Natale

di Assunta Scialdone, teologa

La Luce ha vinto…

25 Dicembre 2020

Presepe

Perché il Figlio di Dio decide di incarnarsi? Anche in questo periodo storico di emergenza sanitaria sembra che il Natale rischi di passare inosservato, rischi di limitarsi a sfiorare le nostre vite senza che queste cambino. Presi dal torpore della preoccupazione di un possibile contagio, rischiamo di perdere l’incontro con la Grazia che passa, oggi e non domani a pandemia conclusa, solo per noi.

«Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10-11). Sono queste le parole dell’Angelo rivolte agli umili pastori di Betlemme che accolgono l’annuncio, forse anche con timore, ma che, fiduciosi, si recano ai piedi della mangiatoia, la culla del Redentore. Perché il Figlio di Dio decide di incarnarsi? Prima della nascita di Cristo l’umanità, fin dalle sue origini storiche, aveva cercato in molti modi di raggiungere Dio perché avvertiva nella sua interiorità una non chiara presenza del Creatore. I tentativi di rappresentarsi e raggiungere Dio oggi risulterebbero “patetici”, se solo ci soffermassimo a pensare alle antiche religioni greca e romana per le quali le divinità erano rappresentate con gli stessi limiti umani. Ad un certo punto della storia un uomo, di nome Abram, figlio di un sacerdote politeista, è scelto da Dio per accogliere la Rivelazione dell’unico vero Dio. Questi, scegliendo Abramo, si china sull’umanità per mostrare il suo vero volto, per svelarle il Suo amore. Il popolo ebraico, da Abramo in poi, vive numerose esperienze, molte delle quali dolorosissime. Proprio attraverso queste esperienze Dio ha rivelato, un po’ alla volta, il Suo volto agli uomini. Proprio tra le righe delle storie di santi e peccatori, infatti, Dio rivela se stesso, chinandosi fino a camminare al fianco dei suoi figli. 

Dio non ha bisogno di rivelarsi e tanto meno di creare il mondo o il genere umano. Nella prima lettera di san Giovanni, tuttavia, si legge che “Dio è amore”, un amore senza le limitazioni umane, perfetto. Intravediamo tale amore nell’atto della creazione attraverso la quale vediamo all’opera l’amore diffusivo di Dio. In definitiva, il mondo è stato creato per renderlo partecipe della vita divina. Intravediamo, ancora, l’amore di Dio nella Sua infinita misericordia perché Egli non abbandona l’uomo al peccato. Anche se l’uomo volta le spalle a Dio, Egli risponde con parole confortanti: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Dio appare, infine, come amore anche nel Suo intimo, come Famiglia Trinitaria. Il popolo d’Israele, un po’ alla volta, ha compreso, attraverso le fasi della rivelazione, che si può essere schiavi non solo degli egiziani, ma anche del peccato e che quindi è necessario un esodo anche dalla schiavitù del peccato, oltre che dalla prigionia egiziana. Comprende che la Terra promessa in fondo finisce con l’essere solo un pallido riflesso della casa celeste che ci attende. Riconosce che la legge non può mai rendere l’uomo giusto e per questo è necessario l’intervento di un Salvatore che, per la seconda volta, si chini sul Suo popolo. Così, al culmine di questa vera e propria pedagogia divina, “nella pienezza del tempo”, Dio agisce nascendo a Betlemme che significa “casa del pane”. Egli, cioè, si rende “pane” disponibile per tutti. Decide di donarsi facendolo, inizialmente, agli umili pastori, non visti di buon grado dagli ebrei “puritani”. 

