RU486

Noia: “Aborto farmacologico? Un attacco gratuito e violento alla maternità”

Giuseppe Noia

di Ida Giangrande

“Nella mia esperienza, in casi di aborto spontaneo, nessuna donna mi ha mai detto di aver perso un embrione. Tutte riferiscono di aver perso un figlio”. A parlare è Giuseppe Noia, docente di Medicina dell’Età Prenatale presso la facoltà di Medicina e Chirurgia, docente dei corsi di Perfezionamento e dei Master in Bioetica. Presidente dell’Associazione Italiana Ginecologi Ostetrici Cattolici (AIGOC).

Non più tardi dello scorso 8 agosto il Ministro della Salute, Roberto Speranza, ha allungato il limite per l’aborto farmacologico fino a 9 settimane di gestazione senza l’obbligo di ricovero. Professor Noia, la sua esperienza a contatto diretto con le madri quali scenari le permette di prospettare? 

Innanzitutto, c’è una premessa generale da fare: il grande problema antropologico di questo nostro tempo è il rifiuto di usare le ragioni della ragione siano esse scientifiche che giuridiche, filosofiche, etiche e psicosociali nel perseguire la verità sulla persona umana. Rifiutare di ragionare sulle evidenze è il grande “peccato” della cultura moderna. È una forma di accanimento affinché non possa venir fuori la verità sulla persona umana, con un silenziamento studiato a tavolino di tutti quei processi di conoscenza che possano far riflettere e dare consapevolezza e quindi aumentare l’ampiezza della libertà di scelta. Questo vale per ogni campo della vita psicosociale ed è caratterizzato da un atteggiamento improntato all’individualismo e alla chiusura in sé stessi. Le evidenze della ragione invece ci aiutano a guardare fuori da noi e a trovare il senso in un servizio alla persona umana. In questa angolazione, infatti, non vi sono differenze di sesso, di religione o di appartenenza politica perché il valore da perseguire è la verità della persona umana. Custodire, difendere e salvare l’umano, il tesoro incredibile che ogni persona porta nella sua esistenza, dovrebbe essere il fine di ogni scelta, di ogni azione, di ogni progettualità sia sul piano individuale che sullo quello sociale. Quello che è accaduto con le nuove Linee guida del Ministero della Salute, con l’uso della pillola abortiva RU486, è la dimostrazione lampante del rifiuto a ragionare sulle evidenze scientifiche che dimostrano rischi gravi per la salute delle donne correlati alla effettuazione dell’aborto farmacologico senza ricovero e con l’estensione della possibilità di farlo fino alla 9° settimana inclusa.  

Quali saranno le ricadute in termini emotivi, affettivi e psicologici sulle donne e qual è il tasso di mortalità femminile per l’aborto farmacologico?

Togliere una pratica abortiva dallo stretto controllo medico, è già di per sé una scelta irrazionale che non va certo verso la salvaguardia della salute delle donne. Come dicevamo precedentemente, le donne che fanno questa terribile scelta vengono relegate in maniera “pilatesca” ad un’autogestione dell’aborto volontario. Questo tipo di proposta appare paradossale sia nel merito che nel metodo sia per le conseguenze più immediate, sia per le conseguenze a distanza. Per quanto riguarda il merito, se il criterio è quello economico e di risparmio della spesa sanitaria (qualcuno ha paragonato questo tipo di scelta a quella fatta per migliorare, senza ospedalizzazione, la correzione dell’ernia inguinale), lascio a chi legge le considerazioni su questa comparazione misera e assolutamente inopportuna: la perdita della vita di un essere umano non può essere paragonata alla miglioria di una tecnica di un intervento chirurgico finalizzato a un minor costo sanitario sociale. Per quanto riguarda il metodo vi sono diverse considerazioni da fare. Innanzitutto, parlano di un “passo importante” nella scelta abortiva e nella libertà delle donne. Su questo qualcuno ha scritto con triste ironia: “Un passo importante che rende libere le donne di abortire tra il tinello e il bagno di casa”. Questa sarebbe la libertà? La seconda considerazione riguarda l’abbandono da parte del mondo medico di una donna che sceglie di abortire con la RU486. Questo ritorno a una clandestinizzazione nel privato aggiunge solitudine a solitudine, essa lo gestisce a casa in una angosciosa attesa dell’agonia espulsiva del proprio bambino e nella paura che un’emorragia grave possa comportare un successivo ricovero sia per un completamento di espulsione del tessuto abortivo rimasto dentro sia per un’eventuale trasfusione (Royal College of Obstetricians and Gynecolgists, Rcog, Guidelines, 2011; Update Guidelines, March 2, 2020). Una terza considerazione riguarda la iper-responsabilizzazione psichica ed emozionale della donna che sceglie, assume la pillola, gestisce la fase abortiva, la paura e l’angoscia, fino alla visualizzazione del proprio bambino con tutte le sue fattezze umane che viene espulso con tutto il suo sacchetto gestazionale e questo avverrebbe nel 56% dei casi (British Medical Journal, 332, 1235, 2006). Come si può vedere vengono aggiunte ferite a ferite per una donna già provata fisicamente e psicologicamente dalla lunga e stressante procedura abortiva. Un ultimo aspetto, che è stato completamente ignorato dalle linee guida del Ministero, e che invece è segnalato dalla FDA statunitense, è relativo alle 24 morti correlate fino al 31 dicembre 2018. In Italia, il Ministero della Sanità riporta l’aborto chirurgico in 40 anni di legge 194. Nei 10 anni in cui è stata utilizzata l’abortività con la RU486 ci sono state 2 morti legate alla procedura. Facendo valutazioni molto semplici si passa dal 2 al 20% nel confronto tra le due procedure. Questo (pericolosità dell’aborto farmacologico 10 volte superiore) è esattamente il dato che ha riportato il New England Journal of Medicine nel 2005.

