
L’autocertificazione
di don Silvio Longobardi
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 13,1-9)
In quel tempo, si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
Il commento
“Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò” (13,6). La parabola ha per protagonista un uomo che ha piantato un albero di fichi e cerca i suoi frutti squisiti. Lui sa che quell’albero è capace di portare frutto. Non si pianta un albero di fichi solo per rendere più bello il terreno. Questo contadino è un’immagine efficace della paternità di Dio: prima di chiedere i frutti, il buon Dio si preoccupa di piantare l’albero, in altre parole dona all’uomo tutto ciò che serve per portare frutto. Non è un padrone esigente ma un padre che attende e non si arrende fino a quando non vede germogliare i frutti. Le attese di Dio a volte possono disturbare, a volte ci comportiamo come adolescenti infastiditi dalle attenzioni premurose dei genitori. Vogliamo essere lasciati in pace, rivendichiamo la libertà di decidere se e quando portare frutto. Il Vangelo invece ricorda che Dio ha diritto di intervenire, anche in modo vigoroso, qualche volta a muso duro.
Il giudizio di Dio si presenta come una sentenza: “Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?” (13,7). Il verbo [ekkóptō] indica non solo il senso materiale del tagliare ma contiene anche l’idea del percuotere. È una parola che disturba, anzi pare come un’offesa, specie quando l’ammonimento di Dio ci viene attraverso le persone che esercitano il ministero dell’autorità. In questo caso, non raramente ci chiudiamo in noi stessi oppure reagiamo in malo modo: “Chi sei tu per giudicare? Non posso fare della mia vita quello che voglio?”. L’insegnamento evangelico mette in crisi l’atteggiamento di chi, tutto sommato, si sente o vuole sentirsi soddisfatto di se stesso e di quello che ha fatto. Lo so, riconoscere limiti ed errori è faticoso. Ancora più faticoso è cambiare tattiche e strategie. L’errore più grande è quando pensiamo e diciamo di non poter far di più. In apparenza questa parola è condita di umiltà, in realtà è l’espressione mite della più plateale rassegnazione. Invece di misurarci con le attese di Dio, presentiamo la nostra autocertificazione.
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