23 ottobre 2020

23 Ottobre 2020

I figli e quell’incapacità di provare pietà

di Giovanna Abbagnara

In questo tempo caratterizzato dal ritorno feroce e “stranamente inaspettato” del virus più insidioso e subdolo degli ultimi decenni stranamente sembrano siano diminuiti tutti gli altri casi di violenza, di morte, di abusi e soprusi che riempivano le prime pagine di giornali. Evidentemente non è così, solo che non c’è tempo e non c’è spazio per una riflessione più profonda: ci sono i bollettini sanitari, le sintesi e le interpretazioni dei vari Dpcm… insomma ora la priorità è la lotta al coronavirus. Intanto il male prosegue indisturbato la sua avanzata.

Solo negli ultimi due mesi si sono susseguiti episodi di una violenza inaudita: penso ai fratelli Bianchi e al giovane Willy; allo stupro di due ragazzine a Pisticci, all’uccisione di Daniele ed Eleonora, i due fidanzati di Lecce e l’elenco potrebbe facilmente allungarsi.

Tutti gli eventi sopracitati hanno un comune denominatore: una rabbia profonda e una violenza feroce, spesso ingiustificata. Prendiamo l’esempio di Antonio De Marco, l’assassino dei due fidanzati di Lecce: sessanta coltellate. Sessanta, capite? Un piano studiato nel dettaglio anche se non ultimato fino in fondo: avrebbe dovuto prima torturarli e poi ucciderli, lasciando nell’appartamento una scritta dimostrativa. Un’azione spietata di un ragazzo di 21 anni, che voleva diventare infermiere. Perché? Perché De Marco ha progettato e messo in atto un piano così feroce?

È lui stesso che risponde a questa domanda durante la confessione: “Erano troppo felici”. Antonio invidiava la felicità di questi due fidanzati, ma l’invidia può portare a compiere un gesto così estremo? Può un ragazzo a vent’anni essere così pieno di rabbia da uccidere pur di rimuovere quell’emozione negativa e provare sollievo?

Il caso di Lecce è solo l’emblema di tutti gli altri casi citati. Tutti coinvolgono giovani o giovanissimi. I nostri ragazzi si sono trasformati in killer? Solo nel dicembre scorso Pietro Genovesi di 20 anni, ubriaco, alla guida della sua auto aveva falciato due ragazzine di 16 anni, Gaia e Camilla, mentre tornavano a casa. Significativo che in Tribunale, quando si è svolto il processo davanti ai genitori distrutti delle due ragazze, il ventenne ha chiesto di parlare ma non per chiedere scusa del suo comportamento ma solo per ribadire che la sua vita era rovinata per sempre.

Come nel caso di Lecce, anche qui emerge una causa narcisista e individualista. Nel primo caso l’invidia per la felicità altrui, qui la mancata presa di coscienza di un atto che ha rubato la vita a due giovani ragazze e distrutte intere famiglie. Ciò che conta è la personale idea di felicità.

Cosa sta succedendo? Che cosa c’è nel cuore di questi giovani? Da dove proviene questa insensibilità, questa crudeltà, questa mancanza di pietà?

Si potrebbe dire che le serie televisive e i video giochi che questi ragazzi cominciano ad usare fin da piccolissimi deformano le loro menti con immagini di violenza e prevaricazioni. Ma c’è qualcosa che ancora sfugge. Sembrano passivi di fronte al dolore altrui, incapaci di compartecipare, di entrare in relazione empatica con gli altri. Sono, non solo chiusi nelle loro camerette dove non si può accedere ma chiusi anche emotivamente e nei pensieri.

Dobbiamo sfondare quelle porte, e non solo delle loro stanze. Bisogna buttare a terra la porta del loro cuore. Offrire modelli di riferimento. Recuperare il dialogo, la fiducia, la relazione. Conosco molti amici/genitori rassegnati. Aspettano che la tempesta dell’adolescenza finisca per poi ragionare con i figli da adulti. Poi scoprono che la distanza si è allargata eccessivamente e non sanno più cosa fare. Dobbiamo salire sulla barca insieme a loro e se possibile recuperare il timone, comunicare la passione, e testimoniare la bellezza di condividere. Faccio un esempio: se un figlio vede un papà che, pur tra mille impegni, cerca di prendersi cura del nonno che vive solo ed è anziano, vede la mamma preoccuparsi della vicina di casa che ha 5 figli e magari non ha mai tempo di preparare un dolce e al mattino si sveglia presto per prepararlo. Insomma se vede la prossimità e la carità in famiglia, il bene che non ha fini utilitaristici e verrà coinvolto magari in questa solidarietà, forse crescerà meno concentrato su stesso, meno preoccupato della propria felicità, meno invidioso… Gettiamo un ponte accanto a tutti questi “io” e creiamo un noi, prima che sia troppo tardi.


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