da tutte le pene del mondo. È certamente un sentimento di bene che l’ha spinta a combattere una battaglia e oggi la fa esultare e sorridere… anche se si dovrebbe piangere, cara Mina, piangere di dolore di fronte a una sentenza che concretamente stabilisce che in Italia si può aiutare una persona a morire senza rischiare di finire in carcere.

Intervistata da Repubblica, lei ha dichiarato: “Ho aiutato chi voleva morire perché sono cattolica. E ho promesso a Piergiorgio di combattere per l’eutanasia”. Due affermazioni che chiamano in causa il suo credo e il suo amore. Peccato che in entrambi i casi ci sia una grande e pericolosa confusione su ciò che questi termini veramente significano. Essere cattolici significa difendere la vita dal concepimento alla sua morte naturale e questo non mi sembra il caso. Non si può essere cattolici “fai da te”, dare il braccetto al pensiero politicamente corretto e poi andare in chiesa ad assolvere qualche precetto. La fede che mi è stata trasmessa è innanzitutto rispetto e dignità per ogni persona La dignità della persona umana è un valore assoluto, che si acquisisce con l’esistenza in vita e non si perde neppure dopo la morte. È lo stesso Papa Francesco a ricordarlo: «è chiaro che laddove la vita vale non per la sua dignità, ma per la sua efficienza e per la sua produttività, tutto ciò diventa possibile. In questo scenario occorre ribadire che la vita umana, dal concepimento fino alla sua fine naturale, possiede una dignità che la rende intangibile».

Questo aggettivo intangibile deriva dal latino tangere, toccare, intangìbile è qualcosa che non si può o non si deve toccare. Ogni persona in qualunque stato della sua vita vive, la sua esistenza è sacra. Sia essa nel grembo della donna che in un letto di ospedale. Non possiamo e non vogliamo pensare che una persona sia degna solo di vivere e di essere guardata solo in base ad alcuni criteri che la società impone, l’efficienza, la produttività, etc… Sono certa che lei amava Piergiorgio anche se non era più efficiente e produttivo come una volta. E allora perché ha ceduto ad una deriva così mortale?

Forse perché pensava che l’autodeterminazione significasse sempre e necessariamente una scelta di valore, coerente con la dignità della persona umana. Ma le faccio notare che chi si autodetermina per il consumo di droga, compie una scelta palesemente sbagliata e la società e chi lo ama ha il dovere di intervenire con tutti i mezzi leciti necessari. Chi decide di suicidarsi compie una scelta assurda e una società veramente civile ha il dovere di intervenire per modificare l’insana determinazione e tutelare la sua dignità.

È vero, la sofferenza di chi amiamo ci sconvolge soprattutto se è accompagnata dalla coscienza che quel dolore è uno stato irreversibile che lo condurrà alla morte in poco tempo. Ma aiutarla a mettere fine alla sua vita non è un gesto di amore e soprattutto non è un gesto cattolico.

Nella mia esperienza vedo invece che persone fortemente disabili, che dipendono dagli altri in tutto e per tutto sono e possono essere motivo di grande conversione per chi vive con loro. Vorrei raccontarle una storia. Il 25 ottobre del 2004 presso l’Oasi Betlemme, una delle case di accoglienza di Progetto Famiglia, in cui opero, è arrivata Chiara, aveva 40 giorni. Fu affidata a Delfina, la responsabile dell’Oasi insieme a suo marito Gaetano e ai quattro figli naturali, con una sentenza: “La bambina è idroanencefalica, la mamma ha partorito in anonimato. Può vivere un anno, al massimo due”. Sono trascorsi quasi 16 anni da quel momento, i medici ad ogni controllo sono stupiti di rivederla. Chiara non si regge in piedi, non può muovere nessun arto, non può camminare, non può comunicare in alcun modo le sue emozioni, non mangia e non beve da sola. Per la medicina è un peso inutile sulle spalle del sistema sanitario. Eppure, questa bambina che dipende in tutto e per tutto dagli altri è diventata il motore di questa grande famiglia. “Non è un peso ma un dono. È lei che ci dà la forza per lottare ogni giorno”.

L’esperienza con Chiara ci ha insegnato che a volte la medicina non è una scienza esatta e che una diagnosi infausta spesso non fa i conti con l’amore gratuito e disinteressato di chi circonda queste persone.  “L’amore è prendersi carico degli altri. L’amore è lavoro” ha detto papa Francesco qualche tempo fa visitando una parrocchia di Roma. Purtroppo, storie come queste non trovano spazio sui giornali e invece dovremmo dare la parola anche a quei malati gravi che non vogliono morire ma chiedono solo un sostegno per loro e le loro famiglie e non lo ricevono.

Mi rendo conto che non è semplice stare vicino a queste persone. Il dolore è un enigma per l’uomo e uno scandalo per un cristiano. Il credente a buona ragione può chiedersi: “Se Dio è buono, perché infligge o permette che siano inflitte alle creature innocenti e da Lui amate il dolore e la morte?”. Il nostro dolore e la nostra morte ci fanno pensare che Dio sia assente o indifferente.

La fede cristiana non fugge la sfida del dolore, ma la pone audacemente al centro del suo credo. Il farsi carne di Dio, il suo nascondersi nelle pieghe dolorose dell’esistenza, il suo chinarsi sulle piaghe del mondo, il suo condividere gli aspetti oscuri del vivere, sino al tradimento, alla passione e alla morte terribile in croce. Tutto questo sostanzia la fede cristiana.

Dio non abbandona l’uomo al suo destino e, per puro amore, si fa uno con l’uomo, gli si pone al fianco e percorre sino in fondo la via della condizione umana. Dio è presente nella fede del credente che coglie accanto a sé la presenza consolante dell’Uomo crocifisso ed è presente tangibilmente in tutti coloro che servono con amore il loro fratello sofferente. Dovremmo ricordarci tutto questo mentre affermiamo di essere cattolici. Guardi la croce veramente e troverà una risposta al suo cuore inquieto. Non aiutando altri a morire le restituirà il suo Piergiorgio, solo Cristo può ridonarle il suo sposo, per sempre.




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