Perché l’informazione non ne parla?

Perché la cultura dello scarto cerca di silenziare tutto ciò che è il protagonismo dell’embrione in una relazione di simbiosi materno-fetale che è una meraviglia agli occhi del cuore e della mente. Il figlio riceve dalla madre ossigeno e nutrizionali e a sua volta invia alla madre cellule staminali guaritrici come se fosse un vero e proprio medico della madre. Secondo lei, parlare di questa meravigliosa simbiosi porterebbe acqua al mulino di chi vuol vedere il figlio contro la madre? Sicuramente no, per cui vale la pena di non far conoscere questo dato scientifico o comunque di diminuirne la portata culturale. Nella cultura dello scarto, che è cultura della morte, vi sono una serie infinite di strategie perché le evidenze scientifiche e umane non arrivino alle coscienze e questo è il mondo dei sotterfugi menzogneri il cui passo principale è quello di creare confusione valoriale e falsa pietà.  

Leggi anche: Noia: “Quanta gente sa che i primi 8 giorni della nostra vita sono importantissimi per il futuro della persona umana fino all’età adulta?”

Se l’aborto in sé è un mostruoso attacco al bambino non ancora nato, invisibile agli occhi della società civile, questa modifica alle linee guida per l’aborto farmacologico non le sembra un attacco gratuito e violento alla madre nascosta in ogni donna?

È sicuramente un attacco gratuito e violento alla maternità che è in ogni donna. Io aggiungerei anche che tutto questo avviene in una indifferenza psicosociale perché la legge 194 ha fatto scuola: se c’è una legge dello Stato allora l’abortività volontaria va regolata e quindi l’aspetto giuridico-sociale prende il sopravvento sul diritto prelazionale che ogni vita umana ha diritto ad esistere. Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito alla nascita di diritti come funghi ma solo per l’embrione non esiste il diritto. Già questa famosa idea delle pari opportunità viene completamente contraddetta dal fatto che per l’embrione non c’è alcun diritto. 

A nove settimane di gestazione la mamma non si accorge che porta un bambino in grembo? Che tipo di relazione c’è tra madre e figlio in questa epoca della gravidanza?

La relazione è iniziata subito dopo il concepimento attraverso il cross-talk. Questo dialogo, che avviene addirittura prima dell’impianto, prepara la scelta del posto più idoneo per formare la placenta, l’organo nutrizionale per eccellenza, il cui normale funzionamento garantisce un normale peso alla nascita. Se però il colloquio biologico, immunologico e ormonale è subottimale si può avere o un aborto spontaneo oppure una gravidanza che prosegue con un apporto ossigenativo non adeguato. Il peso alla nascita sotto i 2 Kg in epoche gestazionali a termine ha ripercussioni patologiche nell’infanzia, nell’adolescenza e nella vita adulta. Se molti scienziati si soffermassero a contemplare la bellezza e la grandezza di questa relazione, forse vedrebbero di più e con più stupore la dignità di ogni vita umana. Se molti scienziati vedessero la continuità relazionale dei primi 8 giorni come fondamento culturale di ogni relazione, l’embrione, oltre che medico della madre, sarebbe visto come un docente universitario.