Maria e Giuseppe decidono di mostrare e offrire il loro unico figlio alle braccia di sconosciuti che dicono di essere venuti ad adorare. Mi soffermo a pensare a quando il Signore ci ha donato le figlie e con quanta cura e protezione le abbiamo accompagnate, soprattutto, nelle prime fasi della loro esistenza. Maria e Giuseppe, invece, comprendono, prima e meglio, che quel Bambino non è per loro, ma proprio per coloro che non riescono ad avere cura della propria stessa vita. Tutti siamo, oggi, un po’ pastori. Presi da tante preoccupazioni ed impegni, a volte, non riusciamo a prenderci cura della nostra vita, della nostra anima che viene invasa dal disordine e, in casi estremi ma per nulla rari, anche dal fetore del peccato mortale. La nostra anima si presenta come la stalla di Betlemme. È facile quindi pensare che il Salvatore sia venuto a sposare, ad unirsi intimamente ed indissolubilmente, proprio alla nostra stalla. “O meraviglioso scambio! Il Creatore ha preso un’anima e un corpo, è nato da una vergine; fatto uomo senza opera d’uomo, ci dona la sua divinità” spazzando via la “stalla”. 

Anche in questo periodo storico di emergenza sanitaria sembra che il Natale rischi di passare inosservato, rischi di limitarsi a sfiorare le nostre vite senza che queste cambino. Presi dal torpore della preoccupazione di un possibile contagio, rischiamo di perdere l’incontro con la Grazia che passa, oggi e non domani a pandemia conclusa, solo per noi. Le parole di sant’Agostino pronunciate nel discorso 185, risultano, mai come oggi, attualissime. Egli scrive: “Svegliati, o uomo: per te Dio si è fatto uomo. «Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5, 14). Per te, dico, Dio si è fatto uomo. Saresti morto per sempre, se egli non fosse nato nel tempo. Non avrebbe liberato dal peccato la tua natura, se non avesse assunto una natura simile a quella del peccato. Una perpetua miseria ti avrebbe posseduto, se non fosse stata elargita questa misericordia. Non avresti riavuto la vita, se egli non si fosse incontrato con la tua stessa morte. Saresti venuto meno, se non ti avesse soccorso. Saresti perito, se non fosse venuto”. Svegliamoci, perché la vera morte è stata sconfitta dall’amore di quel Bambino indifeso. Ebbene sì, la morte, l’odio, l’angoscia, la paura vengono sconfitte dall’amore verso Dio e dall’amore di amicizia che ci unisce ai fratelli e che si rivela proprio in quella grotta. 

In queste settimane che precedono il Natale è stata riproposta in TV la saga di Harry Potter, molto amata dai giovanissimi, giovani ma anche dagli adulti. È sembrata a qualcuno una sorta di preparazione “laica” al Natale. Avendo figlie appartenenti alla categoria dei giovanissimi e giovani, ho seguito i film proposti per condividere con loro quel momento e, magari, tirarne fuori qualche insegnamento, qualche “perla”, seguendo così l’invito di san Paolo che ai tessalonicesi dice: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono” (1Ts 5,21). Si tratta di una saga criticata da alcuni che affermano di intravedere in essa potenze demoniache, eppure quella storia di amicizia cresciuta sullo sfondo della lotta tra il bene e il male è una “lingua” molto conosciuta dai nostri giovani. Nell’episodio “L’ordine della Fenice” viene rappresentata una battaglia tra le potenze del bene e del male. Il male è rappresentato con il simbolo del serpente antico infuocato, mentre il bene con l’acqua pura che a me ricorda tanto il Battesimo. In mezzo a questa lotta c’è Potter, un ragazzo che cerca di ritrovare se stesso, le sue radici, il senso della sua vita. Harry, colpito da un’ulteriore grande sofferenza (il male che gli aveva sottratto i suoi genitori uccidendoli, adesso uccideva anche il suo padrino, unico suo familiare), si trova di fronte ad una grande scelta: la possibilità di uccidere chi gli aveva appena ucciso il padrino. La scena è molto forte. Il male, Voldemort, lo circonda e cerca di penetrare nei suoi pensieri, assumendo le caratteristiche della tentazione strisciante e ammaliatrice, suggerendogli di uccidere il nemico perché è giusto così. Potter attinge alla residua libertà di scelta che gli resta e non uccide. Rifiuta, così, di diventare egli stesso il male. La lotta continua, presentandosi più dura tanto che, nella parte finale, Voldemort arriva a prendere possesso dei pensieri di Potter cercando di trasformarli in odio. Il bene, rappresentato dal maestro Albus Silente, mentre Potter lotta nel suo intimo, gli consegna queste parole: “Non conta quanto siete simili tu e Voldemort, ma quanto non lo siete”.

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Ecco, non conta quanta stalla portiamo nel cuore e se in essa c’è anche il fetore del peccato mortale. Conta quanto Dio ci ama e quanto gli siamo simili. Conta quanta Grazia ci attenderebbe al di fuori di quella stalla, se solo aprissimo le porte per farla entrare in noi. In quel momento il giovane Potter rivive tutti i momenti belli della sua vita, l’amore per i suoi genitori persi, l’amore di amicizia che lo vede legato a tante persone. Alla vista dell’amore custodito nel cuore di Harry il male è disgustato e gli dice: “Sei un debole e uno sciocco Potter, se continui ad essere legato a ciò (all’amore). Perderai ogni cosa!” Potter gli risponde: “Tu sei debole! Non conoscerai mai l’amore e l’amicizia, e mi dispiace!” Con quest’ulteriore scelta di bene Harry sconfigge il male che impaurito scappa da lui. Fatte le dovute proporzioni, questo brano ci fa prendere ulteriore coscienza del vero significato della nascita di Cristo.

Gesù non è un super uomo che combatte i romani. Predica la pace nel bel mezzo dell’oppressione. Combatte l’odio con l’Amore. Ci dona la vita attraverso la sua morte. Insomma rivela agli uomini l’Amore vero, quello che sconfigge la morte, l’odio, la paura e l’angoscia. Gesù s’incarna perché Dio crea l’uomo e lo chiama a partecipare alla sua vita divina. L’uomo, però, è esperienza di tutti, si allontana da Dio e perciò è infelice e si sente perso. Avverte di non poter tornare indietro. Quindi Dio manda suo Figlio che, per amore, dona la Sua vita all’uomo, così chiunque crede in Cristo sarà una creatura nuova. Come nuova creatura, l’uomo diventa tempio dello Spirito Santo che lo innalza alla vita vera nella Santa Trinità. Dio è Amore e proprio in questo amore troviamo l’origine, la redenzione e l’obiettivo finale dell’uomo. Sant’Agostino conclude il suo discorso con queste parole: “Prepariamoci a celebrare in letizia la venuta della nostra salvezza, della nostra redenzione; a celebrare il giorno di festa in cui il grande ed eterno giorno venne dal suo grande ed eterno giorno in questo nostro giorno temporaneo così breve. «Egli è diventato per noi giustizia, santificazione e redenzione perché, come sta scritto, chi si vanta si vanti nel Signore» (1Cor 1, 30-31)”. Allora con trepidazione di cuore gridiamo: “Affrettati, non tardare, Signore Gesù; la tua venuta dia conforto e speranza a coloro che confidano nel tuo amore misericordioso”. 

Con mirabili parole l’allora giovane teologo Joseph Ratzinger (La paura e la speranza, l’ultima di tre meditazioni sul Natale scritte tra il 1959 e il 1960), scriveva: “Cristo, il Salvatore, è qui! Questo ci commuove. Perché quel bambino – il Figlio unigenito di Dio – è posto come segno e garanzia che, nella storia del mondo, l’ultima parola spetta a Dio, proprio a quel bambino lì, che è la verità e l’amore. È questo il senso vero del Natale: è il giorno di nascita della luce invitta, il solstizio d’inverno della storia del mondo che, nell’andamento altalenante di questa nostra storia, ci dà la certezza che anche qui la luce non morirà, ma ha già in pugno la vittoria finale. Il Natale scaccia da noi la seconda e più grande paura, quella che nessuna scienza fisica può fugare: è la paura per l’uomo e di fronte all’uomo stesso. È una certezza divina, per noi, che nelle segrete profondità della storia la Luce ha già vinto e tutti i progressi del male nel mondo, per grandi che siano, mai potranno assolutamente più cambiare il corso delle cose”.




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