Parliamo del sistema sanitario, si ha quasi la sensazione che con questa manovra si voglia snellire la procedura abortiva fino a deresponsabilizzare completamente la scienza lasciando tutto a carico della donna…

Non è una sensazione. Come molte donne hanno testimoniato sui giornali, la donna subisce un abbandono terapeutico ed umano per cui la realtà è che sembrerebbe che “l’uomo venga fatto per il sabato e non che il sabato venga fatto per l’uomo”. Oltre all’abbandono terapeutico, prima di questo c’è una informazione non completa sulla procedura abortiva, su come essa si può evolvere nei giorni, sulle complicazioni emorragiche e sui rischi fatali. Rubare l’informazione che crea consapevolezza è un atto molto, molto grave.  

Si parla di questa modifica alle Linee guida circa l’aborto farmacologico come una procedura che rispetta la legge 194. Ma è proprio vero? Ricordo bene che la legge in sé all’articolo 1 e 2 chiedeva di provare ad evitare l’aborto e affidava ai consultori l’incarico di “far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”. Qui si tratta di semplificare la procedura fino a renderla facile come bere un bicchier d’acqua, da questo punto di vista non le sembra che la legge sia stata superata?

La legge è stata superata e completamente disattesa da 40 anni. Io ritengo che questa legge non sia una legge buona perché ha prodotto nel corso dei decenni perdite di vite umane (fino ad oggi 6.300.000 bambini) ha aumentato la prevalenza dell’aborto eugenetico di più di 10 volte (dallo 0,5% del 1981 al 5,8% del 2018) quindi è una legge eugenistica e mentre plaude alla diminuzione del numero degli aborti nel corso degli anni, non tiene conto del diminuito tasso di fecondità della donna e dell’esplosione dell’aborto con la pillola del giorno dopo e dei 5 giorni dopo. Infine, le relazioni che il Ministero fa conoscere, sono molto incomplete e fortemente omissive. 

Il racconto mediatico presenta spesso la prassi abortiva come una pratica indolore e senza alcuna implicazione umana… qual è la sua esperienza? Pur non avendo mai effettuato aborti si è mai trovato a raccogliere i cocci di una madre che ha abortito?

Il racconto mediatico propone grandi menzogne esistenziali con la connivenza di una certa scienza che potrebbe parlare e non parla. Assumere una pillola abortiva non è come assumere un’aspirina per il mal di testa perché la banalizzazione dell’atto nasconde, subdolamente, la separazione della madre dal figlio e il lutto che ne consegue, con una devastazione psicologica molto forte. Non è indolore sul piano fisico perché vi sono contrazioni dolorosissime e non è indolore sul piano psichico perché abbiamo visto che iper-responsabilizza la donna. Non è sicuro perché nel caso della RU486 vi sono complicazioni emorragiche (American College of Obstetricians and Gynecologists, Acog, “Practical Bulletin, 143, 2014) tali da portare anche a trasfusioni (Royal College of Obstetricians and Gynecolgists, Rcog, Guidelines, 2011; Update Guidelines, March 2, 2020) fino a 6 volte superiori ad altre pratiche abortive (Chinese Cochrane Center 2004 Jan; 39(1):39-42 ) fino ad esiti letali con decesso della paziente (Istituto Superiore Sanità, Primo Rapporto it OSS: Sorveglianza della mortalità materna, 2019). Un organismo britannico, il National Institute for Health and Care Excellence (Nice), deputato a stabilire le buone pratiche di condotta clinica, riporta che dopo l’assunzione della pillola abortiva la gravidanza potrebbe proseguire non essendo stata efficace nell’azione abortiva (Abortion Care Nice Guidelines – September 25, 2019). Tale probabilità diventa più elevata man mano che aumenta l’epoca gestazionale in cui si assume la pillola abortiva. Il fatto che la gravidanza possa continuare dopo la pratica abortiva, riespone la donna a un ulteriore impatto psicologico devastante poiché dovrebbe di nuovo fare delle scelte. Se la donna rivedesse la sua scelta e volesse portare avanti la gravidanza, si troverebbe dinanzi a un ulteriore problema da affrontare, dato che l’uso della pillola abortiva può causare malformazioni fetali. Se invece, volesse ripetere la pratica abortiva dovrebbe utilizzare farmaci a dosaggi più elevati, con sintomi e rischi ancora più rilevanti. Tutto questo è aggravato da una carente informazione, dalla non attesa dei 7 giorni, come dice la legge 194 e dal fatto che, nel caso specifico delle Linee guida del Ministero della Salute, le conseguenze fisiche e psichiche tra l’aborto farmacologico e quello chirurgico sono state considerate comparabili: il che non è affatto vero. Infine, vogliono tirare dentro i Consultori come luoghi dove può essere effettuato l’aborto farmacologico, stravolgendo completamente le finalità di una struttura che, come dice la legge 194, doveva lavorare per contrastare la diffusione dell’aborto visto oggettivamente da tutti come una tragedia personale, di coppia e familiare. La conseguenza di tutto ciò è esporre tante donne alla devastazione del proprio futuro procreativo. L’esperienza che ho fatto con molte donne con problemi di poliabortività spontanea, è la grande sofferenza di aver perso i figli. È questo il termine che le madri danno agli embrioni. Nessuna donna mai mi ha parlato della perdita di un embrione. Mi ha sempre parlato di aver perso uno o più figli. Ecco perché da molti anni vado dicendo che il concetto di proporzionalità traumatica non esiste. La proporzionalità traumatica è un concetto che vorrebbe dare un significato quantitativo alla sofferenza delle donne affermando che il loro dolore dopo un aborto spontaneo al 2° mese, possa essere inferiore a quello della perdita di un feto al 5° mese: piccolo embrione, piccolo trauma. Tuttavia, la verità esistenziale di questo fenomeno non è così poiché 

l’elaborazione della perdita del figlio (e quindi la sofferenza materna) non è proporzionale alle dimensioni dell’embrione e/o del feto in termini di centimetri di lunghezza e/o di grammi di peso ma è proporzionale alla perdita della presenza del figlio, indipendentemente dalle dimensioni. 

La prova sperimentale di questa affermazione proviene dalle stesse donne, le quali, come ho già scritto molte volte, nel colloquio, durante la consulenza clinica, ripetono lo stesso ritornello: “Professore come devo fare per farlo capire ai miei familiari e amici che mi dicono che l’embrione era piccolo? Io soffro come se avessi perso un figlio di 1.60 metri di altezza e 70 Kg di peso”. E io di rimando dico: “Lo dica a me!”. Avendo seguito più di 400 coppie con aborti spontanei ripetuti, questa esperienza è un fatto sperimentale, diretto, registrato dalla mia persona in tantissimi casi. Ho pubblicato più di 10 anni fa che il recupero della capacità gestazionale per queste coppie è possibile con indagini diagnostiche di un protocollo ormai standard in tutto il mondo, a cui si aggiunge la necessità di un supporto psicologico: nel primo gruppo (solo protocollo diagnostico e terapeutico) il tasso di successo clinico è stato del 32% mentre nel secondo gruppo (protocollo più supporto psicoterapeutico) il successo clinico è stato del 72%. Tutto ciò dimostra che la relazione tra il figlio e la madre, fin da subito, comporta un vissuto della donna con una percezione di presenza del proprio figlio del 100% e che per riaprirsi alla ricerca di un figlio successivo è necessario sanare le ferite del lutto precedente. Se tutto questo avviene per l’abortività spontanea, quale impatto peggiorativo ci dobbiamo aspettare quando la madre sceglie volontariamente di togliere la vita al proprio figlio? In conclusione, dico, il dolore delle donne, la salute delle donne, la dignità delle donne in questa cultura dello scarto viene completamente devastata e non c’è più cieco di chi non vuol vedere. La scienza prenatale ha grandi responsabilità perché non fa sentire la sua voce e la sua autorevolezza sulle dinamiche relazionali devastate dalla separazione del figlio dalla madre, minimizzando l’aspetto medico, silenziando l’aspetto di verità scientifica e inchinandosi alla cultura del potere politico e del politically correct. Quando, anni fa, ci fu un incidente al sistema di refrigerazione degli embrioni congelati al San Filippo Neri di Roma, vennero distrutti centinaia di embrioni congelati. Sulle varie testate giornalistiche il grido delle donne era: “Hanno ucciso i nostri figli!”. La conclusione di tutto questo è che anche per blastocisti microscopicamente non evidenti per l’occhio umano, l’aver generato con il proprio ovulo, una vita umana in vitro, aveva generato una relazionalità tra il figlio e la madre già prima dell’impianto. Chi ha orecchie per intendere, intenda.




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